Le pubblicazioni del Fondo Monetario Internazionale vanno sempre seguite con attenzione, perché descrivono nei dettagli quel che ci si aspetta dai vari governi nazionali. Non “ordini”, formalmente, ma preavvisi. Se poi uno Stato devierà da binario prescritto scatteranno le contromisure dello stesso Fmi e soprattutto quelle dei mitici “mercati finanziari”, pronti ad avventarsi sulle prede più facili.
La pubblicazione del Fiscal Monitor, due giorni fa, dedica come sempre un capitoletto all’Italia e getta un’ombra piuttosto densa sulle possibilità che il prossimo governo – da chiunque sia formato – possa effettivamente mettere in cantiere una qualsiasi delle promesse elettorali.
Per il Fondo, la priorità assoluta per l’Italia è come sempre il risanamento dei conti pubblici. A partire da “l’avvio di un consolidamento fiscale credibile e ambizioso per porre il debito su un solido percorso discendente”. In pratica è l’entrata a regime del Fiscal Compact, come previsto dai trattati europei, che prescrivono una riduzione del debito pubblico al 60% del Pil nell’arco di 20 anni.
Per riuscire nell’impresa, o almeno avvicinare ‘obiettivo, il prossimo governo dovrà realizzare “il taglio della spesa primaria corrente, ll sostegno alle fasce più deboli, l’aumento degli investimenti e la riduzione del carico fiscale sul lavoro, con un ampliamento della base imponibile e uno spostamento verso la tassazione delle ricchezze e degli immobili e dei consumi”.
Come si vede, è un programma di governo già pronto e confezionato, da cui si capisce perfettamente quali figure sociali verranno aggredite (lavoratori, pensionati e l’ex “ceto medio”) e quali avvantaggiate. Potrebbe sorprendere quell’accenno al “sostegno alle fasce più deboli”, ma in realtà il Fmi considera tali tutte le misure di workfare, ovvero le politiche pensare per obbligare le “fasce più deboli” a lavorare per uno stipendio assolutamente misero (chiamato però “sussidio” o similari).
Notevoli i dettagli, come l’aumento dell’Imu e dell’Iva, che vanno a colpire appunto “immobili e consumi”, con palese indifferenza per il fatto accertato che ogni incremento della tassazione indiretta si traduce immediatamente in riduzione dei consumi e quindi in rallentamento della parte di produzione destinata al mercato interno. Per quanto riguarda la riduzione della “spesa corrente”, constatato che non si può evitare di pagare “il servizio del debito” (gli interessi sui titoli di stato), né di aumentare – come obbligo Nato – la spesa militare, non resta che ridurre drasticamente le più grandi voci di spesa: sanità, pensioni, istruzione e in generale pubblico impiego.
Da questa angolatura, si comprende benissimo la difficoltà di mettere insieme una coalizione di governo per realizzare questa roba qui (altro che “abolizione della Fornero”, “reddito di cittadinanza”, ecc). Chiunque lo faccia, perde la faccia. E al prossimo giro di elezioni farà la stessa parte di Monti e Renzi (che hanno realizzato le tappe precedenti di questo stesso programma).
Ma il Fondo si occupa soprattutto del mondo. E qui i “consigli” diventano davvero scarsi, anche perché la situazione debitoria complessiva (debito pubblico più debito privato) ha fatto registrare il più alto livello di sempre: «164mila miliardi di dollari nel 2016, equivalente al 225% del Pil mondiale».
Strano, ma vero, dopo 10 anni di austerità feroce, soprattutto nell’Unione Europea. Una parte della spiegazione sta nel fatto che non tutte le aree continentali – anzi, praticamente nessuna – hanno seguito la stessa linea. Ma la parte più grande sta nelle politiche monetarie “espansive” seguite da tutte le banche centrali del mondo, Bce compresa.
In pratica, detta grossolanamente, per impedire il tracollo del sistema finanziario e produttivo globale dopo il crack planetario del 2008, occorreva come minimo una “politica keynesiana”, ossia di spesa pubblica in deficit per contrastare la fuga del capitale privato dagli investimenti. Ma non si poteva fare; non solo per ragioni “ideologiche” (il neoliberismo come pensiero unico valido per tutti), quanto per ragioni concrete. Una politica keynesiana necessita di uno Stato – oltretutto “molto forte”, consigliava lo stesso Keynes – che emette debito e stimola l’economia. Ma nel mondo gli Stati sono tanti, e quasi nessuno particolarmente “forte” sul piano ecnomico-finanziario (gli Usa, avverte il Fmi, tra cinque anni avranno un rapporto debito/Pil superiore a quello italiano!). Dunque questo ruolo è stato assolto dalle banche centrali, che hanno preso a “stampare moneta” prestandola a tasso zero.
Questa scelta ha evitato che la crisi si avvitasse in modo catastrofico, ma aveva le sue controindicazioni, che ora stanno giungendo ad effetto. «I rischi di breve termine alla stabilità finanziaria – sostiene l’Fmi – sono cresciuti e i rischi nel medio termine continuano a essere elevati. Le vulnerabilità finanziarie, che si sono accumulate durante anni di tassi e volatilità estremamente bassi, potrebbero rendere accidentata la strada andando avanti e potrebbero mettere a rischio la crescita».
Una strada già intrapresa dalla Federal Reserve, che ha preso ad alzare i tassi da quasi due anni, e che può far esplodere il “servizio del debito” e dunque la stessa possibilità di rifinanziarlo (gli Stati restituiscono le somme prese in prestito, più gli interessi, ma emettono contemporaneamente titoli di debito per cifre equivalenti, in genere; a meno che non dispongano di un avanzo primario – divario positivo tra entrate fiscali e uscite – molto consistente).
L’enorme massa di liquidità aggiuntiva creata in questi anni e in giro per il mondo, insomma, non sa più esattamente in quale direzione andare per trovare il “legittimo profitto”. E le borse, qualche settimana fa, hanno cominciato a far vedere questa incertezza, con crolli improvvisi e perdite importanti. Qui il Fondo si ferma ai “consigli” per le banche centrali: «Per minimizzare questi rischi, le banche centrali dovrebbero continuare a normalizzare gradualmente la loro politica monetaria e a comunicare le loro decisioni in modo chiaro per sostenere la ripresa dell’economia».
Non può fare altro, né lo possono fare le banche centrali.
In fondo, la domanda che nessuno pone al Fondo è una sola, ma molto scomoda: se tutti gli Stati del mondo, ed anche “i privati”, sono ormai sovra-indebitati, chi sarà mai a tenere in portafoglio quei “pagherò” che sono diventati un cappio al collo per tutti?
Chi dà la risposta esatta vince un lecca-lecca…
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