Omicidio preterintenzionale e false dichiarazioni. Con questi due capi d’imputazione, il 4 dicembre prossimo, partirà il processo per la morte di Domenico Ferrulli. Sul banco degli imputati siederanno quattro agenti di polizia: Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo.
Così questa mattina ha deciso il gup di Milano, Alfonsa Ferraro, alzando di un bel po’ l’asticella dell’accusa rispetto a quanto chiesto quest’estate dalla procura milanese. Il fascicolo, chiuso dal pubblico ministero Gaetano Ruta, chiedeva sì il rinvio a giudizio dei quattro uomini in divisa, ma per omicidio colposo, una posizione decisamente più lieve rispetto a quanto stabilito oggi dalla Ferraro.
La novità è davvero “dirompente” come ha commentato Fabio Anselmo, l’avvocato di parte civile della famiglia Ferrulli. Se, infatti, prima i poliziotti rischiavano una pena compresa tra i sei mesi e i cinque anni di reclusione, adesso, in caso di condanna, le porte della prigione potrebbero restare chiuse molto più a lungo: dieci, dodici, quindici, fino a diciotto anni.
Domenica Ferrulli, 27 anni, figlia di Michela può ritenersi soddisfatta e, infatti, su Facebook le sue parole sono quelle di chi, anche se da lontano, comincia a intravedere una qualche forma di giustizia. Non un sorriso sulla sua faccia – sarebbe difficile, con gli assassini di tuo padre davanti agli occhi –, ma una determinazione fuori dal comune, talmente forte che un anno di pressioni e provocazioni di vario genere non sono riusciti nemmeno a intaccarla. Volevano trasformarla in una guerra di nervi, nel logoramento costante di chi da solo sfida un meccanismo colossale. La forza di Domenica è stata quella di non scomporsi mai, con la consapevolezza di avere la verità dalla sua parte, insieme con Ilaria Cucchi, Lucia Uva, Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi: le donne che con il loro attivismo cercano di fare luce là dove il buio è più nero, dove un innocente incontra una divisa, e non sopravvive.
“Meno male – ha detto Domenica Ferrulli – che c’erano i video, altrimenti nessuno avrebbe creduto alle nostre parole”.
Era il 30 giugno del 2011 quando Michele Ferrulli – 51 anni, di professione facchino – si trovò davanti quei quattro agenti. Sarà l’ultimo incontro della sua vita. La chiamata al 113 arriva da dietro una delle serrande chiuse di Via Varsavia (periferia sud-est di Milano): “C’è gente che in strada sta facendo un rumore insopportabile”. Era Michele con alcuni dei suoi amici. Arriva una volante dal commissariato di Mecenate, poco dopo arrivano altri due agenti direttamente dalla questura di via Fatebenefratelli. Sono da poco passate le dieci di sera.
Ferrulli “si pone davanti a un poliziotto”, che però “si allontana dalla zona del contatto”. E’ a questo punto che si avvicina un altro agente che colpisce l’uomo con uno schiaffo. Passano i minuti, sono le 23 e 30, Michele giace a terra, chiede aiuto, qualcosa dentro di lui sta cedendo. Le sue parole però rimangono inascoltate. Gli uomini in divisa lo colpiscono “ripetutamente”, senza che lui abbia più possibilità di opporre resistenza visto che era ormai immobilizzato a terra. I tentativi di rianimazione si riveleranno inutili.
E’ morto così Michele Ferrulli, era alto un metro e ottanta, 147 chili e un cuore piccolo per la sua mole: appena 700 grammi. Ma non basta questo, una perizia firmata da Gaetano Thiene dell’Università di Padova parla di “un violento attacco ipertensivo, verosimilmente precipitato dallo stress emotivo del contenimento, dall’eccitazione da intossicazione da alcol e dalle percosse con tempesta emotiva e iperattivazione adrenergica”. A rivelarsi fatali sono stati i colpi subiti dall’uomo nonostante fosse già bloccato e non rappresentasse una minaccia per gli uomini in divisa.
Nel suo fascicolo, il pm Ruta ha descritto con molta chiarezza una situazione in cui gli agenti avrebbero agito con “negligenza, imprudenza ed imperizia nell’ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse parti del corpo, pur essendo in evidente superiorità numerica e continuando a colpirlo anche attraverso l’uso di oggetti contundenti”. Il solito giro di parole della macchina giudiziaria, il burocratese stretto che nasconde una drammatica lacuna della legislazione italiana: l’assenza del reato di tortura.
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