I problemi gli vengono da chi l’ha mandato a fare il proconsole in Italia: l’Europa carolingia a guida tedesca. E’ durato infatti un attimo il tentativo di alzare la voce e cercare di “contare” di più al tavolo della governance europea. Monti sapeva che le agenzie di rating avrebbero abbassato il giudizio su tutta l’Europa – “mediterranea” e scialacquona quanto nordica e “virtuosa” – e soprattutto il motivo: con la sola politica di rigore non avrete mai una possibilità di crescita.
Ha quindi provato a etter sul tavolo questa opzione: noi abbiamo fatto la nostra parte con la riform adelle pensioni e continueremo a farla modificando le regole del mercato del lavoro, realizzando privatizzazioni e liberalizzazioni; ma voi (la Germania) dovete a questo punto mettere in campo un politica continentale tale da favorire qualche possibilità di ripresa.
La risposta è arrivata dal capo dei consiglieri economici della Merkel ed è stata frontale: “l’Italia può fare il lavoro da sola”. Le conseguenze sono abbastanza chiare: l’Italia dovrà “dimagrire” accettando la “cura greca”. Che fin qui ha prodotto un solo risultato: un default (fallimento) molto più doloroso di quello che ci sarebbe stato due anni fa, all’inizio della “cura”. Ma a forza di privatizzazioni forzate, qualche buon affare è stato fatto dalle multinazionali anche all’ombra del Partenone. Ci terrebbero a fare altrettanto da queste parti…
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BR>L’arbitro non è imparziale. Tutta l’Europa che conta ha improvvisamente cambiato tono nei confronti delle agenzia di rating, invitando tutti a snobbarne i giudizi. Nemmeno «i mercati» ne hanno tenuto conto, facendo salire le borse nel giorno in cui anche l’agenzia Firch preannunciava un taglio del rating al debito pubblico italiano entro gennaio; e Standard&Poor’s estendeva il declassamento anche alle Poste o alla Cassa Depositi e Prestiti. Come conseguenza, la timida richiesta italiana di avere una politica di bilancio meno unilaterale e rovinosa è stata respinta bruscamente al mittente: «potete far da soli», ci dicono da Berlino.
Vediamo perché le due cose si tengono. Contro le agenzie è successo qualcosa di impensabile fino a qualche giorno fa, quando non c’era discorso pubblico che non contenesse un omaggio referente e preoccupato al potere di S&P, Moody’s e Fitch. Finché bastonavano un singolo paese da «riportare a comportamenti virtuosi», andava benissimo. Se invece attaccano tutta l’Europa, declassando la Francia e altri 8 paesi, allora l’attendibilità è dubbia.
Il commissario alla concorrenza Olli Rehn è stato anche più duro del presidente della Bce, Mario Draghi, dichiarando che quelle agenzie «giocano secondo le regole del capitalismo finanziario americano». Anche perché «sono» assolutamente controllate da quel sistema finanziario.
Lo scenario sembra dunque quello di una «guerra» intercontinentale combattuta a colpi di downgrade. Guerra «asimmetrica», come piace ai potenti, perché quell’arma ce l’hanno solo gli Usa (la cinese Dagong è troppo giovane per «fare tendenza» fuori dall’Asia). Dove prima imperava il massimo rispetto, ora è tutto un fiorire di informazioni intinte nel veleno. La proprietà delle agenzie viene scandagliata con acribia, «scoprendo» (le partecipazioni azionarie sono pubbliche da sempre, in realtà) che la Capital World Investment – uno dei maggiori fondi comuni Usa – possiede il 10,26% di S&P e il 12,6 di Moody’s. E quote minori hanno decine di altri fondi e banche statunitensi. Inevitabile dunque constatare il «conflitto di interessi» (quelli che vengono quotati sono in molti casi gli stessi che controllano il «giudice».
Peggio ancora: ogni giudizio orienta i mercati globali, cambiando gli orientamenti di investimento. Molti fondi, per esempio, non possono per statuto tenere in portafoglio titoli senza almeno una «A»; quindi davanti a un declassamento come quello subito dall’Italia debbono per forza vendere i «nostri» titoli di stato. Contribuendo così ad affossarne il prezzo e ad aggravare la crisi, avvicinando un altro downgrade.
Un labirinto di interessi intrecciati in cui cercare un «giudice imparziale» è un’illusione da gonzi.
