Il brusco cambiamento della geografia economica e della mappa geopolitica sono stati i temi al centro di un convegno di studi su “Cambiamenti geopolitici: i riflessi sul commercio internazionale”, tenutosi a Milano nei giorni scorsi e promosso da Arcom formazione (un centro di consulenza tributaria per il business) con Assocad (che si occupa di assistenza doganale).
A riferirne è il giornale economico Italia Oggi specializzato nell’informazione e assistenza fiscale alle imprese.
Il resoconto del convegno pubblicato dal giornale è estremamente interessante e significativo. Viene infatti riconosciuta la fine della globalizzazione che abbiamo conosciuto nei decenni precedenti; l’interruzione delle filiere internazionali di produzione e quindi la fine del modello “just in time”; la necessità di riportare all’interno le produzioni delocalizzate; le conseguenze delle misure di guerra economica come le sanzioni; la necessità che le produzioni made in Italy vadano alla ricerca di nuovi mercati visto che quelli tradizionali si vanno chiudendo.
Insomma una disamina drammatica ma razionale di un cambiamento epocale nell’economia mondiale e nelle sue relazioni. Una pagina pesante nell’agenda del prossimo o dei prossimi governi del Belpaese.
Qui di seguito l’articolo di Sara Arnella su Italia Oggi
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Si ridisegnano le rotte del commercio internazionale
Gli interventi al convegno hanno rilevato che se lo sviluppo del commercio internazionale, la creazione di regole comuni del Wto e la caduta delle frontiere economiche hanno rappresentato l’ambiente in cui si sono mosse le imprese per almeno due decenni, contribuendo a un clima di fiducia e non interferenza politica, “la nuova fase che stiamo attraversando sta rapidamente introducendo barriere tra gli Stati e, di conseguenza, per le aziende che ormai sono abituate a operare sullo scacchiere mondiale”.
L’inizio di questa nuova fase di de-globalizzazione è individuato nella guerra dei dazi, avviata da Trump come reazione alla delocalizzazione e alla perdita di posti di lavoro negli Usa, linea politica in cui si colloca anche la Brexit e l’uscita del Regno Unito dal mercato comune europeo. Poi la crisi, tuttora in atto, del Wto e di un sistema di regole comuni al commercio internazionale, in grado di assicurare stabilità alle imprese e di gestire i conflitti economici attraverso un quadro giuridico condiviso.
Un altro fattore decisivo è stato il Covid: a partire dal 2019, con il blocco delle fabbriche cinesi, in Occidente si è presa consapevolezza dell’importanza delle produzioni strategiche, evidente a tutti quando, a marzo, in Italia si è affrontato il dramma della mancanza di dispositivi di protezione individuale e di molti altri prodotti essenziali, la cui realizzazione era stata delocalizzata in Asia.
Interruzione delle catene produttive, stop agli stabilimenti e ai contratti di fornitura, con un impatto che ha messo le imprese di fronte alla necessità di trovare soluzioni alternative di sopravvivenza e le ha spinte a un ripensamento delle strategie di approvvigionamento e di sbocco.
Si inizia a definire chiaramente la tendenza al reshoring, al riportare a casa, o nel proprio ambito di Paesi amici, la catena della produzione e delle forniture. Sintomi chiari di questa tendenza sono la Apple, la quale ha deciso di spostare buona parte della produzione dalla Cina all’India, in sintonia con il governo Usa che, poche settimane fa, ha ottenuto l’approvazione del “Chip and science act”, la legge che stanzia oltre 50 miliardi di dollari per promuovere la manifattura Usa dei semiconduttori, parte di un piano complessivo finalizzato al reshoring, tanto che si calcolano già 350 mila posti di lavoro riportati a casa da inizio anno.
Anche la guerra nel continente europeo, come il Covid, rappresenta un fattore assolutamente non previsto, che va ben oltre gli scambi con la Russia. I Paesi che hanno adottato sanzioni finanziarie ed economiche nei confronti di Mosca sono soltanto il 19% della mappa mondiale, ma rappresentano ben il 59% del Pil. Si è creata una frattura politica tra Stati occidentali (definizione che comprende anche Giappone, Australia e Nuova Zelanda, affiancati a Usa, Ue e Regno Unito) e gli altri Paesi non allineati, destinata a ripercuotersi in ambito economico e nei rapporti imprenditoriali.
Così la politica internazionale irrompe nei piani strategici delle imprese, creando un “prima” e un “dopo”, non solo per chi lavora con la Russia.
Proprio con la guerra in Ucraina ha sottolineato la fragilità di un sistema basato su consegne just in time e forte interdipendenza tra le economie. La crisi del grano e la carenza dei fertilizzanti hanno drammaticamente messo in luce i rischi di una crisi alimentare e umanitaria che potrebbe interessare l’Africa, mentre le forniture del gas e i prezzi dell’energia stanno mettendo a dura prova imprese e consumatori europei. L’ambiente geopolitico stabile in cui ci si è mossi negli ultimi anni purtroppo non esiste più.
Occorre adattarsi a una nuova realtà, in cui non soltanto i costi decidono le strategie delle aziende, ma sono i nuovi equilibri geopolitici a diventare fondamentali per programmare la scelta di fornitori, investimenti, mercati di sbocco.
Una strategia di sopravvivenza che richiede aggiornamento, consapevolezza e formazione per fronteggiare le nuove sfide. L’obiettivo delle aziende è di trovare nuovi Paesi di sbocco per il made in Italy, esplorare nuove partnership con fornitori e clienti in Paesi “amici”, prevenire i rischi di conflitti economici con la filiera e i rischi di contestazioni da parte delle autorità competenti sul commercio internazionale, tra cui soprattutto l’Agenzia delle dogane e dei Monopoli.
La normativa dual use, i divieti a operare con la Russia in determinati settori, i nuovi dazi antidumping imposti dall’Unione europea, la revisione della nomenclatura combinata sono alcuni tra i temi più recenti, all’attenzione degli uffici legali delle imprese. Gli Stati Uniti hanno recentemente imposto divieti di importazione per i prodotti realizzati utilizzando il lavoro forzato e anche le norme europee di prossima attuazione prevedono la necessità di una due diligence delle imprese su questi temi, su cui vigileranno (e sanzioneranno) le Dogane.
Di fronte a questo scenario di profondi cambiamenti e di incertezza generale, i molti fattori di discontinuità evidenziano l’urgenza di una maggiore preparazione sulle tematiche doganali e del commercio internazionale. Il difficile coordinamento tra norme europee, norme internazionali e nazionali è lasciato alla capacità e all’aggiornamento delle imprese, per cui si rende necessario un investimento nella formazione del personale, in diversi settori aziendali: ufficio acquisti, vendite, legale, tecnico.
La formazione e lo studio, in materie poco approfondite nei corsi tradizionali anche universitari, sono fattori decisivi per assicurare la compliance doganale delle imprese, la prevenzione dei rischi di errore e di contestazione, la corretta gestione dei contratti internazionali e l’utilizzo di procedure e parametri aggiornati. Di centrale importanza è la certificazione Aeo, un’autorizzazione di competenza di Adm, che consente l’accesso a tutte le semplificazioni previste dalla normativa doganale e che rappresenta anche un attestato di qualità internazionalmente riconosciuto dai clienti esteri.
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