In Italia, le prime cento aziende – e relative famiglie proprietarie – possiedono quasi 61 miliardi di euro di liquidità nascosta tra le righe dei bilanci. Nel 2020 se ne sono trovati in tasca il 36% in più rispetto all’anno precedente, quando la quantità del denaro per cassa ammontava a 45 miliardi.
Ma questo dato non tiene poi di una delle maggiori “Big” cioè la Exor, ossia la holding della famiglia Agnelli, i cui valori sono talmente elevati da portare (35miliardi e 561milini) da portare il totale complessivo della liquidità a 97 miliardi.
L’inserto economico del Corriere della Sera dell’11 ottobre, citando un report dell’Università Bocconi, spiega che la classifica è dominata appunto da Exor, nella quale però è presente anche una quota di Edizione – società della famiglia Benetton- con un indebitamento (15 miliardi) che ancora non rifletteva la vendita di Autostrade mentre scende (da quattro a tre miliardi) la posizione finanziaria netta di Essilux-Luxottica di Leonardo Del Vecchio che vanta una liquidità superiore agli otto miliardi di euro.
Non sono inclusi in questa classifica Big come Ferrero (holding registrata in Lussemburgo) e altre 12 imprese di cui non sono ancora disponibili i i dati dei bilanci del 2020. Tra queste, il colosso farmaceutico Menarini che sicuramente (per cassa e tipo di produzione) poteva rientrare nella parte alta della classifica.
Il dato va però incrociato con un altro: la cosiddetta posizione finanziaria netta (Pfn) misurabile sottraendo la liquidità finanziaria ai debiti finanziari. Il risultato che emerge è che la situazione debitoria netta delle aziende ammonta a 42,5 miliardi. Ma, secondo il report dell’università Bocconi, 81 aziende su cento hanno migliorato la cassa mentre 62 hanno ridotto l’indebitamento finanziario netto.
Uno dei curatori del rapporto, Fabio Quarato ha spiegato al Corriere della Sera le caratteristiche di questa situazione: “La prima considerazione riguarda l’aumento complessivo dei debiti finanziari dal 2019 al 2020 per 10,5 miliardi di euro: passano da 93 a 103 miliardi mentre sale anche la disponibilità liquida da 45 a 61 miliardi. L’effetto netto è stata una riduzione della posizione finanziaria pari a 5,4 miliardi. Ciò significa che le aziende, da un lato, hanno acceso debito aggiuntivo per 10 miliardi. A titolo, per così dire, precauzionale, ma poi non l’hanno usato ed è in cassa a disposizione. Dall’altro lato hanno generato 5 miliardi aggiuntivi di liquidità dal proprio business”.
Nei mesi della pandemia le maggiori imprese italiane hanno dunque fatto un po’ come le famiglie, cioè hanno “messo da parte” accantonando liquidità e indebitandosi a tassi bassissimi, grazie soprattutto alle garanzie statali sui finanziamenti quando sui mercati dominava la paura per il coronavirus.
Questa enorme liquidità nelle mani delle famiglie/aziende più ricche, secondo gli scopi di questi prestiti a bassissimi tassi, avrebbe dovuto essere investita per “tenere su il sistema”. Ma di investimenti, al momento, non c’è traccia. Si attendono probabilmente gli incentivi e gli sgravi previsti per le imprese dal Pnrr che promette, ancora una volta, di privilegiare i prenditori privati nella distribuzione dei soldi pubblici previsti.
Si ha la netta impressione che la ripartenza di cui tanto cianciano governo e telegiornali sia stata piuttosto drogata e che dalle grandi società private non ci sia stato alcuno “sgocciolamento verso il basso” (il famigerato trickle down), anzi c’è stata una concentrazione e una appropriazione di capitali senza precedenti, senza alcun beneficio in termini di lavoro e salari.
Insomma abbiamo visto che ci sono 166 miliardi depositati dai “ricchi” all’estero, altri 91 miliardi li hanno praticamente congelati “sotto il materasso” (banche etc.).
Ma quando ci dicono che per fare welfare o investimenti o redistribuzione i soldi non ci sono mai, lo sanno che qualcuno prima o poi potrebbe fargli tana e chiederne conto? E magari anche a brutto grugno?
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