Anche le procure – italiane, europee, statunitensi – hanno iniziato a muoversi, pur se con anni di ritardo. Non convince in effetti il giudizio dato – negli Usa – sui mutui subprime fino al giorno prima dell’esplosione; in Italia, c’è il problema delle valutazioni su Parmalat, che hanno permesso a Tanzi di rastrellare valanghe di denaro e di creare la voragine in cui in tanti hanno perso i loro risparmi.
Ma a quanto pare, stavolta i «mercati» hanno dato ragione a chi attacca le agenzie. Le borse europee sono andate benino sia lunedì che ieri, mentre in molti si aspettavano un diluvio. Molto ha pesato, però, anche l’intervento della Bce, che ha comprato titoli di stato sul mercato secondario, aiutando la discesa degli spread rispetto ai titoli tedeschi.
C’è però un’altra faccia della medaglia, dietro questa «unità anti-rating». S&P ha infatti criticato la «linea Merkel» con argomenti quasi inoppugnabili: il rigore sui conti pubblici, da solo, non crea nessuna condizione di ripartenza dell’economia; anzi, può soffocarla. La difesa di quella linea, dunque, impone di considerare le «tre sorelle» del rating alla stregua di casseur della finanza europea.
Viene da qui, quasi direttamente, anche la brusca risposta tedesca alle richieste avanzate da Mario Monti nei giorni scorsi («abbiamo fatto la nostra parte, ora l’Europa deve fare di più»). Il capo dei consiglieri economici della cancelliera, Wolfgang Franz, ha spiegato in un’intervista tv che «l’Italia può fare il lavoro da sola». Peggio: ha ripreso a criticare anche l’unica «misura non standard» attuata in questo momento dalla Bce: l’acquisto di titoli di stato «pericolanti». Se non è accanimento questo…
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Quanto ai conti pubblici, per gli economisti di via Nazionale, la flessione del rapporto deficit/Pil sarebbe «accentuata» se lo spread tornasse ai livelli dell’estate scorsa. In questo caso, visto il minor onere per il servizio del debito pubblico, nel 2013 «verrebbe sostanzialmente conseguito» l’obiettivo del pareggio di bilancio. Di più: Il Bollettino evidenzia come le tre manovre correttive approvate tra luglio e dicembre permettano di conseguire nel 2013 un avanzo primario nell’ordine del 5% del Pil e una prima riduzione del rapporto debito/Pil.
Il pessimismo nasce dal fatto che «l’incertezza che circonda le prospettive di medio termine dell’economia italiana è straordinariamente elevata ed è strettamente legata all’evoluzione della crisi del debito sovrano nell’area dell’euro». Le tensioni sui bond, oltretutto, «hanno inciso negativamente sulla capacità di raccolta delle banche» e «tali difficoltà» si sono ripercosse «sulle condizioni di offerta di credito». Questo significa che ottenere credito è diventato oltre che molto difficile, anche molto caro. «Un peggioramento della fiducia nella capacità dei governi europei di affrontare la crisi del debito – spiega il Bollettino» – potrebbe avere conseguenze molto gravi sui tassi di interesse e sulle condizioni di finanziamento», e rendere «possibile un più marcato rallentamento dell’economia mondiale».
Più in generale, l’attività economica nell’area dell’euro si è indebolita nel quarto trimestre del 2011. «L’indicatore euro-coin che stima la componente di fondo della variazione trimestrale del Pil dell’area, si colloca da ottobre su valori negativi. Sono state riviste al ribasso anche le prospettive di crescita per il 2012» Tuttavia «beneficiando di un allentamento delle tensioni sui costi degli input, le pressioni inflazionistiche si sono attenuate. Ma per i prezzi, il 2012 non sarà un anno tranquillo. L’inflazione secondo Bankitalia salirà al 3,1% quest’anno dal 2,8% del 2011, per poi diminuire al 2,4% nel 2013. Il Bollettino evidenzia come sulla dinamica dei prezzi si riflettono dinamiche contrapposte: potrebbe provocare una minore spinta agli aumenti il rallentamento dell’attività economica, ma potrebbe arrivare una spinta all’insù dagli aumenti dell’Iva e delle accise già attuati e quelli previsti per la fine 2012.
La recessione avrà riflessi fortemente negativi sul lavoro. Bankitalia considera concluso il processo di recupero dell’occupazione iniziato nel quarto trimestre del 2010 e lo scenario attuale è quello di «calo degli occupati; ripresa della disoccupazione; peggioramento delle aspettative delle imprese e calo delle retribuzioni reali». «In novembre – si legge nel Bollettino – il tasso di disoccupazione si sarebbe attestato all’8,6%, il valore più elevato dal maggio 2010. Tra i giovani tra i 15 ed i 24 anni il tasso avrebbe raggiunto il 30,1%, il valore massimo dal gennaio 2004». Anche se continua a ridursi il ricorso alla Cassa integrazione, insomma, «peggiorano le attese delle imprese circa i loro livelli occupazionali».
