È stato pubblicato in questi giorni un nuovo lavoro di studio nazionale e internazionale del centro studi Cestes realizzato dal gruppo di ricerca (R. Martufi, E.Papi, L.Vasapollo, G.Cremaschi, L. Marinelli, M. Madafferi e altri).
Si tratta del quaderno Cestes numero 19 sul tema: “Dopo la guerra dei trent’anni…non è escluso il ritorno”. Il quaderno è dedicato alla centralità del conflitto capitale – lavoro con la questione del salario diretto, indiretto e differito con una precisa e diretta destrutturazione diventata per responsabilità dei padroni, dei governi di centro destra e centro sinistra e della complicità della triplice CGIL -CISL- UIL, da anni una vera e propria emergenza sociale e politica nel nostro paese e nei paesi Sud della Europa.
Nell’Unione Europea, le disparità nazionali di reddito continuano a non ridursi (a differenza di quello che succede con le misure nazionali) e questo nonostante gli importanti trasferimenti connessi ai fondi strutturali.
Non è un caso che nell’Italia degli anni ’90 siano proprio i governi tecnici e di centrosinistra (Ciampi, Amato, D’Alema, Prodi, ecc.) a meglio rispondere ai dettami dei poteri forti europei.
Sono i governi di centro-sinistra, che aprono la via alle liberalizzazioni, alle privatizzazioni, al taglio del Welfare, alla precarizzazione del lavoro. Il tutto in nome del “divino” euro.
Appena nata la moneta europea, temendo che potesse rafforzarsi sui mercati e diventare strumento di riserva valutaria internazionale, è iniziato l’attacco frontale degli Stati Uniti, capaci di attirare enormi quantità di capitali europei attraverso gli alti tassi d’interesse americani e l’ipertrofia di un’economia finanziata proprio dal denaro proveniente dalla vecchia Europa.
Quest’ultima da una parte sceglie politiche monetariste restrittive per il rispetto dei criteri finanziari di Maastricht, che hanno provocato disoccupazione e accresciuto i disagi sociali, dall’altra parte è politicamente troppo debole e frammentata per contrapporsi da subito e in maniera adeguata allo strapotere statunitense.
A tutto ciò si aggiunga che la politica monetaria imposta dalla Banca Centrale Europea tende a ribadire ai vari governi i vincoli restrittivi in modo da sfruttare la favorevole situazione economica per risanare i bilanci pubblici e ridurre il debito pubblico senza alcun intervento espansivo dell’economia in termini occupazionali.
L’Europa in realtà punta a una continua competizione con la crescita statunitense incentrata sulla stabilita dei prezzi, stimolando la crescita di un’economia di scambi facili ad alta redditività nei servizi, specie sul lato della finanza, rafforzando i processi di finanziarizzazione ed imponendo riforme strutturali che puntino alla liberalizzazione (cioè privatizzazione) delle prestazioni sociali e alla rimozione i qualsiasi forma di rigidità del mercato del lavoro, cioè flessibilità e precarizzazione allargata al massimo.
Dal 1981, iniziarono i processi di ristrutturazione della politica economica. Le previsioni si concretizzavano nella riduzione veloce e sostenuta dell’inflazione, nella riduzione della disoccupazione, e nella drastica diminuzione del deficit fiscale.
Inoltre, l’arma della crisi del petrolio era stata usata pesantemente negli anni ’70: due terribili attacchi pilotati con enormi rincari dei prezzi del petrolio misero, infatti, in crisi il primo tentativo dell’Europa di creare un blocco economico antagonista a quello statunitense, attraverso la costruzione del “Serpente Monetario”.
L’euro ha permesso una riduzione drastica dei tassi di interesse nei Paesi della periferia del continente. Però in assenza di meccanismi pubblici e sociali che avrebbero potuto canalizzare il credito minimo verso la creazione di attività produttive e occupazione – così da soddisfare le necessità sociali –, è stato consentito che il capitale utilizzasse il credito per occultare la stagnazione dell’accumulazione attraverso un’enorme accumulazione del debito privato.
