Il ricevimento-show alla Casa Bianca messo in piedi da Trump per Al-Jolani nei giorni scorsi ha prodotto, per quest’ultimo, oltre a poco edificanti scene di sottomissione e battute sulla sua possibile poligamia, poca sostanza: l’ennesimo annuncio di sospensione delle sanzioni e qualche promessa vaga di contenimento dell’espansionismo sionista. Tutt’altro clima – per inciso – rispetto all’incontro con Putin, in cui è stato trattato quasi alla pari.
Ciononostante, anche se Israele sta ancora facendo lobbying presso il Congresso per evitare la revoca del Caesar Act – sistema sanzionatorio durissimo che aveva controbuito a sfaldare il regime baathista – l’autoproclamato presidente della Siria sembra essere uscito dalla Casa Bianca con una missione chiara: unirsi alle manovre dell’esercito israeliano contro Hezbollah. Tale missione è mascherata da adesione di Damasco alla coalizione internazionale anti-Isis a guida USA (esiste ancora, anche se fa ridere, visto il passato di Al Jolani).
Vari media mediorientali, infatti, segnalano addensamenti di truppe siriane al confine con il Libano, con annessi tentativi di istallarsi oltre confine, “in particolare nella zona di Wadi al-Thalajat di Ras al-Maara, nella campagna di Damasco”.
Del resto, l’inviato USA per Libano e Siria, l’ineffabile Tom Barrack, aveva chiarito il significato pratico dell’adesione siriana alla coalizione anti-Isis: “Damasco ora ci assisterà attivamente nell’affrontare e smantellare i resti dell’ISIS, dell’IRGC, di Hamas, di Hezbollah e di altre reti terroristiche e si schiererà come partner impegnato nello sforzo globale per garantire la pace”.
La realtà sul terreno, però, è impietosa per le autoproclamate autorità qaediste, in riferimento alla loro capacità di controllo effettivo del territorio. Oltre alla nota questione dell’integrazione dell’area a guida curda del nord-est e ai problemi nel tenere a bada le violenze settarie delle proprie milizie, report d’intelligence, pubblicati da importanti think tank statunitensi, segnalano che Hezbollah sia riuscito a riaprire un canale di rifornimento di armi dall’Iran attraverso la Siria, grazie alla collaborazione di gruppi ex-baathisti e a proprie cellule ancora presenti nelle regioni meridionali del paese, precipitate nel caos.
Di qui i molteplici allarmi da parte dei media mainstream internazionali sulle capacità di ripresa militare del movimento sciita, fino a qualche mese fa dato per spacciato.
Sarebbe questo uno dei motivi che spingono Israele a continuare i propri raid fino a poche decine di chilometri da Damasco, a tenere un atteggiamento ostile verso Al-Jolani e a negargli l’accordo di de-escalation per ottenere il quale l’autoproclamato presidente siriano continua a prostrarsi invano.
Con questi movimenti di truppe, dunque, quest’ultimo prova ancora una volta a mostrarsi ligio nel fare “i compiti a casa” assegnatigli da USA e Israele contro Hezbollah.
Da parte sua, il governo genocida di Tel Aviv sta tentando di convincere i propri alleati euro-atlantici che nessuna delle misure misure “blande” messe in atto contro Hezbollah – l’occupazione di territorio siriano per controllarne le vie di rifornimento, i controlli sulle fonti di finanziamento, i continui raid spacciati come mirati, le pressioni sull’inutile governo libanese, messo ancora più in imbarazzo dai movimenti di truppe siriane fin dentro i propri confini – ne stiano fermando il riarmo.
Pertanto starebbe diventando “necessaria” una ripresa dell’aggressione al Libano. La finestra temporale è abbastanza stretta, poiché nel 2026 sono previste le elezioni di medio termine negli USA, nonché elezioni politiche in Israele stesso ed anche in Libano. Il quadro politico potrebbe insomma cambiare presto, e in senso non positivo per il “piano” statunitense-israeliano.
Intanto anche Hezbollah si prepara. Non è dato sapere quanto queste notizie sul suo riarmo siano vere e quanto costituiscano solo un pretesto. Sicuramente non ci sarebbe da stupirsi se fossero veritiere.
Effettivamente, le ultime prese di posizione da parte dei suoi dirigenti sono più assertive rispetto ai mesi precedenti. Recentemente, infatti, il movimento sciita ha chiamato il governo di Beirut ad assumersi le proprie responsabilità nella difesa del paese dalla continue violazioni israeliane e, nel ribadire la propria adesione ai termini del cessate il fuoco, ne ha perimetrato la validità: “Il cessate il fuoco si applica solo alle aree a sud del fiume Litani”, ha affermato il Segretario Generale Naim Qassem.