In questa situazione – piuttosto tragica – cosa è possibile fare e cosa serve fare? Bankitalia non ha dubbi: il punto cruciale è la normalizzazione delle condizioni dei mercati finanziari. Ma sono altresì necessarie misure volte a rafforzare strutturalmente la capacità di crescita dell’economia che possono avere effetti anche nel breve periodo. E questo perché, una volta completato il quadro degli interventi volti ad assicurare l’equilibrio dei conti pubblici, la priorità è ora la creazione di condizioni favorevoli al rilancio dell’economia italiana. Se ben disegnate e prontamente attuate, possono stimolare la capacità potenziale di crescita del prodotto e possono influenzare positivamente le aspettative dei mercati e le decisioni di spesa di famiglie e imprese, riverberandosi favorevolmente non solo sul lungo periodo, ma anche sui risultati di quest’anno e del prossimo.
Infine, è urgente rendere operativi gli strumenti europei per la stabilità finanziaria. Politiche ambiziose per ripristinare la fiducia e garantire la normalizzazione delle condizioni di mercato sono indispensabili anche a livello europeo. È essenziale mettere in atto tutti gli elementi delle nuove regole di governo economico dell’Unione europea approvate di recente. Nel contempo, è importante che sia reso rapidamente operativo il rafforzamento degli strumenti europei per la stabilità finanziaria, quali l’Efsf e l’Esm, aumentandone l’efficacia e sfruttandone tempestivamente le potenzialità.
Che l’architettura istituzionale europea faccia acqua da molte parti, è certo. Che il mandato della Bce – combatte l’inflazione e basta- non sia sufficientemente flessibile, anche. Che, infine, il «modello Federal reserve Usa» non sia replicabile per molti motivi (a partire dalla mancanza di uno «stato unitario europeo»), altrettanto. E proprio tra questi scogli Nowotny ha dovuto tracciare una rotta di riforma possibile per Francoforte. Parlando ovviamente da «interno», ovvero come «persona informata sulle ipotesi».
L’acquisto dei titoli di stato sul mercato secondario, infatti, ha ormai mostrato limiti insuperabili. A partire da quelli quantitativi. In un anno e mezze la Bce ha speso 217 miliardi, 100 dei quali solo per i Btp italiani, senza arrestare l’emorragia. Nel 2012 il Tesoro dovrà rifinanziarsi per oltre 450 miliardi; la Spagna per una cifra di non molto inferiore. Qualsiasi problema eventuale sarebbe inaffrontabile dalla Bce con quello strumento.
Sul breve periodo, non resterebbe che abbassare il tasso di interesse principale, portandolo per la prima volta – da quando c’è l’euro – al di sotto del 1%. Accompagnando magari la mossa con un altro «prestito triennale illimitato» al tasso dell’1%. Il problema è che le banche prendono, sì, a prestito, ma poi «congelano» la liquidità depositandola di nuovo presso la stessa Bce (ieri il nuovo record: oltre 500 miliardi), perché temono di non vedersi restituire le somme persino da altre banche.
Ogni altra misura fuori da questo ristretto ventaglio è decisamente «non standard» (lo è anche l’acquisto dei titoli di stato sul mercato secondario), e incontra certamente la contrarietà tedesca. Scartato quindi il «modello Fed», e le relative possibilità di «quantitative easing», secondo vari operatori non resta che la trasformazione del fondo salva-stati (Efsf, che a giugno cambierà nome in Esm) in una vera e propria banca. Che a quel punto potrebbe accedere ai prestiti della Bce per girarli, senza altri ostacoli, verso gli stati nazionali.
Una partita di giro colossale che avrebbe l’unico pregio di non scontentare la Merkel. Tutto da vedere, invece, che possa sortire gli effetti sperati se permangono – come non si fa altro che ripetere – i vincoli di spesa agli stessi stati. Se l’unica spesa «ammessa» è il pagamento dei debiti (e degli interessi), in una situazione di investimenti privati fermi e di prestiti bancari «congelati», chi mai potrà assumersi il compito di dare ossigeno alla ripresa? «Il mercato»? Ci sarebbe da ridere, se ce ne fosse la possibilità…
Il peso delle mancate risposte di Angela
Roma chiama. Fin de non recevoir, risponde, secca, Berlino. Altro che Merkmonti al posto di Merkozy. Nella Germania di Angela Merkel oggi non ce n’è per nessuno: il rigore a senso unico è un dovere assoluto per tutti, la solidarietà invece non è e non sarà, a quanto pare, un diritto acquisito.
