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Berlusconi pronto per la pensione…

E’ un fatto su cui riflettere molto attentamente, pena il non capire nulla della fase attuale. Anni di manifestazioni popolari, di scioperi più o meno generali e più o meno riusciti non hanno scalzato di un millimetro gli equilibri sociali – e quindi anche quelli politici – italiani.

Il gigantesco processo di ristrutturazioine del “modello sociale europeo” messo in moto dall’avanzare della crisi economica sta invece spazzando via con forza irresistibile questo vecchio mondo. Che è poi anche quello in cui tutti noi siamo abituati a vivere, a orizzontarci, a ragionare e litigare.

Equilibri sociali fondati su una determinata distribuzione della ricchezza, su poteri di interdizione solidi perché fondanti catene clientelari o di interessi strutturati nei decenni. Tutta l’architettura sociale assestatasi con grande fatica e dolore (lotte operaie, movimenti popolari, scontri di piazza e armati, criminalità organizzata con referenti politici governativi, grandi concrezioni di “imprenditorialità economica” al confine tra appalti, delinquenza e sottosviluppo, ecc) appare ora destinata al tracollo. “Le capre e i cavoli”, come nota anche Stafano Folli, “non stanno più insieme”.

Vale per i diritti del lavoro e il welfare. Vale per quelle figure sociali che hanno vissuto del “grasso” che trasudava dall’amminsitrazione pubblico-privata della cosa pubblica. Vale per le imprese “normali” che dentro quel quadro avevano fissato le coordinate del proprio agire. La frantumazione del “blocco sociale berlusconiano” è figlia di questo sommovimento e non è ricomponibile sulla base precedente. La crisi della Lega è irreversibile per la stessa ragione, ma anche per l’inconsistenza del “discorso politico” e culturale che la caratterizza (l’integrazione europea sta in questo momento accelerando, in modo autoritario e antidemocratico, e nessun margine resta per chi coltiva la nostalgia valligiana dell'”isola felice” e “padroni in casa nostra”).

Diamo quindi la cronaca di quel che sta avvenendo intorno e dentro al governo, alla classe politica e dirigente, con l’avvertenza che abbiamo premesso. Non guardate il dito, sforzatevi insieme a noi di guardare la luna…

 

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Francesco Piccioni
Ultimatum Delle 72 ore concesse dall’Europa per varare «un’agenda di riforme completa, con un calendario chiaro» ne sono rimaste solo 48
Giallo condoni rissa pensioni
Nulla di fatto sul tema più scottante: l’ennesima riforma delle pensioni. Mentre una bozza di decreto illustra «misurette» di cento tipi, tra cui spiccano ben dodici condoni: dal canone alle scritture contabili Val di Susa definita «zona di interesse strategico nazionale». Quasi una base militare

