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Ripresa zero, Bce in campo, euro a rischio

“La crisi è alle spalle, ormai siamo alla svolta”. Di queste parole così di frequente sparate dai nostri governanti – si fa per dire – non c’è traccia nelle più importanti sedi istituzionali europee. Oggi, per esempio, il governatore della Bce Mario Draghi, convocato appunto davanti al Parlamento europeo, ha ribadito di essere abbastanza preoccupato per il prossimo futuro.

La politica monetaria della Bce, infatti, resterà morbida “finché sarà necessario”. E non si tratta di una posizione personale. Tutto “il Consiglio direttivo”, riunito di recente, “ha confermato di attendersi che i tassi di interesse di riferimento della Bce rimangano su livelli pari o inferiori a quelli attuali per un prolungato periodo di tempo”.

 

E il concetto di “ripresa” che viene preso in considerazione a Francoforte ha caratteristiche ben diverse dal semplice fermarsi della recessione. “La crescita del Pil in termini reali è stata positiva nel secondo trimestre, dopo sei trimestri con il segno negativo”, ha spiegato Draghi indicando prima la parte mezza piena del bicchiere. Ma non basta davvero che diversi indicatori lascino presagire che “la lenta ripresa dovrebbe proseguire nel trimestre in corso, nonostante i dati deboli dall’industria”. Perché questa dinamica è così asfittica da non creare lavoro. “La disoccupazione nella zona euro resta troppo elevata e la ripresa dovrà essere ristabilita con fermezza”.

 

E qualche dubbio emerge anche rispetto alla giustezza della politica monetaria fin qui tenuta dalla stessa Bce. «La dinamica del credito resta sottomessa e il miglioramento significativo nel finanziamento delle banche dall’estate 2012 non ha ancora dato origine in una fornitura più elevata di credito», quindi il “salvataggio delle banche” non si è tradotto in ripresa dell’erogazione di credito all’economia reale. Le banche, insomma, si son prese il denaro facile prestato o regalato loro dalla Bce, ma se lo son tenuto in cassaforte, oppure ci hanno fatto speculazioni a breve su titoli di stato o mercato azionario.

Perciò “la Bce è pronta, se necessario, a usare altre misure, anche un’altra operazione Ltro”. Ovvero a finanziare illimitatamente, e ancora, le banche che non fanno il loro mestiere.

 

Ciò nonostante, il martello della Bce cade ancora e sempre sul mercato del lavoro, il welfare e dintorni. “è importante che i Paesi proseguano le riforme” concordate, perché “i mercati finanziari si ritirano da un paese al minimo segno che qualcosa va male”. Che “il male” siano per l’appunto “i mercati”, naturalmente, non può essere un’idea che Draghi possa condividere.

Più radicale “il monito degli economisti” apparso oggi sul Financial Times. Che qui riportiamo nella traduzione fatta dalla redazione di economiaepolitica.it.

*****

La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.

Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasp

“La crisi è alle spalle, ormai siamo alla svolta”. Di queste parole così di frequente sparate dai nostri governanti – si fa per dire – non c’è traccia nelle più importanti sedi istituzionali europee. Oggi, per esempio, il governatore della Bce Mario Draghi, convocato appunto davanti al Parlamento europeo, ha ribadito di essere abbastanza preoccupato per il prossimo futuro.

La politica monetaria della Bce, infatti, resterà morbida “finché sarà necessario”. E non si tratta di una posizione personale. Tutto “il Consiglio direttivo”, riunito di recente, “ha confermato di attendersi che i tassi di interesse di riferimento della Bce rimangano su livelli pari o inferiori a quelli attuali per un prolungato periodo di tempo”.

 

E il concetto di “ripresa” che viene preso in considerazione a Francoforte ha caratteristiche ben diverse dal semplice fermarsi della recessione. “La crescita del Pil in termini reali è stata positiva nel secondo trimestre, dopo sei trimestri con il segno negativo”, ha spiegato Draghi indicando prima la parte mezza piena del bicchiere. Ma non basta davvero che diversi indicatori lascino presagire che “la lenta ripresa dovrebbe proseguire nel trimestre in corso, nonostante i dati deboli dall’industria”. Perché questa dinamica è così asfittica da non creare lavoro. “La disoccupazione nella zona euro resta troppo elevata e la ripresa dovrà essere ristabilita con fermezza”.

 

E qualche dubbio emerge anche rispetto alla giustezza della politica monetaria fin qui tenuta dalla stessa Bce. «La dinamica del credito resta sottomessa e il miglioramento significativo nel finanziamento delle banche dall’estate 2012 non ha ancora dato origine in una fornitura più elevata di credito», quindi il “salvataggio delle banche” non si è tradotto in ripresa dell’erogazione di credito all’economia reale. Le banche, insomma, si son prese il denaro facile prestato o regalato loro dalla Bce, ma se lo son tenuto in cassaforte, oppure ci hanno fatto speculazioni a breve su titoli di stato o mercato azionario.