Questo significa che se prima dell’entrata in funzione dell’euro in Italia servivano 0,98 centesimi di euro di credito per generare 1 euro di valore aggiunto, nel 2010 si creano 1,6 euro di credito per ciascun euro di valore aggiunto.
La presenza di altri problemi, utilizzati per giustificare l’austerità, era in campo già dagli anni ’60 attraverso un crescente divario tra le risorse fiscali mobilitate dai governi e le necessità di spesa sotto la duplice pressione degli investimenti capitalistici, e della crescente pressione sulle finanze.
Una condizione difficile basata su un delicato “compromesso” (in realtà una dinamica conflittuale) tra aumento della spesa in equilibrio instabile e aumento del debito nominale, alta inflazione che ne mina il valore reale, ricerca della crescita della produttività e dei consumi e dei salari, sostenuta dagli investimenti statali (da incentivi e spesa pubblica) in gran parte privatizzati (come sottolinea Minsky).
Un modello dinamico in una situazione costantemente instabile in cui le direzioni causali sono altamente incerte. Quando le condizioni interne ed esterne, soprattutto nel centro imperiale, decidono la loro fine e così via dopo la fine dell’inflazione (1980, secondo la severa politica di Volker).
Pertanto, come conseguenza di questi fattori non semplici con la stabilizzazione monetaria, la disoccupazione è cronica e con tassi altissimi, provocando un aumento della spesa sociale fino a quando, con un ritardo di una decina d’anni, è stata nuovamente controllata da parte delle riforme neoliberiste.
Negli anni ’90, in un contesto di progressivo accumulo del debito pubblico, si sono evidenziati un insieme di fattori, tra cui la riduzione delle tasse alle classi superiori negli anni ’80 e ’90 (si pensi alle politiche portate avanti da Reagan e Bush.
La questione della nuova classe operaia è permeata da numerose condizioni avverse sia dal punto di vista della qualità del lavoro che del livello dei salari diretti, indiretti e differiti, considerando anche l’evoluzione di tale situazione nell’ambito geografico e temporale. In linea generale, ciò è funzionale all’accumulazione di capitale e alla competitività sempre maggiore delle imprese.
In primo luogo, nel passaggio dal fordismo al post-fordismo si sono verificati numerosi cambiamenti sia nell’organizzazione del lavoro inteso come processo di produzione, sia nella composizione della classe operaia, nella fabbrica sociale diffusa, tanto è vero che si può parlare di una nuova classe operaia composta non più dall’operaio-massa, ma dal lavoratore flessibile ed eterogeneo sotto vari punti di vista.
Le caratteristiche del lavoro flessibile sono l’instabilità del contratto, l’insicurezza, l’orario di lavoro flessibile, le disuguaglianze nella retribuzione, la minore rappresentanza e sicurezza sociale e la più scarsa sicurezza del lavoro.
Risulta inoltre imprescindibile analizzare la questione della nuova classe operaia nel contesto dell’Unione europea, in quanto l’integrazione economica e monetaria ha comportato un’importante evoluzione dal punto di vista delle condizioni salariali dei lavoratori, le quali devono essere a loro volta interpretate in base alla modificazione del potere d’acquisto nel corso degli anni.
Ciò conferma l’oggettività della situazione di un’“Europa a due velocità”, secondo cui i paesi centrali e settentrionali riescono a conseguire uno sviluppo relativamente sostenuto e costante anche per quanto riguarda la condizione delle classi lavoratrici, mentre nei paesi mediterranei (PIGS) le retribuzioni sono inferiori e, inoltre, con l’adozione dell’euro vi è stato imposto un cambio molto elevato che ha determinato una drastica riduzione del potere d’acquisto.