Il colpo di scena è pesante. Il consiglio dei ministri (Cdm) si è concluso dopo un’ora e mezza senza una decisione sul punto più spinoso: l’ennesima riforma delle pensioni. Promessa da Berlusconi all’Europa, osteggiata da Bossi e dalla Lega, è diventata il casus belli su cui può cadere il governo.
Fin lì tutto sembrava abbastanza scontato: la Lega avrebbe come al solito rinunciato alla «trincea» in cambio di qualcosa «per il Nord». Prima della riunione era stata fatta circolare tra i giornalisti una bozza di decreto, per buona parte ancora «in corso di redazione», in modo da suggerire le linee di intervento fin lì progettate. Ad una prima lettura però saltava agli occhi una palese confusione.
E veniva da chiedersi: come possono le «poche riforme strutturali» chieste all’unisono da Consiglio europeo e Confindustria diventare 126 capitoli che svariano dagli «sfalci e potature» al «passaggio di proprietà per i parcheggi»? Quale crescita economica potrà mai scaturire dall’invio delle pagelle scolastiche via mail o dalla «semplificazione delle modalità di registrazione delle persone alloggiate nelle strutture turistiche»?
La bozza non lasciava spazio alle speranze. Nè a quelle confindustriali (nonostante un profluvio di norme e codicilli «semplificatori» a favore delle imprese), tantomeno a quelle dell’Europa, che faticherà probabilmente a capire cosa sia la «semplificazione del regime di utilizzo delle terre e rocce da scavo». La definizione della Val Susa come «zona di interesse strategico nazionale» – di fatto, una zona «militarizzata» – dà invece la misura di un modo di procedere «dittatoriale», che affronta i problemi di dissenso con il ricorso al «monopolio della forza».
Soprattutto, dalla bozza venivano fuori ben «12 condoni 12»: dal «concordato fiscale» per gli anni pregressi, alla sanatoria per liti pendenti con il fisco (anche superiori ai 20.000 euro); come anche per il mancato pagamento dei tributi locali, del canone tv, delle multe per i manifesti elettorali abusivi, ecc. Alla stessa tipologia appartiene anche la semplificazione dei permessi per costruire nuovi immobili, che favorisce una cementificazioner senza progetto d’insieme e quindi senza qualità. Il ministro dello sviluppo, Paolo Romani, si affrettava a smentire che quello fosse il testo in possesso del suo ministero. Rendendo plausibile che ce ne fossero in circolazione altre, da sbattere sul tavolo del Cdm al momento giusto. Impossibile, insomma, scacciare la certezza di trovarsi davanti all’ennesima cascata di codicilli «ad hoc», suggeriti da piccoli gruppi di interesse molto interni alla maggioranza di governo e anche molto differenti tra loro. Nessuna visione lungimirante, magari contestabile; solo interventi micro.
Vergognoso, infine, il tentativo di indicare norme «per i giovani». Un solo esempio: l’Iva per l’acquisto della prima casa per i lavoratori «atipici» (precari, insomma) viene portata all’1%, invece del 4. Come se ad impedir loro l’acquisto fosse quel 3% di differenza, e non l’assenza di un salario adeguato e soprattutto continuativo. Le altre micro-norme per la stessa area sono in realtà dei consolidamenti della precarietà contrattuale (part time agevolato, ma solo per le donne disoccupate e con figli a carico, ecc).
Sorpresa delle sorprese, in questo testo non si faceva affatto riferimento alle pensioni. E solo alla fine del Cdm si è capito perché. Nella giornata erano circolate diverse ipotesi. La più gettonata prevede il prolungamento dell’età pensionabile a 67 anni, eliminando al contempo le pensioni di anzianità (da 35 a 40 anni di contributi lavorativi, con le leggi attuali). Tutti i media davano per scontato il risultato minimo: l’introduzione immediata di «quota 100» (almeno 60 anni di età, se si hanno 40 anni di contributi) in luogo della vigente «quota 96». A rendere più pesante il disincentivo al ritiro dal lavoro, veniva illustrata anche una modifica del sistema di calcolo dell’assegno e della liquidazione, eliminando di fatto i vantaggi del periodo considerato con il metodo «retributivo» (valido per chi aveva almeno 18 anni di anzianità nel 1996, all’epoca della «riforma Dini»).
A complicare il quadro, per il governo, arrivava la precisazione del commissario europeo agli affari economici, Olli Rehn, secondo cui la richiesta Ue è relativa a «un pacchetto completo di riforme, con un calendario chiaro, che comprenda misure su crescita, occupazione e giustizia». Per evitare equivoci ha subito aggiunto: «civile», citando le liti «per ritardi nei pagamenti o nei contenziosi commerciali». Più che le pensioni, insomma, il portavoce di Rehn ha ricordato che «non servono solo misure di austerità, ma occorre ridare slancio al potenziale di crescita». Difficile trovare qualcosa di simile, nella foresta della «bozza».
Se poi i contrasti nella maggioranza sono tali da impedire una scelta chiara persino davanti a un ultimatum europeo che lasciava soltanto 72 ore di tempo…
da “il manifesto” del 25 ottobre 2011
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da Repubblica
Lo sberleffo della verità
di BARBARA SPINELLI
Chi frequenta i summit delle istituzioni europee, e ne conosce le deferenze opportuniste, le verità lente a dirsi, le cerimoniose capricciosità, non dimenticherà facilmente quel che è successo domenica, nella conferenza stampa di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel a Bruxelles. Un giornalista li interroga sulla credibilità di Berlusconi, ed ecco che d’improvviso scoppia un’ennesima bolla, fatta sin qui di illusioni e non-detti: una delle tante, nei quattro anni di crisi che abbiamo alle spalle. La bolla di uno Stato-subprime: debitore di seconda categoria, poco affidabile. Alcuni giudicano disdicevole la sbirciata complice che si sono lanciati l’un l’altro Sarkozy e la Merkel, e umiliante quell’attimo muto, terribile, che ha preceduto l’erompere inaudito della risata, subito echeggiata dai giornalisti presenti. È vero, è stata umiliazione e anche qualcosa di più: un atto di sfiducia che non avanza più mascherata, che si esibisce senza pudori sapendo il consenso mondiale di cui gode. Un assassinio politico in diretta.

