Che c’è di meglio di un “mercato aperto”, dove le imprese possono fare le loro scelte di investimento in libertà? Questo ritornello viene suonato da quasi 40 anni senza una sola interruzione e tutti sono stati persuasi – persino buona parte della sinistra più estrema – che questo è in fondo il migliore dei mondi possibili. Si chiama Unione Europea, ci sta strangolando lentamente (a tutti noi – lavoratori con o senza contratto – che viviamo in un paese mediterraneo), ma guai a metterla in discussione…
Ma funziona davvero nel modo che viene descritto? Sì e no. Se un’impresa opera in territorio italiano, in effetti, può fare quello che le pare. Può arrivare, andarsene, chiudere, trasferire i macchinari, licenziare tutti (ci pensa la cassa integrazione, per un po’…). Se si cambia paese – pur restando dentro l’Unione Europea – le cose cambiano. E drasticamente.
Ieri l’agenzia Reuters ha reso noto che il marchio francese Peugeot – che fa parte del gruppo Psa, di proprietà paritaria tra la famiglia Peugeot, lo stato francese e la Dongfeng motors – ha avviato trattative con l’americana General Motors per acquisire le attività europee della Opel. L’azienda francese ha subito confermato la notizia, pur facendo notare che ci si trova solo allo stadio iniziale. I tedeschi – tutti, dal governo ai sindacati – si sono incazzati come non accadeva da anni.
Perché? In fondo avviene tutto tra “fratelli europei”, no? A vendere sono gli americani, a comprare i cuginetti francesi – partner strategico che tiene insieme l’asse governante dell’Unione Europea – cos’hanno i tedeschi da temere?
La questione fondamentale non concerne la proprietà della Opel europea, ma l’assetto industriale, il numero di stabilimenti ed occupati.
I dettagli maligni sono numerosi:
a) stabilimenti e lavoratori Opel sono quasi tutti tedeschi;
b) i modelli prodotti dalle due case automobilistiche sono largamente sovrapponibili (l’uno vale l’altro, per segmento, dimensioni, prestazioni, prezzi).
Dunque, come sottolinea la stessa Peugeot, “l’obiettivo di aumentare la redditività e l’efficienza operativa” comporterebbe necessariamente una ristrutturazione complessiva, con l’eliminazione di stabilimenti e dipendenti in “esubero”. E dove pensate che avverrebbero i tagli? In Francia sicuramente no…
Ecco la ragion per cui la ministra tedesca dell’economia Brigitte Zypries ha definito “inaccettabile” che le due aziende non abbiano informato prima dei loro piani il consiglio di fabbrica, il sindacato, il governo locale e quello federale. Se lo può permettere perché è tedesca, in Italia ci si sarebbe limitati a un “sono scelte che spettano al mercato”…
Ovviamente ancora più violenta è stata la reazione dell’Ig Metall, il sindacato dei metalmeccanici: “una violazione senza precedenti dei diritti di cogestione”. E apprendiamo così – vale per chi non lo sapeva, ovvio – che il sindacato tedesco non solo rappresenta (in qualche modo) i lavoratori, ma “cogestisce” l’azienda, partecipa al suo consiglio di amministrazione e dunque pretende di sapere tutto quel che riguarda il futuro dell’azienda stessa. Lasciamo perdere cosa avrebbero detto CgilCislUil qui da noi…
Da questa notizia emerge dunque che:
– “la libertà del mercato” è inversamente proporzionale alla capacità di uno Stato di imporre una mediazione tra interessi dell’impresa e quelli della popolazione; un operaio tedesco può ancora contare su un forte grado di protezione da parte del "suo" Stato, mentre quelli italiani, greci, ecc, assolutamente no;
– un’impresa multinazionale a maggioranza francese (e forte partecipazione cinese) non è ben accolta in Germania se non passa per le “vie legali interne” a quel paese (alla faccia della prevalenza delle “regole europee” che vengono fatte valere a suon di procedure di infrazione per paesi meno forti);
– i prezzi da pagare a una ristrutturazione produttiva “efficiente” possono essere considerati “naturali” in un paese e “intollerabili” in un altro.
Oltretutto stiamo parlando dell’industria automobilistica, sottoposta alla più grande ristrutturazione produttiva da quando esiste, alle prese con la sfida dell’automazione delle linee di montaggio e con l’evoluzione dell'auto verso l'elettrificazione e le tecnologie digitali (connessione in rete e automazione della guida). Due linee evolutive che richiedono investimenti giganteschi, affrontabili soltanto se si riescono ad attivare sinergie intorno a piattaforme che rispondano a questi imperativi. E che dunque possano contare su volumi di vendita altrettanto giganteschi. Anche qui un dettaglio scabroso va evidenziato: in questa ristrutturazione il numero di posti di lavoro che vanno cancellati è altrettanto gigantesco. E non è secondario, neanche per i governi nazionali interessati, stabilire chi decide dove andranno eliminati…
Da questo punto di vista, dunque, anche la potente Germania merkeliana appare meno forte di quanto non credesse di essere. Ma in un anno elettorale, non può far altro che resistere. Confermando così che l’Unione Europea è una casa dove “le regole” valgono per chi non conta nulla…
Il tutto in un “ambiente” economico sempre pià scopertamente protezionistico. E’ di oggi l’iniziativa congiunta italo-franco-tedesca che chiede all’Unione Europea di impedire alla Cina lo shopping di aziende considerate strategiche. In una lettera alla Commissione europea, inviata all’attenzione della commissaria al Commercio Cecilia Malmstroem, l’italiano Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo, la tedesca Brigitte Zypries, ministra dell’Economia, e il francese Michel Sapin, ministro della Finanze, fanno infatti presente che simili acquisti siano possibili solo in caso di “reciprocità”.
Apparentemente questo non incide sulla libertà di mercato, in realtà la subordina alle scelte statuali o sovranazionali (della Ue, in questo caso), che riprendono a distinguere tra azienda e azienda in base alla nazionalità…
Nella retorica mercatista, ufficialmente si demonizza il protezionismo (che è poi il pezzo forte del “populismo di destra”), nei fatti lo si comincia a praticare.
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