La riduzione del monte salari complessivo nella redistribuzione del PIL ne diminuisce ovviamente la capacità di acquisto e la propensione al risparmio, tramutando l’operatore famiglia, quindi i lavoratori, da risparmiatori creditori a consumatori poveri indebitati, con l’aumento delle mille forme di ricorso al debito per sostenere i consumi anche di prima necessità.
Si osserva chiaramente che nel 1969 il salario rappresentava solo il 30,7% del valore aggiunto e ciò significa che, a paragone con il 1947, i lavoratori avevano perso il 10% a causa della tendenza iniziata a manifestarsi subito dopo la Seconda guerra mondiale.
Non è difficile capire, secondo i dati, come fosse danneggiato il livello di consumo dei lavoratori. Questa situazione corrisponde alle informazioni esistenti rispetto all’andamento della quota del plusvalore dello stesso periodo: 146% nel 1947; 18% nel 1957 e 226% nel 1969 (Perlo 1980: 26).
Non è nemmeno difficile rendersi conto che, durante il periodo analizzato, il reddito reale o netto aumentò solo poco meno del 50% rispetto all’incremento dell’indice di produttività; ovviamente a tale situazione corrisponde quella di notevoli incrementi nella quota del plusvalore. Tutto ciò non fece altro che ripercuotersi sul restringimento della base del mercato di massa dei beni di consumo di uso personale, come era già accaduto con l’economia nordamericana.
Ciò fu aggravato dal processo inflazionista. Vi era la tendenza a identificare ogni incremento dei prezzi con l’inflazione, ma ci sono stati dei periodi in cui i prezzi sono aumentati senza inflazione, come nel caso degli incrementi stagionali e degli incrementi ciclici. Ma i continui aumenti dei prezzi dalla seconda metà degli anni ’70 sono stati soprattutto inflazionisti.
La grande sproporzione tra l’emissione di denaro ed il movimento delle merci e dei servizi è stata la causa principale della tendenza ascendente dei prezzi, e quindi era giusto parlare in quel periodo d’inflazione cronica.
Applicare ad ogni incremento dei prezzi la definizione di inflazione rende più facile nascondere le vere cause, e pertanto anche quelle più profonde, dell’aumento dei prezzi, tendenza molto marcata nel pensiero di alcuni economisti nordamericani particolarmente interessati a lasciare le cose sul piano meramente superficiale.
Nonostante ciò, l’inflazione monetaria non fu in realtà l’unico fattore coinvolto nell’aumento dei prezzi negli anni ’70 e ’80, né fu l’unico strumento della politica destinato a creare aumenti selettivi.
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Paolo De Marco
Forse un erroredi tipografia? Si andava meglio durante la Seconda Guerra Mmondiale in Italia, oppure prima della « cacciata » del PCI dal governo? Citazione « Si osserva chiaramente che nel 1969 il salario rappresentava solo il 30,7% del valore aggiunto e ciò significa che, a paragone con il 1947, i lavoratori avevano perso il 10% a causa della tendenza iniziata a manifestarsi subito dopo la Seconda guerra mondiale. »
Comunque leggo in questo medesimo sito – Gigi Sartorelli, 2023-03-07 – « che (secondo Pasquale Tridico) nell’ultimo trentennio i salari medi sono diminuiti, nonostante la produttività sia aumentata del 10-12%. A conclusione, ribadisce la necessità di introdurre un salario minimo legale.»
Per lo smantellamento dello Stato sociale vedi: http://rivincitasociale.altervista.org/smantellamento-dello-stato-sociale-o-welfare-state-anglo-sassone-e-politiche-neoliberali-monetariste-viste-sotto-langolo-del-contratto-di-lavoro/
e: http://rivincitasociale.altervista.org/disoccupazione-di-massa-come-orizonte-del-capitalismo-moderno/
Vedi pure « Roma città aperta ». Diceva Fellini – Amarcord – « non faceva così buio sin dal 1922 !»
Paolo De Marco