È difficile ricordare episodi simili, nella storia dell’Unione, e non stupisce che gli autori stessi dell’incredibile gag siano quasi spaventati da quel che hanno fatto. Fonti governative tedesche si sono preoccupate ieri d’attenuare il colpo: “Le allusioni italiane sul sorriso scambiato ieri in conferenza stampa tra Merkel e Sarkozy sono basate su un equivoco”. Ma colpo resta, quel che abbiamo visto domenica: e poco importa se sarà stato un attimo, se lo strappo sarà

ricucito e  –  parola di Montale  –  “come s’uno schermo s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto”. Per un attimo, è come se i dirigenti dei due motori d’Europa  –  Francia e Germania  –  avessero smesso di credere nelle virtù della diplomazia, della pazienza, e solennemente avessero bocciato un primo ministro nel più crudele dei modi, perché altra via non c’è. Sembra uno sfogo incontrollato ma c’è del metodo, nello sfogo: non è nelle istituzioni italiane che si cessa di credere, ma in chi governa. Dopo lo scoppio ilare Sarkozy s’è fatto serio, ha evocato il colloquio tra lui, la Merkel e Berlusconi, ed è stato chiarissimo: “La nostra fiducia, la riponiamo nel senso di responsabilità dell’insieme delle autorità italiane: politiche, finanziarie e economiche”. Angela Merkel ha aggiunto: “La fiducia non nasce solo dalla costruzione d’un ombrello salva-Stati. È di prospettive chiare che c’è bisogno”. Sono giorni che il Cancelliere non interpella Palazzo Grazioli per ottenere assicurazioni (che legittimità può avere, una sede governativa privata?) ma il Quirinale.

Il messaggio non potrebbe essere più netto, e ultimativo (“vi diamo tre giorni”). E c’è in esso del metodo perché ogni parola è pesata: è sulle istituzioni italiane che gli europei fanno affidamento, non sulla persona Berlusconi. Spetta all’insieme delle autorità italiane, politiche, finanziarie ed economiche mostrare il senso di responsabilità che il premier evidentemente non possiede. Può sembrare un insulto  –  un capo di Stato o di governo non dovrebbe ridacchiare in pubblico di un collega  –  ma la crisi che traversiamo è talmente vasta, e funesta per tutti i cittadini d’Europa, che il galateo diplomatico per forza si sfalda. Non sono due leader arroganti a sbeffeggiare l’alleato; è il disastro europeo che può nascere dal vuoto politico italiano che secerne l’inaudito incidente. Un disastro che Berlusconi ancor oggi elude, quando dopo il vertice proclama: “Non c’è stato e non c’è rischio Italia”. L’occultamento dura dal 2007-2008 (“Non c’è crisi. Siamo i primi in Europa”) con effetti catastrofici su quel popolo che il premier s’ostina a chiamare sovrano.

La cosa triste nell’Unione europea è la sua impotenza, quando un paese membro azzoppa la propria democrazia e con false informazioni frena l’insorgere  –  nei singoli cittadini  –  della responsabilità. Bisogna essere democratici, per poter entrare nell’Unione. Non bisogna necessariamente esserlo, per restarvi. C’è un articolo del trattato di Lisbona (il numero 7) che prevede sanzioni quando uno Stato si discosta dalla democrazia: ma nessuno, neanche l’opposizione in Italia, ha mai osato fare appello a esso. L’unico espediente dell’Unione, quando vuol render manifesta un’incompatibilità non solo economica e finanziaria con Stati devianti, è di conseguenza la peer pressure, la pressione dei pari grado. E la pressione non sembra in grado di secernere altro che il sogghigno. Solo quando è in gioco l’economia, pare efficace.