Quindi, per parafrasare, al sud deve pensare il governo, se ne è capace. Se non ne è capace (e non lo è) e se le milizie qaediste o lo stesso esercito sionista dovessero compire da altre direzioni, la risposta di Hezbollah sarebbe da considerarsi legittima.
Proponiamo un articolo di Al-Akhbar che delinea questo cambio di passo di Hezbollah.
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L’aggressione israeliana mette a dura prova la moderazione di Hezbollah
Per la prima volta dal cessate il fuoco del 27 novembre, fonti dell’intelligence israeliana hanno dichiarato di aspettarsi una risposta di Hezbollah ai recenti raid aerei israeliani. Sebbene questa formulazione sia apparsa solo brevemente nelle fughe di notizie dei media israeliani la scorsa settimana, fonti a conoscenza di queste valutazioni affermano che Tel Aviv ha informato Washington e altri alleati attivi in Libano che le informazioni in possesso dipingono una situazione che va oltre gli sforzi intensificati da parte di Hezbollah per ricostruire le sue infrastrutture militari e la costruzione di siti fortificati.
Secondo le stesse fonti, l’intelligence israeliana ritiene, inoltre, che il partito stia studiando la possibilità di una risposta militare, senza fornire ulteriori dettagli.
In Libano, l’intensificazione dell’attività da parte di diplomatici, funzionari della sicurezza e giornalisti stranieri segnala solitamente che si stanno verificando sviluppi significativi. Gli osservatori hanno notato una linea di indagine comune sollevata da questi visitatori: tutte ruotano attorno alla valutazione delle capacità e delle intenzioni di Hezbollah.
Coloro che hanno stretti legami con le missioni straniere notano che l’obiettivo primario di queste indagini è ottenere informazioni dirette sulla Resistenza. Sorprendentemente, molti di questi interlocutori stranieri ora ammettono che le questioni non sono più così chiare o accessibili come un tempo; È diventato difficile sapere chi possiede effettivamente informazioni affidabili sulla situazione interna di Hezbollah.
I recenti sviluppi indicano una crescente pressione internazionale e un coordinamento intensificato tra gli alleati di Washington. Gli Stati Uniti continuano a parlare di una scadenza di fine anno per il Libano, e la definiscono “nuova fase” nella missione di disarmo di Hezbollah. I membri di una recente delegazione del Tesoro statunitense a Beirut avrebbero fatto pressioni affinché venissero prese misure concrete per “esaurire” le risorse finanziarie del partito prima della fine dell’anno.
Anche l’Egitto, che si è coordinato con gli Stati Uniti, ha indicato la possibilità di progressi prima della fine dell’anno, ma ha collegato ciò all’attuale pressione statunitense affinché si dia seguito all’accordo di Gaza e all’intenzione di Washington di iniziare a ritirarsi da diversi dossier regionali all’inizio del prossimo anno, quando l’amministrazione statunitense sposterà l’attenzione sulle elezioni di medio termine.
Gli analisti militari e della sicurezza israeliani hanno parlato di una “ristretta finestra di opportunità” per un’azione contro il Libano, influenzata da due scadenze politiche sovrapposte: le elezioni statunitensi e quelle israeliane. Essi suggeriscono che Israele potrebbe sfruttare l’attuale stato di allerta militare per portare a termine un’operazione su vasta scala, sostenendo che qualsiasi ritardo potrebbe complicare il contesto regionale e nazionale in modi che renderebbero più difficile giustificare o eseguire tale operazione.
Nelle ultime due settimane, diverse delegazioni di media stranieri hanno visitato il Libano per “prepararsi a scenari diversi”, come hanno affermato alcuni giornalisti. Un corrispondente europeo ha suggerito che è improbabile che Israele intraprenda un’operazione su larga scala prima della visita del Papa in Libano il mese prossimo, ma potrebbe agire con maggiore libertà una volta finita l’anno.
Questi indicatori, tuttavia, non costituiscono una lettura solida o scientifica delle intenzioni di Israele. Israele è inquieto sia internamente che esternamente; l’amministrazione Trump continua a fare pressione a Gaza per proteggere l’accordo, cercando al contempo un parallelo accordo di sicurezza siriano-israeliano – pur sapendo che non tutti gli sviluppi servono gli interessi israeliani.
