Menu

Aliquota minima per multinazionali, un segno di crisi sistemica

Viene presentato come uno “storico accordo internazionale sulla riforma fiscale globale” (copyright di paolo Gentiloni, e già si capisce che sono solo chiacchiere), ma certo si tratta di un accordo.

In sede Ocse, è stata siglata l’intesa per garantire che le grandi aziende multinazionali – ovunque abbiano la loro residenza fiscale – paghino un’aliquota minima del 15%. Un’intesa finalizzata a rendere più difficile evitare la tassazione ai grandi gruppi, concordata da 136 nazioni.

Solo in teoria questo accordo limita la possibilità per le multinazionali di scegliersi il paese “più ospitale” (136 paesi sono tanti, ma al mondo ce ne sono 208), anche se – vista la dimensione di quelli firmatari – tutto il G20, l’Unione Europea, ecc – di certo non mancano gli strumenti di pressione perché anche i “riottosi”, generalmente molto piccoli e/o bisognosi di finanziamenti internazionali, prima o poi si allineino a questa determinazione.

In secondo luogo, non si può non notare come l’”aliquota fiscale minima” che le multinazionali dovranno versare sia veramente minima: 15% sui profitti. E va da sé, ovviamente, che per molti Stati questo significherà abbassare la tassazione sulle imprese, mentre solo alcuni dovranno alzarle.

Il più disgraziato dei lavoratori dipendenti, in Europa o negli States, paga certamente molto di più: il 23%, in Italia, fino a 15.000 euro di reddito annuale.

Dunque, non la si può certamente definire un’aliquota “punitiva”. Ma già per fissare questo livello infimo è stato necessario “convincere” alcuni paradisi fiscali come l’Irlanda, dove a colossi come Microsoft, Apple, Google, Pfizer (toh…) viene da anni garantita un’aliquota di appena il 12,5%.

Non per caso, dunque, Dublino ha potuto fin qui essere descritto come “il miglior paese in europa per fare impresa”.

Parliamo di un paese dove invece qualsiasi reddito da lavoro sotto i 35.000 euro è tassato per il 20%, mentre sopra quel livello si arriva al 40…

Per quanto minima sia l’aliquota, il fatto che sia stato necessario fissarne una dimostra che il capitalismo multinazionale sta distruggendo gli Stati e questi, se non altro per non crollare sotto il peso della mancanza di risorse fiscali – non potendo spremere oltremisura i propri cittadini, per non scatenare prima o poi rivolte sociali – sono obbligati a contrastare la corsa al ribasso nella fiscalità per le imprese.

Un po’ come farebbe il salario minimo, insomma, nell’impedire che le retribuzioni scendano eccessivamente sotto il livello di sopravvivenza (basta vedere l’astio dei commercianti contro quella miseria del “reddito di cittadinanza” per capire il meccanismo).

Il trionfalismo dell’Ocse per questo accordo fa quasi ridere: “questa imposta farebbe entrate nelle casse degli Stati 150 miliardi di dollari l’anno e le nuove regole sulla redistribuzione dei profitti riguarderebbero 125 miliardi di dollari di profitti che saranno tassati nei Paesi in cui le grandi società generano entrate ma hanno una limitata presenza fisica”.

Una goccia nel mare, sul piano quantitativo. Un segnale di crisi sistemica, non un successo legato a un’idea generale. La bruta necessità, a dirla seriamente, non un criterio di “equità”.

Capitalismo e bisogni sociali (e persino “statali”, ormai) sono su binari opposti. Come sull’ambiente, insomma…

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *