I rapporti del Centro Studi di Confindustria sono sempre un indice attendibile dello stato dell’economia. Almeno se si guarda ai dati. Quando si leggono soltanto le “introduzioni”, invece, o peggio ancora gli abstract per la stampa, il rischio è quello di prendere per buona la propaganda invece che la scienza.
Stavolta il rischio è più alto del solito, perché c’è l’esigenza di far corrispondere i dati dello studio alle necessità delle imprese associate in Confindustria (ler la stragrande maggioranza impegnate sul “mercato interno”) e al “discorso” ufficiale che promana dal governo e dai ministri “economici”.
L’esigenza di propaganda e quella scientifica entrano perciò in un certo contrasto, producendo come sintesi uno dei tanti ossimori che sterilizzano e precludono la comprensione della gravità della crisi: «consolidamento fragile». Ma quando degli analisti sono costretti a “curare con la lingua” delle malattie piuttosto hard, o intrattabili, vuol dire che la situazione è grave. Se fate il paragone con un altro ossimoro di successo – “guerra umanitaria” – potete farvi un’idea della complessità del problema.
Vediamo un po’ più da vicino la situazione, rimandandovi al documento originale per chi volesse approfondire.
Naturalmente vengono segnalati i “timidi segnali di ripresa”, ben conditi con le “grandi attese” sollevate dalla “crescita della fiducia rilevata tra famiglie e imprese” (un indicatore più psicologico che scientifico, che risente – specie dal lato delle “famiglie” – del peso del “discorso pubblico” veicolato dai media). Grande enfasi anche sul “basso livello delle scorte”, interpretato come sintomo di una prossima o attuale “ripartenza della domanda”. Prudenza avrebbe voluto che il livello delle scorte fosse messo in relazione con i non eccelsi volumi della produzione manifatturiera; perché “le scorte” possono essere limitate sia per cause “a valle” (le maggiori vendite) che “a monte” (riduzione dei ritmi produttivi).
Messe in luce le poche “buone nuove”, nel rapporto del Cs parte immediatamente la frenata sui possibili ottimismi eccessivi.
Quindi nessun «autocompiacimento», «la rotta è tutt’altro che sicura e tracciata». E non solo a causa dell’instabilità politica (non così acuta, al momento della scrittura del rapporto). L’Italia starebbe passando «dalla caduta alla lenta ripresa», il Pil appare destinato a passare dal previsto -1,6% del 2013 (ma nei primi sei mesi dell’anno è già sceso dell’1,8, quindi dovrebbe esserci già ora una “risalita” per raggiungere la previsione); e salire al +0,7 del 2014, soltanto grazie all’export. Non è una previsione entusiasmante, se sitiene conto che con questi numeri la “fine della recessione” ci consegnerebbe comunque un paese che ha perso quasi il 9% di Pil in cinque anni.
In ogni caso «l’uscita sarà lenta», e naturalmente sarà «cruciale» la “stabilità politica”. Ovvero la continuità dei governi della Troika, senza turbative “berlusconiane” o – tantomeno – dovute a conflittualità sociale. Fidatevi delle imprese e del govrno, e forse prima o poi vi tireremo fuori dalla miseria….
Da dove viene tanto “ottimismo”? Difficile trovare motivi di gioia nell’atteso “zero spaccato” della dinamica del Pil nel terzo trimestre di quest’anno. Vero è che si tratterebbe di uno “zero” che arriva dopo molti segni “meno”, ma chiamare questa stasi nella caduta come “un’inversione di tendenza” appare decisamente eccessivo. Un wishful thinking, più che una previsione scientifica.
«Se confermata, la variazione nulla stimata ora per il Pil nel terzo trimestre 2013 interrompe la contrazione iniziata due anni prima e durata otto trimestri». Interrompe… Ma tanto basta per dire che l’Italia si trova ormai «al punto di svolta», fidando nell’indicatore Ocse che «indica il ritorno alla crescita del Pil entro la fine del 2013». Ce lo dicono, ci crediamo.
Naturalmente ci sono una serie di “ricette” confindustriali che andrebbero applicate subito per “irrobustire” una crescita asfittica, più che gracile. E quindi: un intervento rapido del governo per ridurre il cuneo fiscale e contributivo (meno tasse per le imprese), ovvero un taglio del “cuneo fiscale” da inserire nella prossima legge di stabilità. «L’azione di un Paese che deve mantenere i conti pubblici in equilibrio e viene da più di un decennio di decrescita non può non essere convintamente rivolta ad accrescere la propria competitività» agendo soltanto sul lato del costo del lavoro. Ancora una volta, cocciutamente, stupidamente, Confindustria persegue il rilancio cercando “concorrenzialità” con i paesi che ci stanno dietro – nella scala dell’industrializzazione – piuttosto che con quelli che ci precedono. Così facendo, inevitabilmente, si chiede di avere un “paese povero”, che riduce i propri consumi e quindi – per contrappasso – deprime ulteriormente la struttura produttiva nazionale.
Sono pazzi, questi industriali.
Qui di seguito il rapporto completo:
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