Menu

Petrolio ai minimi, pericoli ai massimi

Tutto va al contrario, difficile parlare di normalità. Parliamo di economia globale, naturalmente, dove tutte le certezze consegnate ai manuali di macroeconomia liberista sono semplicemente sovvertite, rovesciate di segno.

Esempi? Quanti ne volete. L’inflazione, per dire la più semplice. Si insegna forse persino all’istituto per geometri che – se le banche centrali abbassano i tassi o addirittura (misura “non convenzionale”, quindi non prevista dai manuali) immettono liquidità nel sistema finanziario – l’eccesso di moneta produce “spontaneamente” aumento dei prezzi. E invece niente. Sette anni di tassi (Usa) azzerati e tre anni di quantitative easing (solo uno quello della Bce, ma non è che l’inizio) non hanno prodotto neanche un briciolo di inflazione. Piatta dappertutto, negativa in alcune aree o paesi. E gli investimenti, giustamente, languono.

Altro esempio, il prezzo del petrolio. Si sa che le riserve sotterranee sono limitate e che – forse – siamo giunti come umanità molto vicini al “picco di Hubbert” globale, ovvero ad averne consumato la metà di quanto la natura ci ha messo a disposizione. Teoricamente, il prezzo dovrebbe esplodere. E lo aveva fatto, fino al 2008 (record a 147 dollari, +600% in sei anni), quando il crollo dei mercati mondiali seguito al fallimento di Lehmann Brothers ha fatto precipitare il prezzo a 30 dollari al barile. Tutto normale, tutto secondo le regole dei manuali, perché – nonostante i ben noti limiti fisici – se l’economia si ferma diminuisce drasticamente anche il fabbisogno di energia. Dunque la domanda e infine il prezzo.

Poi sono intervenuti nuovi soggetti produttori, con nuove tecniche estrattive adatte a sfruttare risorse fin lì trascurate perché troppo costose in regime di bassi prezzi: lo shale oil, soprattutto negli Stati Uniti, con la devastante (per l’ambiente) tecnica del fracking. Ma il prezzo è risalito egualmente, per qualche anno (mediamente intorno ai 100 dollari al barile), perché comunque le economie emergenti – Cina in testa – tiravano da pazzi. Ed erano economie a bassa-media tecnologia, per la maggior parte, quindi fortemente energivore.

La botta fuori logica di mercato è arrivata dall’Arabia Saudita, che ha cercato – inutilmente – di far fuori diversi concorrenti abbattendo il prezzo, ovvero aumentando a dismisura la sua produzione. È anche l’unico paese produttore che possedeva spare capacity, ovvero un margine potenziale più alto dell’estrazione quotidiana “normale”. Ha certamente fatto molto male ai suoi obiettivi (Russia, Iran e e società Usa dello shale, che ha un costo di estrazione medio tra i 40 e gli 80 dollari al barile), ma si è anche fatta malissimo da sola. Per la prima volta (vedi https://contropiano.org/economia/item/34527-che-succede-se-il-prestatore-del-mondo-diventa-debitore) nella sua breve storia il regno saudita ha presentato un bilancio statale in rosso e quindi varato misure di austerità tanto drastiche quanto insolite per la patria degli sceicchi.

Qui i manuali di macroeconomia liberista – ne ha scritto uno anche Giavazzi, se siete curiosi – predicono unanimente: “forte rialzo dei prezzi”, come obiettivo. Quindi diminuzione della produzione, magari concordata con gli altri membri del cartello Opec.

E invece – sempre per scelta saudita – nessun accordo tra i 13 membri, tutti a pompare come dannati per tener su il massimo possibile le entrate pur in presenza di un prezzo unitario internazionale più basso. Mentre l’intervento dei Saud in Yemen inghiotte sei miliardi di dollari al mese.

Infine la provocazione politica della decapitazione del massimo imam sciita nell’Arabia a maggioranza sunnita, l’assalto all’ambasciata degli sceicchi a Tehran, la rottura delle relazioni diplomatiche, i motori degli aerei da caccia tenuti sempre caldi, le truppe in allerta…

Qui i manuali e l’esperienza pratica di un settantennio sentenziano: “forte rialzo dei prezzi”. Se sfffiano venti di guerra tra tutti i paesi del Golfo Persico, non può avvenire altro. E invece niente. Il barile crolla ancora, tutti i giorni: 32 dollari oggi per il Brent (la qualità migliore, più facilmente raffinabile), addirittura meno di 30 dollari per il “barile Opec”, ovvero la media delle qualità disomogenee estratte dai membri del cartello.

Se il mondo va al contrario, qualcosa significa. Non serve essere scienziati per capirlo.

In primo luogo significa che non va – e non andrà, perlomeno nell’orizzonte temporale su cui ragionano “i mercati” (un anno al massimo) – l’economia reale del pianeta. La lenta caduta della Cina basta e avanza a tagliare le previsioni di crescita della domanda di energia, e quindi anche dei prezzi. Idem o peggio per tutti gli “emergenti”, tranne forse l’India, che cresce al ritmo di oltre il 7%, ma in valori assoluti è ancora un nano o quasi.

Tutto funziona al contrario di quanto scritto nei manuali liberisti. Ma non pensate che quindi tutto possa svilupparsi senza drammi. C’è uno stallo, un’attesa generalizzata di un qualcosa che sparigli le carte, che rompa equilibri di forza ormai paralizzanti (gli Usa sono alleati storici dei sauditi, ma dovrebbero combattere l’Isis creato dai sauditi insieme a russi ed europei; la Turchia è membro della Nato, ma combatte i curdi invece dell’Isis; Russia e Iran combattono l’Isis per limitare indirettamente il peso di Turchie e sauditi, ecc).

Il primo colpo di cannone “vero”, tra protagonisti e non tra “delegati”, può avvenire in qualsiai momento. Per errore di calcolo, come sempre accaduto nella storia. E fin qui, di calcoli sbagliati (tra Turchia, Arabia Saudita, Unione Europea e Usa), ne sono stati fatti già troppi, per restare senza conseguenze che vadano ben al di là di qualche sanguinoso attentati nelle nostre strade.

A quel punto il prezzo del petrolio avrà per tetto il cielo. Perché ce ne sarà in giro assai poco…

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *