E’ una fotografia che accomuna tutto il pianeta (è di pochi giorni fa lo sciopero generale dei negozianti indiani contro la liberalizzazione delle licenze per gli ipermercati). E’ un mutamento della composzione sociale che travolge direttamente la piccola e piccolissima borghesia, l’artigianato,gli ambulanti, ecc. Una “proletarizzazione” violenta che avviene in regimedi crisi occupazionale perenne. Perché dall’altro lato i grandi aggregati produttivi o distributivi crescono – quando riescono a crescere – proprio sul “risparmio di lavoro vivo” permesso dalle economie di scala.
Ed ecco i dati di Confcommercio sull’Italia quest’anno.
Crisi e calo dei consumi si ripercuotono sui piccoli esercizi al dettaglio il cui stock, pari a poco più di 757mila unità nel 2011, è in diminuzione rispetto al 2010 (-0,1%); in flessione anche il fatturato di questa tipologia distributiva (-2,6% nei primi sei mesi del 2012), mentre cresce quello dei discount (+1,8%) e dei supermercati (+1,4%). Questi i dati sulla struttura territoriale della distribuzione commerciale per canale di vendita contenuti nel “Rapporto sulle economie territoriali e il terziario di mercato” realizzato dall’Ufficio Studi Confcommercio. Molise (-1,9%), Friuli Venezia Giulia (-1,1%) e Liguria (-0,9%), le regioni che, nel complesso, registrano le maggiori “perdite” di esercizi; tra i comparti merceologici, spicca l’aumento nel settore delle apparecchiature informatiche e telecomunicazioni (con un +2,6% di esercizi), mentre si conferma lo stato di difficoltà dei negozi di mobili e arredamento che si sono ridotti dell’1,3% con punte di quasi il 2% al Sud e nel Nord-Est; prosegue lo sviluppo delle medie e grandi superfici, con minimercati e supermercati che aumentano prevalentemente al Centro e al Sud e ipermercati e grandi magazzini in espansione al Nord; rilevante, nel sistema distributivo italiano, il ruolo di altre tipologie di vendita che hanno raggiunto ormai un elevato livello di diffusione, come il commercio ambulante (oltre 175 mila imprese di cui quasi la metà al Sud), le imprese di e-commerce (+19% rispetto al 2010), e la vendita attraverso i distributori automatici (oltre 2 milioni di macchine installate in Italia). Tra il terzo trimestre del 2007, punto di massimo per l’economia italiana, e il secondo trimestre del 2012, i consumi pro capite degli italiani sono diminuiti in termini reali del 6,5%. Il 2012 dovrebbe presentare la peggiore variazione negativa della spesa reale pro capite della storia della repubblica (oltre il -3%). All’interno di questo perimetro fortemente recessivo, solo pochissimi settori di spesa (la telefonia e l’informatica) e solo un canale di distribuzione, il discount, tengono i livelli di fatturato reale del 2011. Si comprimono i redditi dei cittadini italiani e ciò, trasferendosi nella depressione dei consumi, colpisce tutto il sistema commerciale, soprattutto nelle componenti meno caratterizzate da efficienza di costo e capacità d’innovazione. Nel 1° semestre del 2012, infatti, la grande distribuzione nel complesso ha registrato in termini tendenziali un modesto incremento (+0,1%), contro una flessione del 2,6% del fatturato delle imprese operanti su piccole superfici. A tenere un profilo di crescita più dinamico nei primi 6 mesi dell’anno sono solo i discount (+1,8%) ed i supermercati (+1,4%). E’ del tutto evidente che al netto di un’inflazione di poco superiore al 3%, il potere d’acquisto del sistema commerciale si sia ovunque ridotto. E’ difficile immaginare dinamiche di prezzo molto differenziate tra canali di vendita. La forte concorrenza che caratterizza il nostro pluralismo distributivo, non consente rendite di posizione di alcun genere, a differenza di quanto accade in altri settori produttivi ancora protetti. A conferma di queste valutazioni, la Nielsen rileva che nei primi sette mesi del 2012 il prezzo medio del venduto presso gli ipermercati è cresciuto del 2,4%, quello del venduto nei negozi tradizionali dell’1,1%. In entrambi i casi si tratta di dinamiche distanti dall’inflazione media: che è inflazione da materie prime, soprattutto energetiche, e da politiche fiscali restrittive (accise e Iva). Gli effetti della forte e duratura contrazione della domanda si sono tradotti in un mutamento radicale delle quote di mercato, a detrimento dei negozi tradizionali e a favore del discount che ha raggiunto una quota di mercato, in termini di fatturato, pari a circail 10% sul totale dei consumi alimentari, delle spese per la persona e del chimico casa. Tutto ciò conduce al ridimensionamento, lento ma inesorabile, dei negozi che animano i tanti centri storici del nostro paese. non è un fenomeno fisiologico di selezione dei migliori, che avrebbe riflessi positivi sulla produttività aggregata, ma è evento patologico, che affonda le radici nella crisi dei redditi e nella conseguente riduzione dei consumi delle famiglie.
La distribuzione regionale dello stock di imprese commerciali e le dinamiche settoriali della nati-mortalità riflettono la declinazione territoriale di questi feonomeni. Il Mezzogiorno risulta particolarmente colpito nel corso del 2011. La cosa non può e non deve stupire, anche soltanto in considerazione del fatto che dei 3,4 milioni di persone assolutamente povere, quelle che secondo l’Istat non sono in grado di acquistare un paniere minimo di beni e servizi di sussistenza, il 54% risiede al Sud. In altri termini l’8,8% della popolazione del Mezzogiorno è da considerarsi povero nel senso assoluto sopra precisato. Gli imprenditori del commercio nel Mezzogiorno sono tra i primi a pagare le conseguenze di queste dinamiche eccezionalmente critiche.
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