Anzi, la parola sembra sparita dal vocabolario tedesco, edizione 2011-12.
«L’Italia è un’economia forte, gli italiani sono in grado di aiutarsi da soli» ha scandito ieri il capo dei consiglieri economici della Merkel. Respingendo al mittente l’invito di Mario Monti a un ragionevole do ut des: in cambio del forte impegno italiano alla disciplina di bilancio, un gesto di incoraggiamento tedesco.
In concreto, un alleggerimento degli alti tassi di interesse che continuano a taglieggiare il servizio del nostro debito pubblico. Silenzio sul ruolo della Bce, anche se resta il convitato di pietra nella partita. Nein, nein, nein. Angela Merkel però gioca con il fuoco. Per non smentire in Germania il suo ruolo di castigamatti dei Paesi mediterranei indisciplinati, in breve per non rischiare di bruciarsi la carta che le ha permesso di risalire la china della popolarità, oggi oltre il 60%, il cancelliere non esita a mettere a rischio la tenuta dell’euro.
Sempre che non sia proprio questo il suo vero gioco: provocare una selezione darwiniana tra i suoi membri, liberandosi dei più deboli ma addossando proprio a loro la responsabilità dell’eventuale spaccatura (o collasso) della moneta unica.
Il sospetto diventa legittimo di fronte alla pretesa tedesca di ottenere dai partner la firma di una vera e propria cambiale in bianco con il nuovo patto fiscale: rinuncia alle sovranità nazionali sulle politiche di bilancio senza la garanzia di ammortizzatori o compensazioni di sorta, né in termini di solidarietà finanziaria né di stimoli alla crescita europea. Il tutto blindato in una nuova riforma dei Trattati europei.
Non è certo un sovversivo il premier italiano quando denuncia il rischio di «una crisi di rigetto» tra i cittadini europei, tra i quali già si contano 23 milioni di disoccupati. La Merkel dovrebbe sapere che i governi cambiano a Roma ma il ribellismo in Europa non fa parte del Dna dell’Italia. Che magari mugugna ma si adegua sempre alla disciplina, anche a prezzo di enormi sacrifici. E persino alla rinuncia della propria autonomia di bilancio, nell’atavica convinzione che il vincolo esterno sia una frusta provvidenziale per convincerci a vincere la riluttanza nazionale al cambiamento, alla perdita di rendite di posizione dure a morire.
Anche gli altri Paesi mediterranei si stanno tutti lentamente rimettendo in riga, Grecia compresa, se è vero che proprio ieri in una discussione a porte chiuse al Bundestag la Merkel stessa avrebbe riconosciuto che la crisi dell’euro andrebbe stabilizzandosi.
La Francia no. Da sempre nei momenti topici non ha esitato a rovesciare il tavolo europeo. È successo a metà degli anni 50 con il progetto di difesa comune europea, mai più resuscitato e nel 2005 con la bocciatura della Costituzione europea. Potrebbe succedere per la terza volta con il patto fiscale, magari in sede di ratifica. Già la perdita della tripla A è uno shock difficile da digerire per i francesi, perché sancisce la fine di ogni residua finzione di parità con la Germania. In breve la definitiva archiviazione del contratto franco-tedesco che aveva dato origine all’Europa comunitaria.
Un’umiliazione forse insostenibile per il Paese dalla grandeur ormai inesistente, quello che del progetto europeo amava ripetere, senza temere il ridicolo, «l’Europe c’est la France». Davvero questo Paese, a suo tempo fiero di avere strappato con la moneta unica alla Germania il condominio sul vecchio marco, ma oggi frustrato come non mai sarà ora disposto a consegnare a Berlino la sovranità sulle leve del bilancio francese? Si vedrà.
Certo le rigidità della Merkel, a meno che non vengano in qualche modo attutite, non aiuteranno l’intesa con Parigi: con Nicolas Sarkozy o, peggio, con il suo successore se sarà il socialista François Hollande che ha già bocciato il patto fiscale. Per questo è lungimirante l’appello di Monti a Berlino a non tirare troppo la corda del rigore e quindi dell’euro. Certo il premier chiede ossigeno per l’Italia ma pensa anche all’Europa. E alla Francia che diventa sempre pericolosa quando, come oggi, si ritrova con le spalle al muro, derubata della sua maestà europea.
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