«Un sindacato che non è pronto a scioperare per vincere è come come un lottatore con una mano legata dietro la schiena»
Shawn Fain
Con una diretta su Facebook la mattina di venerdì 29 settembre Shawn Fain, presidente dell’United Auto Workers International (UAW), ha comunicato che lo sciopero per il rinnovo del contratto con le Big 3 (GM, Ford, Stellantis) sarebbe stato esteso a partire dal mezzogiorno di quella giornata ad altri due stabilimenti.
Si sono uniti allo “Stand-up strike” altri 7.000 lavoratori dello stabilimento della General Motors di Lansing, nel Michigan, e quelli dello stabilimento Ford di Chicago.
I due siti producono rispettivamente la Buick Enclave e la Chrevolet Traverse a Lansing, l’Explorer e la Lincoln Avietor a Chicago.
Sono quindi 25mila gli operai della UAW – su 146.000 aderenti – che all’oggi incrociano le braccia, in questa storica azione del sindacato, iniziata il 15 settembre, che per la prima volta nella storia colpisce tutte e tre le case automobilistiche di Detroit.
Prima dell’attuale dirigenza, la tecnica del sindacato da tempo consisteva nel selezionare una delle Big 3 in cui scioperare e trattare contemporaneamente con tutte.
Nel 2019, i 46 mila lavoratori della GM avevano scioperato per più di un mesa (40 giorni), facendo perdere all’azienda circa 3 miliardi di dollari, ma senza che le proprie richieste venissero pienamente soddisfatte.
Ora insieme ai due stabilimenti citati, continuano a scioperare i 38 siti che si occupano dei ricambi di GM e Stellantis, che hanno incrociato le braccia venerdì scorso, dove lavorano 5 mila lavoratori di un settore molto lucrativo per le aziende ma generalmente molto meno per i lavoratori, ed i 13 mila operai alle catene di montaggio delle 3 case automobilistiche in Michigan, Ohio, Missouri.
Si conferma così la linea di uno sciopero “in crescendo” che si estende a scacchiera, senza che la controparte venga preventivamente avvertita. Una linea di condotta che si sta dimostrando un vero e proprio grattacapo per GM, Ford e Stellantis.
Scrive a proposito Luis Felipe Leon su Labor Notes: «La strategia dello Stand-UP strike prende ispirazione da un approccio conosciuto come CHAOS (Create Havoc Around Our System), impiegata la prima volta nel 1993 dai flight attendants dell’Alaska Airlines, che avevanno annunciato che sarebbero stati in sciopero voli random.
Sebbene lo sciopero sia stato attuato solo in 7 tratte in un periodo di due mesi, Alaska era stata costretta a mandare crumiri su ogni aereo. L’imprevedibilità attirò una grande attenzione e mise il management con le spalle al muro. Nel mentre il sindacato riuscì a mantenere la propria forza e a minimizzare i rischi».
Un modulo che si è ripetuto su scala decisamente maggiore nell’attuale sciopero dei lavoratori dell’automotive.
Di fronte ai 60 mila lavoratori che hanno seguito la diretta, Fain si è scusato per il ritardo perché all’ultimo momento il sindacato ha ricevuto una comunicazione dalla Stellantis che fa avanzare in maniera positiva la contrattazione sulle richieste dei lavoratori.
Il presidente della UAW ha ricordato le altre vertenze in cui l’organizzazione è impegnata, riaffermando la natura conflittuale del sindacato: «siamo tornati per lottare» ha detto, per poi ricordare che non si faranno intimidire dalle varie provocazioni ai picchetti che hanno portato scontri violenti con gli scabs (i crumiri), a volte con l’uso di armi da fuoco o tentativi di investire i lavoratori in sciopero.
Ha marcato il fatto che la propria capacità contrattuale deriva dalla forza che viene sviluppata sui posti di lavoro.
Ha ricordato che i lavoratori che non sono stati ancora chiamati allo sciopero devono comunque tenersi pronti e che, essendo scaduto il contratto, non sono più tenuti a fare gli straordinari.
Ha nuovamente invitato i sostenitori ad ingrossare le file dei picchetti, e a formare piccoli gruppi di pressione che trattano e riparano le auto delle Big 3, producendo un canvassing tool kit con istruzioni, volantini, comunicati stampa e talking points.