Ma è un sogghigno che va analizzato, perché spesso ridendo diciamo cose molto vere. Dichiarandosi fiduciosi nell’insieme delle autorità italiane, i colleghi dell’Unione scommettono proprio su quella pluralità di poteri che Berlusconi continua a contestare, e a questi poteri si rivolgono: spetta a voi risolvere il rebus Berlusconi, e mostrare un senso di responsabilità che metta fine allo sberleffo mondiale scatenato da Palazzo Grazioli. È un appello, non recondito, alle forze responsabili della maggioranza: che sfiducino loro il premier, prima delle elezioni perché non c’è più tempo. Che mandino ai prossimi vertici europei un capo di governo di cui nessuno ridacchi più.

Si ricorda spesso il Gran Consiglio fascista, che il 25 luglio ’43 mise in minoranza Mussolini grazie alla mozione di Dino Grandi. Ma non c’è bisogno di risalire tanto indietro. Anche l’Unione delle democrazie postbelliche conobbe casi simili. Il 20 novembre 1990, Margaret Thatcher cadde in seguito a un voto interno del suo partito, prima delle elezioni, e anche lei fu messa da parte per incompatibilità con l’Europa comunitaria. Due giorni dopo il Gran Consiglio conservatore, il premier si dimise e lasciò in lacrime Downing Street. Che l’Europa e i mercati avessero decretato la sua fuoriuscita era stato confermato, il primo novembre, dalle dimissioni di Geoffrey Howe, il vice primo ministro più aperto all’Unione e all’euro. Michael Heseltine, conservatore, fu il Dino Grandi della situazione.

Berlusconi non può più andare a Bruxelles, dopo un episodio del genere. Perché trascina verso il basso non solo l’Italia, ma l’intera zona euro. Un primo monito è venuto da Mario Monti, non un semplice pretendente al trono ma un conoscitore-frequentatore delle istituzioni europee: “Sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno al governo Berlusconi (…) prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l’Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell’Unione europea” (Corriere della Sera, 16 ottobre 2011).

Berlusconi non può presentarsi a Bruxelles, e l’Europa non può concedersi l’anomalia italiana: è la lezione dello sberleffo, che solo in apparenza è irridente ma la cui sostanza è spaventosamente seria. È come quando ride una persona che piange. Nessuna cosa detta da Berlusconi ha più peso né senso, tanto trasuda incultura delle cose europee. Anche la sua insistenza sulle dimissioni di Bini Smaghi, membro della Bce, ha qualcosa di intollerabilmente ottuso, agli occhi non solo del diretto interessato ma di tutta la Bce. Bini Smaghi deve andarsene, “essendo stato nominato dal governo senza passare attraverso alcun tipo d’elezione o concorso”. Sono frasi come queste, di una rozzezza e insipienza senza limiti, che rendono velenosa la vicenda. Bini Smaghi non è, a Francoforte, un rappresentante dell’Italia ma di Eurolandia. La sua nomina, come quella di Draghi, prevede ben 3 votazioni (Eurogruppo, Parlamento europeo, Consiglio europeo) e il Trattato contiene regole precise per la rimozione dei membri del Comitato esecutivo Bce, che può avvenire solo per motivi gravi. Comunque non può esser decretata né da Berlusconi né da Sarkozy, in nome dei rispettivi Stati nazione.
La crisi strappa tanti veli, compreso questo. È il suo lato positivo: le regole diventano più importanti, non meno, man mano che lo sconquasso s’estende. Berlusconi le ignora del tutto, ed è un autentico miracolo che abbia alla fine nominato una personalità profondamente indipendente come Ignazio Visco alla testa di Banca d’Italia. Quanto a lui, non farà alcun passo indietro: chiederglielo è nenia un po’ beota. Ma la pressione dei pari esercitata a Bruxelles può avvenire anche in Italia. Sempre che esistano uomini della destra davvero responsabili, che non usino questo nobile aggettivo per brigare, alla Scilipoti, prebende e notorietà.

