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Svalutazione o deflazione? La Troika ormai ha scelto…

L’articolo di Martin Feldstein, prestigioso e spesso banale economista statunitense da sempre “consigliori” dei presidenti Usa (da Reagan ad Obama, non si fa problemi), pubblicato oggi da IlSole24Ore, suggerisce infatti una robusta svalutazione dell’euro – il 20%, almeno – in modo da favorire le esportazioni dei paesi europei in deficit (Spagna, Francia e Italia sono quelli più importanti e “pesanti” sull’economia Ue) e farli uscire dalla recessione.
Una via più agevole e meno dolorosa della “deflazione interna” cocciutamente imposta all’Europa “meridionale” e che ora sta mettendo fine anche alla corsa dell’economia tedesca, che vede nel mercato continentale il più importante bacino per il proprio export. Ma se i vicini soffrono, Berlino lì non vende più.
Nulla di sorprendente o trascendentale. Perché, comunque, l’articolo di Feldstein è molto interessante? Perché è praticamente identico a quello pubblicato un anno fa (20 dicembre 2011) sul Financial Times, in cui evidenziava come nell’Eurozona si fossero sviluppate profonde “differenze di produttività tra i paesi”, ma “le dinamiche retributive non hanno tenuto conto di tali divergenze”, creando quindi un profondo squilibrio commerciale che non viene sanato perché manca la leva del cambio.
Sta scritto sui manuali di università che in casi come questo le strade sono soltanto due: la svalutazione della moneta, per l’appunto, oppure la “svalutazione interna” (ossia il taglio di circa il 30% delle retribuzioni dei paesi in deficit commerciale, nel caso attuale). Questa seconda via, comunque, tuttavia finisce con l’avere effetti depressivi, oltre ad aumentare l’onere reale del debito, sia pubblico che privato.È quel che è accaduto a Grecia, Spagna, Portogallo. Che sta avvenendo in Italia e ormai accenna a manifestarsi anche in Francia. A un anno di distanza si può tranquillamente dire che i governi europei hanno scientemente deresso l’economia continentale, gettando volontariamente nella fame alcuni paesi e preparandosi a gettarvene molti altri.

Anche la via della svalutazione monetaria, però, presenta molti problemi pratici. Intanto perché è una mossa politica che chiunque altro può replicare ripristinando l’equilibrio violato. In secondo luogo, perché il valore delle materie prime da importare – tanto per dirne una – non scende al variare del corso della moneta, ma segue le oscillazioni tra domanda e offerta reali; qualsiasi sia l’unità di misura (dollaro, euro, yen, yuan, ecc) adottata.

Quindi non sembrano esserci vie d’uscita a portata di mano per la crisi europea. Lo spesso presidente della Bce, Mario Draghi, stamattina è tornato a esigere rigore da parte di tutti i governi. «Il processo di consolidamento deve essere basato sul calo della spesa corrente, non sull’aumento delle tasse»; nella sua visione infatti «é essenziale che questo processo sia credibile, irreversibile e strutturale, perché abbia effetto sullo spread». Tocca quindi ai governi “ricostruire le condizioni della propria credibilità”. E debbono anche sbrigarsi, perché con le misure decise dalla Bce (come lo scudo o bazooka antispread) “abbiamo guadagnato tempo prezioso, non infinito”. Quelle scelte della banca centrale “si pongono in un rapporto bene definito con il processo di integrazione europea”. Sono insomma una sua parte costitutiva. La Bce, però, “non si può sostituire all’azione dei Governi nazionali nè per efficacia delle politiche economiche né in merito alla legittimità democratica”. È l’elemento di debolezza che favorisce la crescita dell’insofferenza popolare sul continente, fino all’aperta ribellione di queste settimane in molti paesi.

Spetta dunque ai Governi “dissolvere definitivamente le incertezze che persistono sui mercati e che intimoriscono i cittadini”. In Europa si palleggia benissimo, ma di gol se ne vedono pochi..

Italia, Francia e Spagna in crisi di deficit. L’unica via è svalutare l’euro del 20% e metterlo a pari con il dollaro

di Martin Feldstein

Le prospettive per l’euro e per l’Eurozona rimangono incerte. Ma i recenti eventi alla Banca centrale europea, in Germania e sui mercati finanziari globali inducono a prendere in considerazione uno scenario favorevole per il futuro della valuta unica.

La Bce ha promesso di acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli per tenerne bassi i tassi di interesse, a condizione che questi Paesi chiedano l’apertura di una linea di credito al Meccanismo europeo di stabilità e aderiscano alle riforme concordate per la spesa pubblica. La Corte costituzionale tedesca ha approvato la partecipazione della Germania al Meccanismo europeo di stabilità e la cancelliera Angela Merkel ha dato la sua benedizione al piano di acquisto di titoli di Stato della Bce, nonostante la decisa contrarietà (espressa pubblicamente) della Bundesbank. I mercati obbligazionari internazionali hanno manifestato la loro approvazione tagliando i tassi di interesse sui titoli di Stato decennali dell’Italia e per quelli della Spagna.

Gli interessi sui titoli di Stato italiani erano già in calo prima che il presidente della Bce Mario Draghi annunciasse lo scudo anti-spread, grazie ai sostanziali progressi già realizzati dall’esecutivo Monti: nuove disposizioni legislative rallenteranno fortemente la crescita delle indennità previdenziali e l’incremento delle tasse sulla prima casa consentirà di raccogliere introiti rilevanti senza gli effetti negativi, in termini di incentivi, che si avrebbero con un incremento delle tasse sul reddito personale, delle tasse sul lavoro o dell’imposta sul valore aggiunto.
In seguito a queste riforme, il Fondo monetario internazionale recentemente ha pronosticato per l’Italia un avanzo, corretto in base alla congiuntura, di quasi l’1% del Pil nel 2013. Sfortunatamente, dato che l’Italia il prossimo anno sarà ancora in recessione, il disavanzo reale sarà dell’1,8% del Pil, con un aggravamento del debito pubblico. Ma quando arriverà la ripresa economica il bilancio andrà in attivo.