Ma questo non significa che gli Stati Uniti controllino le decisioni di guerra e di pace di Israele. L’esperienza ha dimostrato che i leader israeliani, in particolare la cerchia di Benjamin Netanyahu, non esitano ad adottare misure unilaterali anche quando si discostano dai calcoli di Washington. Il tempismo, da solo, raramente è decisivo nelle decisioni di Tel Aviv di dichiarare guerra.
Il vero cambiamento nell’attuale dossier è avvenuto con il discorso del Segretario Generale di Hezbollah, lo sceicco Naim Qassem, di due giorni fa, in cui ha affermato esplicitamente: “Il cessate il fuoco si applica solo alle aree a sud del fiume Litani (…) Non vi è alcuna minaccia per gli insediamenti [del nord di Israele]. Il Sud è responsabilità del governo, del popolo e della Resistenza. Qualsiasi spargimento di sangue lì colpirà tutto il Libano a causa degli Stati Uniti e di Israele. Non c’è alcun sostituto per l’accordo [del cessate il fuoco di novembre 2024], né alcuna assoluzione per il nemico israeliano attraverso un altro accordo“.
Ha aggiunto: “La continuazione dell’aggressione, delle uccisioni e della distruzione non può continuare all’infinito. Tutto ha un limite. Non dirò altro. Chi di dovere prenda in considerazione queste problematiche che non possono essere più sopportate. Siamo un popolo vivo; la guerra ci ha ferito profondamente, ma restiamo vivi, coraggiosi e resistiamo“.
La scelta delle parole da parte di Qassem, “Non parlerò ulteriormente della questione“, rappresenta un’estensione della consolidata “politica di ambiguità” di Hezbollah riguardo alle azioni e alle intenzioni della Resistenza. Questo approccio deliberato è in linea con una strategia che il partito ha affinato nel corso degli anni: entrare nell’ignoto come forma di deterrenza. È anche una risposta pragmatica alle falle nell’intelligence scoperte durante l’ultima guerra e una precauzione nel contesto dell’estesa attività di spionaggio diretta contro Hezbollah da più fronti.
Tale attività non è più limitata all’apparato di intelligence israeliano. Gli Stati Uniti conducono una campagna più ampia, supervisionando istituzioni vitali in Libano, mentre attori europei e arabi conducono anch’essi attività di spionaggio parallele. Gli agenti dell’intelligence occidentale sono ora profondamente radicati in luoghi sensibili e Israele stesso ha acquisito maggiore audacia nelle sue operazioni di intelligence umana e, a quanto si dice, ha ampliato la sua capacità di raggiungere siti infrastrutturali chiave.
Le indagini su una rete di spionaggio recentemente scoperta, presumibilmente gestita da un agente siro-ucraino, hanno rivelato che a un agente è stato ordinato di piazzare un veicolo nel parcheggio scoperto del terminal VIP dell’aeroporto di Beirut. Il suo responsabile israeliano gli ha promesso una tessera speciale per accedere all’area riservata.
Ciò suggerisce o che Israele esercita un’influenza diretta sufficiente ad ottenere simili autorizzazioni, oppure che gode della facilitazione occidentale attraverso alleati muniti della possibilità di accedere alle zone più sicure dell’aeroporto.
In questo contesto complesso, le parole di Qassem sono un segnale chiaro. La sua dichiarazione secondo cui “la continuazione dell’aggressione non può continuare all’infinito” equivale al primo avvertimento di Hezbollah, rivolto non solo al nemico, ma a tutti gli attori nazionali e stranieri coinvolti: la Resistenza ha raggiunto, o è prossima a raggiungere, un livello di prontezza che le consente di avviare un’azione militare in risposta all’aggressione quotidiana di Israele.
D’ora in poi, l’attenzione deve spostarsi dalle fughe di notizie a Tel Aviv alle dichiarazioni e alle azioni degli inviati regionali e internazionali. La Resistenza ha chiarito di non volere la guerra. Qassem ha sottolineato che il cessate il fuoco stesso garantisce, implicitamente, la sicurezza degli insediamenti nel nord di Israele, a dimostrazione della volontà di Hezbollah di rispettare l’accordo, a condizione che il mondo obblighi Israele a fare lo stesso.
Ma se Israele dovesse persistere nell’agire come se non esistesse alcun accordo, si aprirebbe la strada a sviluppi la cui natura, portata, tempi e obiettivi nessuno può prevedere.
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