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Al limite della rottura

di Stefano Folli

È una vera fortuna che le risatine e gli ammiccamenti di Bruxelles fra Sarkozy e la Merkel – il primo più della seconda – siano solo il frutto di un «malinteso», come hanno spiegato ieri due note dei rispettivi governi. È bene che certe ombre siano spazzate via in fretta all’interno dell’Unione, visto che per tutti c’è poco da ridere.

Così Berlusconi si è preso la magra soddisfazione di ricordare a francesi e tedeschi i problemi delle loro banche. Romano Prodi non ha nascosto d’essersi sentito «irritato e poi umiliato come italiano». Casini, dal canto suo, era stato il primo, già domenica sera, a dire che «nessuno può ridicolizzare l’Italia, nonostante gli evidenti errori di Berlusconi». Chiuso l’incidente, peraltro tutt’altro che irrilevante, resta la cruda realtà. Quella di un’Italia priva di credibilità al di là dei confini come mai era avvenuto nella sua storia recente. Riguadagnare il rispetto perduto, evitando altri sfortunati malintesi, sarà un lavoro né breve né facile per chiunque governerà domani.

Quel che è certo, per ora siamo nella massima incertezza e la nebbia è fitta. Le beghe domestiche sono ormai sovrastate dall’urgenza della questione europea. Essere «commissariati» dall’Unione offre il vantaggio di venire sospinti da una forza superiore lungo un sentiero virtuoso, ma richiede che le forze politiche siano coese e ben convinte della ricetta d’oltralpe. Non è il caso italiano. La frattura dentro l’esecutivo sulle pensioni fra Pdl e Lega è paralizzante, come si è visto con lo sconcertante nulla di fatto del Consiglio dei ministri.

Si dirà che c’è ancora tempo prima del nuovo vertice europeo di domani. Ma il problema è che ci vorrebbe un accordo saldo, convincente, in grado di aprire una nuova prospettiva in sintonia con i princìpi fissati dalla Banca centrale. Viceversa siamo davanti al bivio: da un lato, una rottura conclamata e la crisi del governo Berlusconi, ossia la fine di una stagione durata quasi diciotto anni; dall’altro, il solito compromesso di breve respiro, ricavato a fatica da una notte di negoziati estenuanti. Un gioco di prestigio per salvare la faccia in Europa e la sopravvivenza del patto politico Berlusconi-Bossi in Italia.

Ebbene, stavolta questo doppio scenario sembra impossibile. Le capre e i cavoli non stanno insieme. Se il presidente del Consiglio si presenta domani a Bruxelles con un pugno di mosche, ossia senza impegni precisi e decisioni ratificate, lo smacco sarà totale e le conseguenze catastrofiche. E in quel caso c’è da credere che verranno travolte anche le alchimie che reggono il governo a Roma. Proprio perché la logica europea è pressante, essa è perfettamente capace di sconvolgere il piccolo cabotaggio domestico: quel «teatrino della politica» contro cui a parole il premier si scagliava, salvo poi restarne prigioniero consenziente.

Mai come oggi siamo vicini al punto di rottura fra Berlusconi e la Lega. Il fatto è che nessuno sa esattamente cosa ci sarà dopo. Sulla linea del Piave, cioè la linea della Bce, troviamo quasi soltanto il terzo polo di Casini e Fini. Se si guarda a sinistra, sappiamo che il Pd è diviso – e non da oggi – sulla riforma delle pensioni. La posizione europea piace a Enrico Letta, ma è contestata dagli ambienti che non vogliono infrangere il legame con la Cgil (e ieri Susanna Camusso non ha lasciato dubbi sul punto di vista del sindacato). Bersani cerca di tenere uniti i due lembi, ma a scapito della chiarezza. Sullo stesso tema Di Pietro concede poco e Vendola nulla.

Si può immaginare in questi frangenti un governo di transizione, affidato a un nome logicamente diverso da quello di Berlusconi? Un nome, se possibile, al di sopra delle parti, tale da suscitare attenzione in Europa? Allo stato delle cose ci vuole molta immaginazione per crederlo, considerando che un tale esecutivo richiederebbe parecchie pre-condizioni: la “non belligeranza”, anzi il consenso di Berlusconi; la compattezza del Pdl; la buona volontà dei centristi; il sostegno o almeno la non ostilità del centrosinistra; un Pd che non teme di essere scavalcato dai vendoliani.