Quando i mercati vedranno profilarsi questo scenario faranno scendere ulteriormente i tassi di interesse sul debito sovrano italiano. Data la mole del debito pubblico, il pagamento degli interessi aggrava il disavanzo di bilancio italiano nella misura di oltre il 5% del Pil. L’effetto combinato della ripresa economica e di tassi più bassi produrrebbe una dinamica virtuosa, con il calo dei tassi di interesse e la crescita dell’attivo di bilancio che si rafforzerebbero a vicenda.

In Spagna la situazione non è altrettanto incoraggiante. Nonostante i tagli della spesa pubblica e gli aumenti delle tasse, le proiezioni dell’Fmi parlano ancora di un disavanzo di bilancio corretto in base alla congiuntura superiore al 3,2% del Pil per il 2013 e al 2,3% del Pil per il 2015. L’elemento chiave dei problemi di bilancio della Spagna sta nel suo sistema di regioni semiautonome, che generano spesa e scaricano l’onere finanziario su Madrid. Forse il successo dell’Italia contribuirà a convincere la Spagna ad adottare misure drastiche in grado di migliorare le previsioni sul deficit futuro senza aggiungere nel presente altre misure di austerity.

Se l’Italia e la Spagna potranno presentare avanzi di bilancio e un rapporto debito/Pil in calo, i mercati finanziari ridurranno i tassi di interesse sui loro buoni del Tesoro senza necessità di ricorrere ai ventilati acquisti della Bce. In questo modo verrà meno il rischio che Francoforte possa iniziare a comprare titoli di Stato sulla base di misure di spesa concordate, per poi essere costretta a reagire se i Governi non dovessero applicarle.

Nulla di tutto ciò basterebbe per salvare la Grecia o il Portogallo, dove il deficit è rispettivamente del 7,5 e del 5% del Pil. Ma se Italia e Spagna non corressero più il rischio di andare in default, o di abbandonare l’euro, la Germania e gli altri leader dell’Eurozona avrebbero margine di manovra per decidere se continuare a finanziare questi piccoli Stati o invitarli gentilmente a lasciare l’euro e tornare alle loro valute nazionali.
Inoltre, anche in questo scenario ottimistico, rimarrà il problema del deficit delle partite correnti di Italia, Spagna e altri Paesi della periferia dell’euro.

Le differenze fra Paesi dell’Eurozona quanto al ritmo di crescita di produttività e salari continueranno a originare disparità nella competitività internazionale, con conseguenti squilibri commerciali e delle partite correnti. La Germania in questo momento ha un surplus di circa 215 miliardi di dollari l’anno nel saldo con l’estero, mentre il resto della zona euro ha un deficit di circa 140 miliardi di dollari.

Italia, Spagna e Francia hanno un disavanzo nel saldo con l’estero pari a circa il 2% del Pil o più. Quando usciranno dalle loro recessioni congiunturali, i redditi aumenteranno, con conseguente incremento delle importazioni e ulteriore aggravamento del disavanzo con l’estero. Per finanziare questi deficit dovranno ricorrere a flussi di denaro in ingresso da altri Paesi.
Se Italia, Spagna e Francia non stessero nell’Eurozona potrebbero lasciar svalutare le loro monete: il tasso di cambio più debole favorirebbe le esportazioni e ridurrebbe le importazioni, eliminando il deficit. Inoltre, l’incremento delle esportazioni e la sostituzione delle importazioni con beni e servizi prodotti in patria rafforzerebbe le loro economie, riducendo il deficit di bilancio grazie all’incremento del gettito fiscale e al calo dei trasferimenti. E un’economia più forte aiuterebbe le banche nazionali riducendo l’ammontare potenziale di crediti in sofferenza e l’insolvenza sui mutui.
Ma naturalmente Italia, Spagna e Francia fanno parte dell’Eurozona, e non possono svalutare. Ecco perché penso che questi Paesi – e l’Eurozona più in generale – potrebbero trarre beneficio da una svalutazione dell’euro. Un euro più debole non li renderebbe più competitivi rispetto alla Germania e agli altri Paesi dell’Eurozona, ma accrescerebbe la loro competitività rispetto a tutti gli altri Paesi.
Se l’euro si svalutasse del 20-25%, arrivando vicino alla parità con il dollaro e indebolendosi in egual misura rispetto alle altre valute, il deficit delle partite correnti in Italia, Spagna e Francia si ridurrebbe e l’economia di questi Paesi si rafforzerebbe. Anche le esportazioni tedesche beneficerebbero di un indebolimento dell’euro, rafforzando la domanda economica complessiva in Germania.
Paradossalmente, l’offerta della Bce di acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli ha aggravato gli squilibri esterni provocando una rivalutazione dell’euro. Forse è solo un effetto temporaneo e l’euro si svaluterà non appena i mercati finanziari si renderanno conto che serve un cambio più basso per ridurre il disavanzo delle partite correnti nei tre grandi Paesi latini dell’Eurozona. In caso contrario, la prossima grande sfida della Bce sarà trovare un modo per convincere l’euro a scendere.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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