Menu

Un ministro per l’economia europea?

Quando un grande guardiano delle istituzioni arriva vicino al momento dell’addio è prassi che offra al pubblico (e ai successori) un suggerimento per lui prezioso. Jean-Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea che a novembre lascerà la carica nelle capaci mani di Mario Draghi, ha voluto rispettare la tradizione: «sarebbe troppo azzardato in campo economico pensare a un ministro delle finanze europeo, visto che già esistono un mercato comune, una moneta unica e una banca centrale?».
Ai tecnici però non si chiedono solo dichiarazioni, ma «disegni», progetti, proiezioni. E Trichet, parlando ad Aachen per la consegna del premio Charlemagne, non si è certo rifiutato di entrare nel merito. A suo avviso questo iper-ministro «non dovrebbe necessariamente gestire un ampio budget federale», ma assumersi «la vigilanza delle politiche fiscali e di competitività» dei singoli stati. Fino ad avere il controllo «diretto dei paesi sotto stress dal punto di vista fiscale e il compito di eseguire tutte quelle funzioni esecutive» per favorire «l’integrazione del settore finanziario dell’unione».
Il problema del budget federale è in effetti arduo da risolvere. Il Programma finanziario pluriennale lo prevede all’1% del Pil continentale; troppo poco per fare grandi azioni, troppi problemi «nazionali» per cercare di ottenerne un aumento soddisfacente. Quindi, la via da seguire sarebbe quella dei «poteri ampi e decisivi nel determinare le politiche economiche dei paesi con problemi». La sovranità tedesca o francese, insomma, non deve essere neppure nominata, mentre su quelle di Grecia, Portogallo, Irlanda e futuri «stressati» si può – anzi «si deve» – procedere con le scarpe chiodate. Si potrebbe applicare, spiega in dettaglio Trichet, «un diritto di veto sulle principali voci di spesa del bilancio e su quegli elementi essenziali per la competitività del paese».
Il caso delle Grecia è troppo attuale per poterlo evitare, e Trichet ha ammesso che proprio ad Atene pensava mentre diceva che «nel caso in cui un paese che già fa ricorso agli aiuti internazionali fallisca gli obiettivi di aggiustamento fiscale, dovrebbe intervenire una seconda fase», consegnando le chiavi della politica economica e fiscale di certi paesi alle «autorità dell’eurozona».
La questione è sul tavolo ormai con sufficiente nettezza. In assenza di una politica economica comune, compresi i decisivi aspetti fiscale e industriale (che Trichet non nomina), tutta la costruzione comunitaria rischia di implodere. I parametri di Maastricht, pensati per «tranquillizzare» i mercati finanziari, funzionano ormai all’opposto: la crisi ne ha mostrato l’arbitrarietà e «i mercati» giocano esattamente su quei fattori (o paesi) che rimangono allo scoperto quando i parametri vengono «sforati». In altre parole: invece di tener lontana la speculazione, l’attirano.
E con le attuali regole fondanti, l’asse che regge l’unione monetaria non può più tenere. Gli stati membri, infatti, si sono legalmente impegnati a risolvere i propri problemi fiscali «da soli», senza «trasferimenti» da un paese all’altro; ossia tra contribuenti di paesi diversi. La contrarietà dei cittadini tedeschi al salvataggio della Grecia (o di altri a venire) affonda esattamente nella conoscenza di questo vincolo, prima che in ideologie angustamente nazionaliste (che infatti trovano nuova linfa in paesi come l’Ungheria o la Finlandia, mentre la Germania – pur essendo il «primo salvatore» continentale – punisce la destra e premia «la sinistra»).
Lo stesso Otmar Issing, tra i fondatori dell’Unione monetaria, ha di recente riconosciuto «l’incoerenza» della sua costruzione: «avevamo ammonito che fare una moneta unica senza un’unificazione politica era mettere il carro davanti ai buoi». Ma la debolezza di molti governi e i timori franco-tedeschi nei confronti dei paesi meno «virtuosi», quanto a controllo del debito pubblico, fecero preferire un impianto che lasciava i singoli soli davanti a problemi che, se non risolti, diventavano subito collettivi. Una vera idiozia costituente che ora, con la crisi, si rovescia in tutta la sua durezza su istituzioni politiche molto più fragili di prima. L’Europa politica, inaffti, non c’è ancora e ha perso molto appeal presso i vari popoli, mentre gli stati nazionali «nazionali» hanno sempre minori strumenti di intervento: l’economia è globale, la moneta è continentale, le loro leve fiscali e di bilancio solo «provinciali». I buoi han cominciato a salire sul carro. È questo a far dire a Trichet «serve un conducente». Un po’ tardivo, non trovate?

da “il manifesto” del 3 giugno 2011

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *