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Se il debito pubblico resta sullo stomaco

La notizia, intanto. Ieri tutti i titoli azionari delle banche sono precitati all’unisono. In Italia Ubi Banca ha perso il 12%, la Popolare di Milano e Popolare il 7, Montepaschi e IntesaSanPaolo il 4,5. Come Commerzbak a Francoforte, o altri istituti in giro. Immediatamente è partito il tam tam «tranquillizzante»: «è solo la preoccupazione per le regole di Basilea 3, ritenute troppo stringenti quanto a requisiti di capitale». In pratica, si teme che le banche debbano accantonare troppa liquidità per tenersi al sicuro in casi di crisi, e che quindi ci possa essere meno denaro in circolazione. Logico, ma un (bel) po’ esagerato.
Il problema sta invece nella crisi del debito pubblico, che troppo facilmente si è pensato di «limitare» ai soli paesi Pigs e di «curare» con tagli di spesa pubblica degni di Buridano. Vediamo perché.
Nel 2008-09 il tracollo bancario globale è avvenuto per l’impossibilità di «prezzare» i prodotti finanziari derivati. Era una crisi tutta privata, cui venne offerta una ciambella di salvataggio dagli stati. Nessuno protestò per questo anomalo «intervento dello stato nell’economia». Anzi.
Gli stati, però, oggi se la vedono male. Anche a causa di quella generosità. Ieri Standard&Poor’s ha tagliato di nuovo il rating del Portogallo (portandolo a BBB-, il livello minimo) e della Grecia (a BB-). In entrambi i casi la previsione (outlook) è negativa. Insomma: peggioreranno. Anche perché la loro capacità di produrre è in contrazione (-1,4% nel 2011). La ricetta è sempre la stessa: misure di austerità. Ossia deflazione, nuova riduzione di investimenti, salari, pensioni, consumi. E via circuitando verso il basso.
Problemi loro, si potrebbe pensare. E invece no. La scorsa settimana – nella stessa riunione che ha messo sotto controllo europeo i debiti pubblici dei singoli stati (ponendo fra l’altro le basi dello strangolamento italiano a breve termine) – c’è stato un duro scontro tra Francia e Germania da un lato e Pigs (Irlanda in testa) dall’altro.
Dublino è in asfissia. Il rapporto deficit/Pil è al 32%, il debito intorno al 100%. Solo quattro anni fa era il paese più virtuoso d’Europa. Poi ha dovuto nazionalizzare quasi tutte le banche, coprendo i loro debiti (accesi assai allegramente), accettare «aiuti» (prestiti) da Europa e Fmi. Ora attende gli stress test sulle banche (i risultati si sapranno domani), ma dovrà ricapitalizzare ancora e magari «salvare» l’ultima banca privata del paese, Irish Life.
Lo scontro con i big è stato lineare. Quelli chiedevano di aumentare la tassa sulle imprese (ora al 12,5%), in modo da trovare altri soldi. Dublino non ci pensa proprio (scapperebbero anche quelle imprese che finora sono rimaste solo perché le tasse lì sono le più vantaggiose d’Europa). Messi alle strette, gli irlandesi hanno fatto balenare l’idea ammazza-speculatori: «possiamo ristrutturare il debito delle banche nazionali in modo tale da scaricare le perdite sui possessori di obbligazioni; non solo gli junior (piccoli risparmiatori), ma anche i senior (le grandi banche straniere; francesi e tedesche in prima fila). Sarebbe l’inizio di un domino dalle dimensioni incalcolabili. E nessuna banca europea potrebbe considerarsi al sicuro.
Una via d’uscita viene cercata in queste ore. C’è chi preme per una «Basilea 3» meno rigida; ovvero inefficace, che lascerebbe le banche più libere di correr rischi più grandi. Il gioco tra creditori e debitori sembra così giunto al limite: non te la cavi affogando qualcun altro. Siete legati e quello, affogando, ti tira giù.

 

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Pubbichiamo anche il commento dell’economista Marco Onado, apparso su “IlSole24Ore” del 30 marzo 2011, che vorrebbe essere “tranquillizzante”, ma non ci riesce.

 

Ora risposte rapide e coordinate
Il martedì nero delle banche italiane dimostra come sia lunga e tortuosa la strada che porta alla ricapitalizzazione resa necessaria dalla crisi. È bastato l’annuncio di un’emissione di un miliardo da parte di Ubi, che i mercati non ritenevano la prima della lista, per scatenare una tempesta di vendite su tutto il comparto. Il meno che si possa dire è che l’arma italica del contropiede, che ci ha fatto tanto vincere in campo calcistico, non si addice alla finanza.

In realtà, sarebbe sbagliato attribuire il disastro di ieri solo a un timing sbagliato o a una risposta non razionale degli investitori.

