Dopo la lettura della sentenza del tribunale di Torino che lunedì ha condannato a sedici anni di carcere i due padroni della Eternit, la gioia, la soddisfazione e l’euforia dei familiari di alcune delle vittime stanno lasciando spazio ad una analisi dettagliata del dispositivo giuridico e in alcuni casi anche alla rabbia e allo sconcerto di altre vittime. La sentenza ha un carattere storico: mai in Italia ed in Europa dei capitalisti (o padroni, se preferite) erano stati condannati a pene così alte per aver continuato produzioni tossiche e nocive pur sapendo di mandare a morte lavoratori e familiari. Ma la sentenza di Torino lascia impuniti i crimini commessi dai vertici dell’azienda in alcuni importanti territori del paese dovela Eternitaveva alcuni stabilimenti. Infatti il giudice Giuseppe Casalbore ha dichiarato la prescrizione dei reati relativi alle fabbriche di Rubiera e di Bagnoli. Per chi si è ammalato o ha vissuto il dolore per la perdita di un genitore o di un marito é ora difficile accettare l’idea che per alcune vittime venga fatta giustizia e vengano riconosciuti i risarcimenti, e per altre no. Non nasconde la sua rabbia Attilia Cardella, 73 anni, che nello stabilimento napoletano ha lavorato dal 1955 al 1983. Orfana di guerra, era stata assunta quando aveva appena 16 anni. Nel 1978 si ammalò di asbestosi: «Prescrizione? e che significa questa parola? io so solo che le vite di noi di Bagnoli e le vite degli operai di Casale valgono allo stesso modo. Siamo anche noi poveri cristiani: non è una questione di risarcimenti, vorrei solo che si facesse giustizia. Dico giustizia». I suoi ricordi sono vividi e dolorosi: «Si lavorava solo con i guanti per evitare di ferirci alle mani, ma la polvere era dappertutto. E si alzava anche se solo si camminava nel reparto. Solo negli ultimi anni abbiamo utilizzato le mascherine». «Ogni tanto – aggiunge – so di qualcuno che ci ha lasciati, nello stabilimento eravamo oltre 1200. E proprio per questo noi abbiamo il dovere di non arrenderci. Contro l’amianto killer non c’è alcuna prescrizione che tenga». Carlo Finardi ora ha 88 anni. Ricorda ancora il giorno in cui entrò nello stabilimento di Bagnoli. “Alla selezione si presentarono in 10 ma fummo assunti in due. Si lavorava su due turni: dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 2. E io da Bacoli ogni giorno raggiungevo lo stabilimento in sella ad un bicicletta”. Si è ammalato di asbestosi. Ora è in pensione, dal febbraio del 1982.
Ma anche a Casale, seppur soddisfatti, si mettono in evidenza alcuni problemi con i quali dovranno fare i conti i beneficiari della sentenza. Nel centro piemontese c’è addirittura chi teme che i soldi dell’Eternit non arriveranno mai. I timori li esplicita il sindaco Giorgio Demezzi: «A meno che gli imputati non paghino spontaneamente, e mi sembra difficile, le procedure per ottenere il loro denaro sono molto complicate e, soprattutto, hanno tempi lunghissimi». È più o meno questa la risposta che, in Municipio, forniscono a chi domanda come saranno utilizzati quei 25 milioni nella città che all’amianto, con i suoi 1.800 morti e i suoi 50 nuovi casi all’anno, ha pagato il tributo più alto. Con la sentenza di lunedì, migliaia di casalesi hanno ottenuto singolarmente fra i 30 e i 35 mila euro a testa, un anticipo (la cosiddetta «provvisionale») sul risarcimento complessivo da calcolare con una causa civile. Ma a Bruno Pesce, leader dell’associazione dei familiari delle vittime (Aneva), le parole del sindaco non piacciono: «Non si metterà mica a contare i soldi? Per un malato, o per chi ha perso un parente, l’indennizzo è una componente molto importante. Ma il sindaco dovrebbe ricordare che qui c’è stata una strage. E quello che serviva era una sentenza esemplare che fosse di monito. Se fosse stato solo per i quattrini, un processo così non si sarebbe mai visto». Nonostante la vittoria, a Casale non si è ancora sanata la frattura che si creò quando il sindaco decise di accettare i 18 milioni di euro (per poi rifiutarli recentemente dopo le dure contestazioni da parte dei cittadini) offerti dalla Eternit alla vigilia della sentenza in cambio del ritiro del Comune dalla costituzione di parte civile. Il Tribunale di Torino ha ordinato ai due imputati – il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier – di versare la somma, anche questa una provvisionale, «in solido» e di tasca propria. Ai 25 milioni si sommano tutti gli altri (in totale quasi un centinaio di milioni). Il solo De Cartier deve darne quattro a Cavagnolo, un piccolo comune del torinese. Per questo a Casale sono in molti a pensare che i 25 milioni non li vedranno. Anche se l’avvocato del barone, Cesare Zaccone, assicura: «La prassi vuole che si paghi subito dopo il deposito delle motivazioni della sentenza (90 giorni – ndr), e noi pagheremo». I soldi servono soprattutto per portare avanti le bonifiche dei terreni e degli edifici contaminati, mai realizzata dagli enti locali e dalle autorità competenti, e che continuano a provocare centinaia di nuovi ammalati e decessi ogni anno. Soprattutto bisogna rimuovere il pericolosissimo «polverino», il prodotto di scarto che si usava per i sottotetti, le intercapedini, la pavimentazione delle strade: restano da ripulire 40 siti.
Comunque nelle associazioni che si battono da sempre per difendere i diritti dei familiari delle vittime è diffusa la convinzione che sulla vicenda la sentenza di lunedì sia solo un primo passo e che molto altro si possa e si debba fare. “Non è corretto dire che il tribunale di Torino ha imposto la prescrizione per tutte le vittime di Rubiera. La prescrizione è stata riconosciuta solo per alcuni periodi, ecco perché alcune richieste di risarcimento sono passate e altre no” spiega l’avvocato Ernesto D’Andrea, che rappresentala Provinciadi Reggio Emilia e 45 famiglie delle vittime reggiane che lavoravano nello stabilimento Icar (poi diventato Eternit) di Rubiera.
E nel pool di Torino che ha portato avanti il megaprocesso contro i vertici della Eternit si pensa già ad un secondo tempo, ad un “Eternit bis”.La Procuradi Torino starebbe preparando un altro giudizio per attribuire al capitalista svizzero Schmidheiny e al barone belga de Cartier la responsabilità per ciascuno dei casi di morte per amianto e si stima che ne verranno contestati poco meno di un migliaio. Il procedimento Eternit bis ipotizzava finora l’accusa di omicidio colposo, ma alla luce della sentenza di lunedì si profila ora un reato intenzionale, che potrebbe essere l’omicidio volontario con dolo eventuale.
Oggi, intanto il Procuratore del capoluogo piemontese Raffaele Guariniello sarà ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro presieduta dal senatore Oreste Tofani per spiegare la sua proposta di creare in Italia una Procura nazionale della sicurezza (sul modello del francese «pool de la santè»). E chiederà una soluzione per evitare che, per effetto delle norme che impongono la rotazione degli incarichi per i pubblici ministeri, il suo gruppo di lavoro venga smantellato.
Richiesta condivisibile. Ma sarebbe bene che le sorti della battaglia dei cittadini e delle vittime dell’amianto non fossero troppo legate né ad un solo uomo né ad una sola procura. E che la giurisprudenza sviluppata dal pool di Guariniello diventasse patrimonio comune di tutto il sistema giudiziario…
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