Tutto è possibile, ma oggi la sensazione è di trovarsi ai piedi di una grande montagna da scalare. I pericoli che incombono sulla nazione sono enormi e la politica una volta di più si dimostra in grave ritardo. Stamane la «Padania», organo di Bossi, titola: «Scontro finale. La Lega non arretra di un passo». Questo è il dato italiano, il resto sono illusioni. A meno di una forte volontà politica e di una leadership di cui non si vede traccia.

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da Il Sole 24 Ore

Se non bastano le spalle al muro

di Guido Gentili

 

A volte, ritornano: l’incubo di non farcela, il “vincolo esterno” giocato come carta interna per costringere i riottosi a comportamenti virtuosi, l’affannata rincorsa dell’ultimo accordo all’ultimo minuto utile.

L’Italia è con le spalle al muro. La settima economia del mondo e terza d’Europa, di cui è Paese fondatore, ha una sola via d’uscita per salvare se stessa e, in definitiva, l’Europa dell’euro. Deve, nell’arco di poche ore, mettere sul piatto non una promessa o un generico impegno politico ma una lista di provvedimenti convincenti che la sottraggano al rischio di un fallimento storico che avrebbe conseguenze incalcolabili per tutti.

Non siamo all’ultima chiamata. Come dimostra il nulla di fatto certificato ieri sera dal Consiglio dei ministri straordinario, siamo oltre, ai titoli di coda dell’impressionante film andato in onda da luglio (al tempo del primo decreto anticrisi, rivelatosi subito insufficiente) fino a ieri.

Spetta al Governo, e al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in prima battuta, avanzare una proposta o ammettere, in tutta trasparenza, che non può andare avanti. Delle due l’una, entro oggi.

Che cosa ci sia da fare per presentarsi domani a Bruxelles non diciamo con un jolly ma almeno con una carta appena decente lo sanno ormai anche i muri, visto che questo Paese non cresce da anni. Bisogna stringere i cordoni della borsa pubblica e insieme accendere la miccia della ripresa. A luglio il Sole 24 Ore, il giorno dopo il varo della prima manovra, presentò un manifesto articolato su nove punti che contribuì ad avviare una discussione molto seria a partire dai temi delle pensioni, delle liberalizzazioni, delle dismissioni. Sono seguite le iniziative delle parti sociali, è giunta poi a Roma la lettera della Banca centrale europea che chiedeva l’anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, si è fatto sempre più forte il pressing europeo.

Fatto è che la posizione dell’Italia sui mercati, anziché rafforzarsi, si è progressivamente indebolita, tra manovre scritte e riscritte, ipotesi di condoni (ieri ne sono spuntati dodici, poi smentiti) e patrimoniali, un contrasto e l’altro fra Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, tra un “no” della Lega a qualsiasi intervento sulle pensioni e un ripescaggio in extremis della fiducia in Parlamento, tra un’opposizione fuori dall’aula parlamentare e una lite al suo interno sulla lettera della Bce.
Domenica scorsa, l’incredibile siparietto Merkel-Sarkozy – sbagliato, irrispettoso e strumentale che sia, visti i problemi dei sistemi bancari dell’asse franco-tedesco – ha messo però a nudo la debolezza dell’Italia, a corto di rassicurazioni fattuali sia dal lato dell’abbattimento del debito pubblico sia da quello della spinta alla crescita. Debolezza che si è specchiata, nemmeno ventiquattr’ore dopo, in un Consiglio dei ministri dove Umberto Bossi ha ribadito il suo “no” su ogni ipotesi di riforma delle pensioni, facendo correre alla memoria l’analoga manovra che nel 1994 segnò la fine anticipatissima del primo governo Berlusconi. Il “vincolo esterno” inteso come investimento in credibilità dal quale non si può deflettere, tante volte rivelatosi vincente nella storia italiana (adesione allo Sme, Trattato di Maastricht, adesione all’euro), almeno ieri non ha dunque funzionato.