Il punto fondamentale è che è necessario rassicurare l’intero mercato sulla solidità delle banche perché queste possano continuare ad assicurare un flusso di credito adeguato, che è condizione fondamentale e imprescindibile della crescita economica. Il sistema produttivo italiano è troppo dipendente dal credito bancario (alle imprese, ma anche alle famiglie) perché possiamo permetterci un arresto anche temporaneo dei finanziamenti all’economia.
Qualcuno potrebbe obiettare che le banche italiane si sono presentate all’appuntamento della crisi in condizioni più robuste di altre e dunque hanno meno bisogno di chiedere agli azionisti di mettere mano al portafoglio. Ma è facile rispondere che dall’inizio della crisi sono passati ormai quasi tre anni in cui la qualità dei crediti è dunque peggiorata e per molte banche, fra cui proprio Ubi, i crediti di dubbia esigibilità superano ormai un terzo del patrimonio. In altre parole, è vero che le banche italiane non avevano seguito le sirene della turbofinanza ma alla lunga, in un quadro di crescita ancora stentata, le operazioni tradizionali mettono piombo anche nelle ali di chi si era dimostrato più lungimirante di altri. Inoltre, non bisogna dimenticare che sia nello stress test di maggio scorso, sia nelle valutazioni degli analisti di oggi, le banche italiane si trovano nel terzo e quarto quartile in termini di patrimonio, cioè – per dirla in termini calcistici – nella parte destra della classifica.
E per capire quanto può essere pericoloso attendere, basta guardare al caso delle casse di risparmio spagnole, che sono oggi nell’occhio del ciclone perché i loro crediti al settore immobiliare generano prospettive di perdita in molti casi superiori al loro capitale. Il Governo e le autorità spagnole sono colpevoli di aver fatto in passato una riforma a metà, lasciando le casse in balìa della peggior politica locale e sostanzialmente sottopatrimonializzate. Non contenti di ciò, hanno continuato a rinviare il problema e oggi annunciano piani di ricapitalizzazione dell’ordine di 15 miliardi di euro, che con tutta probabilità i mercati bocceranno, costringendo il Governo a ricorrere alle tasche ormai sempre più vuote dei contribuenti.
Lo stesso vale per le banche irlandesi, che solo adesso si impegnano a liberarsi di attività di dubbio valore per 90 miliardi di euro e a riportare il loro rapporto prestiti/depositi dall’attuale insostenibile livello del 170% a un più tranquillo 120%. Anche qui, risposte parziali e tardive hanno solo peggiorato la situazione.

Ma se è pericoloso rinviare, cosa si può fare per evitare bagni di sangue come quello di ieri? Mai come in questo momento, è necessaria una risposta coordinata, perché ciò di cui le banche italiane hanno bisogno può venire solo da uno sforzo di tutti i soggetti coinvolti.
Innanzitutto, è necessaria una crescita economica almeno allineata alla media europea e non come quella attuale, stentata e a chiazze di leopardo. Le banche italiane pagano oggi premi significativi per la loro raccolta (testimoniato anche da premi sui Cds superiori a 200 punti base) che – come dimostrano varie ricerche in proposito – riflettono più il generico rischio-Italia che i livelli effettivi di patrimonializzazione. Fin troppo ovvio dirlo, ma è bene ribadire che se proprio si vuole difendere un valore come l’italianità, la prima condizione da assicurare è la crescita generale, senza la quale banche e imprese sono condannate a un inesorabile declino.

In secondo luogo, occorre una sorta di patto fra banche e azionisti. Le une e gli altri devono accettare che i livelli di redditività del capitale a due cifre degli anni pre-crisi non possono tornare, per la semplice ma decisiva ragione che si sono dimostrati non sostenibili. Ma tornare alla normalità vuol dire (come avvenuto per decenni in questo settore) che le azioni bancarie saranno in grado di garantire rendimenti più modesti, ma congrui rispetto al rischio e stabili, che è la condizione ideale per investitori di lungo periodo, a cominciare dalle fondazioni cui va riconosciuto di aver svolto finora un ruolo di grande responsabilità.
I fondamentali di redditività rimangono infatti sani, soprattutto se in futuro i tassi di interesse dovessero salire, generando effetti positivi sul margine di interesse che è il cuore dei profitti bancari italiani. E, va aggiunto, se venissero avviate azioni di riduzione di asset non strategici e di taglio dei costi operativi meno episodiche di quelle finora messe in campo. Insomma, ci sono molti modi per riportare il sereno nel mondo bancario e soluzioni coordinate (che consentirebbero fra l’altro di evitare pericolosi ingorghi nelle emissioni future) sono sempre le migliori. Ma una cosa deve essere chiara: la ripresa della redditività necessaria alla ricapitalizzazione delle banche non può venire manovrando ingiustificatamente tassi e altre commissioni. Gli utenti hanno già dato.

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