GLI OPERAI MORTI E IL LAVORO SOTTO LE MACERIE
Loris Campetti
Reggono le case, crollano le chiese e le fabbriche. Le chiese e i campanili hanno spesso una storia antica e non sempre una buona manutenzione, i capannoni industriali hanno anche meno di 10 anni, tirati su in quattro e quattr’otto, i pilastri e il tetto. Ma il lavoro è il lavoro, un bene e ormai un lusso, mica si può perdere tempo in burocrazie e vincoli costosi, ben vengano nuovi capannoni. I pilastri cedono alla prima scossa, il tetto viene giù e chi ci lavora resta sotto le macerie.
Solo in Emilia sono diverse decine nel settore metalmeccanico le fabbriche piccole e artigiane crollate o inagibili, 6 o 7 quelle che occupavano più di 2-300 operai. 4 operai impegnati nel turno di notte in fonderia, nella ceramica, nella chimica hanno perso la vita: garantivano il ciclo continuo, qualche soldo in più in busta paga senza mai raggiungere i 1.500 euro a fine mese. Ma allora gli operai esistono, questo paese se n’era dimenticato. Addirittura c’è chi alle quattro del mattino fatica nei forni e negli altoforni per produrre merci e «campare» la famiglia. Parlavano lingue e dialetti diversi, le quattro vittime in tuta, faticavano allo stesso modo. Chi emiliano, chi «terrone», chi marocchino. Naouch, Gerardo, Nicola, Leonardo.
Quelli che sanno tutto di economia ci hanno spiegato che gli operai hanno troppe garanzie, bisogna togliergliene un po’ per darle ai più giovani. Si sentono proprietari del loro lavoro, questi operai, dimenticando che il proprietario di tutto, macchine braccia e cervelli è un altro: è il padrone. Oziosi, garantiti, assenteisti. Ecco cosa sono, e vogliono tutto.
Una delle vittime si era salvata dal crollo del capannone, tremante l’operaio era rientrato per chiudere il gas ed evitare guai peggiori, ma i guai peggiori, i peggiori di tutti, sono caduti sulla sua testa. Straordinario senso di responsabilità e generosità, era venuto da Mellal in Marocco per sbarcare il lunario e produrre ricchezza per noi.
Un altro degli operai morti che finalmente si era liberato dal turno di notte aveva accettato di sostituire un suo compagno ammalato, tanto fa brutto e al mare non ci posso andare, aveva detto. Non potrà più vederlo, il mare. Un altro ancora sembra inseguito dalle disgrazie di un paese in crisi in cui a pagarne i costi sono i più deboli: lavorava in una fonderia a Budrio fino all’esplosione della crisi. L’aveva trovato proprio lui quel suo compagno rimasto senza lavoro che si era impiccato a una trave della fabbrica. La fonderia fallisce, arriva la cassa integrazione e poi, finalmente, un nuovo lavoro in un’altra fabbrica. Quella fabbrica che gli è crollata sulla testa e l’ha ucciso. Adesso i benpensanti che si erano dimenticati dell’esistenza degli operai e quelli che sanno tutto di economia e vogliono farci uscire dalla crisi spremendoli fino alla buccia, sono anche capaci di chiamarli eroi.
Una specie di «morti bianche», altra ipocrisia per non dire che più di mille lavoratori vengono ammazzati ogni anno mentre svolgono le loro mansioni. Non sono eroi, non sono «risorse umane», sono lavoratori, sono operai. Altri quattro hanno perso la vita, e la colpa non è solo del terremoto. Per diventare visibili devono morire sotto le macerie. Oppure impiccati alla trave di una fonderia. Oppure per un infortunio sul lavoro, ma devono morire almeno in tre o quattro. Se non sono tanti resteranno invisibili, anche da morti.
da “il manifesto”
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