Perciò “la Bce è pronta, se necessario, a usare altre misure, anche un’altra operazione Ltro”. Ovvero a finanziare illimitatamente, e ancora, le banche che non fanno il loro mestiere.

 

Ciò nonostante, il martello della Bce cade ancora e sempre sul mercato del lavoro, il welfare e dintorni. “è importante che i Paesi proseguano le riforme” concordate, perché “i mercati finanziari si ritirano da un paese al minimo segno che qualcosa va male”. Che “il male” siano per l’appunto “i mercati”, naturalmente, non può essere un’idea che Draghi possa condividere.

Più radicale “il monito degli economisti” apparso oggi sul Financial Times. Che qui riportiamo nella traduzione fatta dalla redazione di economiaepolitica.it.

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La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.

Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.

C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi  attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee. Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo. Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro. Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da Philip Arestis (University of Cambridge), Georgios Argeitis (Athens University), Wendy Carlin (University College of London), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Giuseppe Fontana (Università del Sannio), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Malcolm Sawyer (Leeds University), Willi Semmler (New School University, New York), Felipe Serrano (University of the Basque Country), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).  *”Il monito degli economisti” è stato pubblicato nella versione inglese dal Financial Times il 23 settembre 2013. Per firmare il “monito”, per contattare i promotori e per tutti i materiali si rinvia al sito web: www.theeconomistswarning.com.

rimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.

C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi  attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee. Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupp

“La crisi è alle spalle, ormai siamo alla svolta”. Di queste parole così di frequente sparate dai nostri governanti – si fa per dire – non c’è traccia nelle più importanti sedi istituzionali europee. Oggi, per esempio, il governatore della Bce Mario Draghi, convocato appunto davanti al Parlamento europeo, ha ribadito di essere abbastanza preoccupato per il prossimo futuro.

La politica monetaria della Bce, infatti, resterà morbida “finché sarà necessario”. E non si tratta di una posizione personale. Tutto “il Consiglio direttivo”, riunito di recente, “ha confermato di attendersi che i tassi di interesse di riferimento della Bce rimangano su livelli pari o inferiori a quelli attuali per un prolungato periodo di tempo”.

 

E il concetto di “ripresa” che viene preso in considerazione a Francoforte ha caratteristiche ben diverse dal semplice fermarsi della recessione. “La crescita del Pil in termini reali è stata positiva nel secondo trimestre, dopo sei trimestri con il segno negativo”, ha spiegato Draghi indicando prima la parte mezza piena del bicchiere. Ma non basta davvero che diversi indicatori lascino presagire che “la lenta ripresa dovrebbe proseguire nel trimestre in corso, nonostante i dati deboli dall’industria”. Perché questa dinamica è così asfittica da non creare lavoro. “La disoccupazione nella zona euro resta troppo elevata e la ripresa dovrà essere ristabilita con fermezza”.

 

E qualche dubbio emerge anche rispetto alla giustezza della politica monetaria fin qui tenuta dalla stessa Bce. «La dinamica del credito resta sottomessa e il miglioramento significativo nel finanziamento delle banche dall’estate 2012 non ha ancora dato origine in una fornitura più elevata di credito», quindi il “salvataggio delle banche” non si è tradotto in ripresa dell’erogazione di credito all’economia reale. Le banche, insomma, si son prese il denaro facile prestato o regalato loro dalla Bce, ma se lo son tenuto in cassaforte, oppure ci hanno fatto speculazioni a breve su titoli di stato o mercato azionario.

Perciò “la Bce è pronta, se necessario, a usare altre misure, anche un’altra operazione Ltro”. Ovvero a finanziare illimitatamente, e ancora, le banche che non fanno il loro mestiere.

 

Ciò nonostante, il martello della Bce cade ancora e sempre sul mercato del lavoro, il welfare e dintorni. “è importante che i Paesi proseguano le riforme” concordate, perché “i mercati finanziari si ritirano da un paese al minimo segno che qualcosa va male”. Che “il male” siano per l’appunto “i mercati”, naturalmente, non può essere un’idea che Draghi possa condividere.

Più radicale “il monito degli economisti” apparso oggi sul Financial Times. Che qui riportiamo nella traduzione fatta dalla redazione di economiaepolitica.it.

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Il monito degli economisti

La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.

Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.

C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi  attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee.

Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo.

Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.

* Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da Philip Arestis (University of Cambridge), Georgios Argeitis (Athens University), Wendy Carlin (University College of London), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Giuseppe Fontana (Università del Sannio), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Malcolm Sawyer (Leeds University), Willi Semmler (New School University, New York), Felipe Serrano (University of the Basque Country), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).  *”Il monito degli economisti” è stato pubblicato nella versione inglese dal Financial Times il 23 settembre 2013. Per firmare il “monito”, per contattare i promotori e per tutti i materiali si rinvia al sito web: www.theeconomistswarning.com.

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