La battaglia condotta dall’ex elettricista di Kokomo, Indiana, che aveva iniziato a lavorare per la Chrysler (ora Stellantis) nella prima metà degli anni Novanta, e che ricopre da tempo importanti ruoli nel sindacato, ha intanto realizzato un risultato storico, costringendo per la prima volta un presidente degli Stati Uniti (in chiara difficoltà) ad unirsi ad un picchetto. In questo caso in un centro per i ricambi della GM di Willow Run.
Quasi una “inversione ad U” per Biden, che lo scorso dicembre – insieme al Congresso – era intervenuto invece per bloccare uno sciopero nazionale nel settore ferroviario.
É un avvenimento che dà il senso del peso anche politico che sta avendo questo sciopero. Afferma giustamente lo studioso del mondo del lavoro Nelson Lichtenstein: «questo sciopero è diventato un movimento sociale con la capacità di mobilitare un numero enorme di persone della working class dalla parte dei sindacati e quei politici che dimostrano la loro solidarietà con la UAW e altri organizzazioni sindacali».
Ricordando il contributo nello sforzo bellico della Seconda Guerra Mondiale, Fain ha detto: «è una guerra di tipo differente quella che stiamo combattendo. Oggi il nemico non è un qualche paese straniero lontano. E’ proprio qui, nel nostro territorio. E’ l’avarizia della classe imprenditoriale… Ed i veri liberatori sono coloro che appartengono alla classe operaia».
Anche Trump si è recato, come annunciato, a parlare ai lavoratori, ma l’ha fatto in un centro per i ricambi non-sindacalizzato in Michigan, ricevendo dure critiche da parte della UAW.
Il vicepresidente della UAW, Mike Booth, ha stigmatizzato l’azione di Trump accusandolo di aver “fatto finta che questo non centri niente con il nostro sciopero sono delle cagate” (letteralmente: verbal diarrhea).
Mentre il candidato progressista indipendente alle presidenziali, l’afro-americano Cornell West, si è recato a Tappan, nello stato di New York, all’inizio di questa settimana.
E’ segno della “politicizzazione” dello sciopero, riscontrabile già nei primi giorni.
Tutti i sondaggi continuano a marcare un netto sostegno trans-partitico nei confronti dello sciopero dei lavoratori, ed un netto calo nella fiducia nei confronti delle Big 3.
Come ha detto lo storico del movimento operaio Lane Windahm, intervistato insieme ad altri due esperti dalla PBS, i lavoratori della UAW: «sentono che sono parte di qualcosa di più grande di loro (…), percepiscono di essere parte di una sorta di onda a livello nazionale, una insorgenza dei lavoratori» che non si limita al solo settore dell’auto.
La domanda che si pongono i lavoratori della UAW, per Steven Greenhouse, sempre intervistato dalla PBS, è quella del «se non ora, quando? Se non noi, chi?».
I lavoratori del settore dell’auto, infatti, non stanno solo sostenendo una dura battaglia contrattuale, ma portano avanti coscientemente rivendicazioni di classe che parlano a tutta la working class statunitense. E in un momento in cui la crisi ha approfondito la polarizzazione sociale: da un lato i mega profitti delle aziende e dall’altro l’impoverimento delle classi subalterne.
Come giustamente afferma Veena Dubal alla PBS: «il “sogno americano” non era realizzabile per molti gruppi di persone, incluse donne e minoranze etniche, ma in maniera crescente oggi non è alla portata di nessuno».
Nemmeno per quelle porzioni di classe che si ritenevano, non del tutto a torto, facenti parte della middle class.
Ed i lavoratori della UAW – generalmente più anziani delle categorie che si sono mobilitate durante la hot summer dei lavoratori statunitensi, ed in generale dei settori di “nuova” sindacalizzazione – sono portatori di una coscienza del precedente “contratto sociale” strappato con le lotte militanti dalla seconda metà degli anni Trenta in poi, e possono trasmetterla alle nuove generazioni cresciute nella crisi.
Lo sciopero per ora continua e, come ha affermato L.W., «il sindacato sembra che stia mettendo in luce le fragilità dei produttori di automobili nella catena di forniture che funziona con il just-in-time, e dimostrando la propria capacità di romperla».
Come ha ricordato Fain, riprendendo le parole di Solidarity Forever: «Senza il nostro cervello e i nostri muscoli, non gira nemmeno una ruota».
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