L’Italia è con le spalle al muro. E si tratta “ad oltranza”, come sempre. Ma su che cosa? Sulla constatazione che negli ultimi venti anni quasi quattro milioni di italiani sono andati in pensione poco più che cinquantenni? Che paghiamo circa 9 miliardi l’anno per le pensioni erogate a persone che hanno meno di cinquant’anni? Che l’invecchiamento della popolazione continua a fronte di un tasso miserrimo di fecondità? C’è ancora qualche dubbio sul fatto che bisogna fare le liberalizzazioni e ridurre a colpi di dismissioni il perimetro centrale e periferico dello Stato abbassando, e non alzando, la pressione fiscale?

Se siamo ancora questo punto è davvero acrobatico pensare che domani Berlusconi potrà presentarsi in Europa avendo in tasca una proposta credibile. E farebbe l’ultimo degli errori cercando di convincere gli “amici” europei con una pioggia di promesse differite nel tempo in attesa di tornare a Roma per strappare un “ni” della Lega o di qualcun altro.
Nel caso, meglio, molto meglio dire le cose come stanno nella realtà assumendosi tutte le responsabilità che gli competono.

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dal Corriere della Sera

L’incontro al Colle e l’ombra del cambio

di Breda Marzio

Un’ansia preoccupata che sembra virare verso la sfiducia. Le recriminazioni di chi si sente pressato da ogni parte. Un umor nero aggravato dall’umiliante schiaffo delle ironie franco-tedesche di domenica, a Bruxelles. Ma anche, nonostante il grande allarme, la voglia di provare a rispondere. Di riannodare i fili con gli alleati. Di dimostrare capacità operativa. Insomma, di tentare un’ardua resistenza. Dunque di non fare — non ancora, almeno —quella rinuncia che gli viene chiesta da più parti, «per carità di patria».

E‘ la prima volta che succede, ma a quanto pare Silvio Berlusconi, «l’uomo del fare» abituato a spargere sempre intorno a sé ottimismo, ha ieri esplicitamente ammesso davanti a Giorgio Napolitano le proprie difficoltà.

Di più: nel colloquio di mezzogiorno al Quirinale si è materializzata pure l’ipotesi di un suo passo indietro per far nascere un governo alternativo non guidato da lui, ma con la stessa maggioranza (magari allargata all’Udc), e pure questo accadeva per la prima volta. Ipotesi clamorosa di cui l’intero centrodestra ha discusso fino a tarda notte, ragionando su Gianni Letta e su Renato Schifani come due possibili candidati premier, in uno scenario che è ormai di quasi-crisi. Ipotesi che il Cavaliere, nel faccia a faccia con il capo dello Stato, ha comunque respinto, ritrovando a quel punto la proverbiale grinta. Di chi insiste ad arroccarsi e a combattere.

Resta da vedere se lo scatto d’orgoglio con cui Berlusconi si è congedato dal Colle dopo 50 minuti di botta e risposta «molto franco» (cioè molto duro) porterà Palazzo Chigi a esprimere «fatti, cifre e date certe», purché con decisioni rapide, come l’Europa ci sollecita ora con un drastico diktat e come lo stesso presidente della Repubblica raccomanda con forza da mesi.

Non ci credeva troppo, ieri, Napolitano. Prevedeva che l’incontro sarebbe stato «interlocutorio», soltanto «un passaggio», in attesa di un complicatissimo Consiglio dei ministri cominciato a tarda sera e concluso senza alcun accordo. Se ne riparlerà da oggi, ma in assenza di garanzie legate a un qualche risultato. Il buon esito finale dipenderà dal fatto che la Lega scenda dalle barricate sul nodo pensioni e che il ministro Tremonti sappia escogitare una griglia di misure per lo sviluppo in grado di convincere i nostri partner dell’euro e i mercati finanziari.

E allora, come pensate di superare l’impasse? Che cosa andrete a dire a Bruxelles, mercoledì? Avete un accordo per un pacchetto di provvedimenti strutturali? E soprattutto: li condividete, tra voi della maggioranza? Potete assicurare questa coesione? Badate che le risposte devono essere responsabili, quindi all’altezza del nostro ruolo in Europa.

Sono queste le domande e le riflessioni che il capo dello Stato ha girato al Cavaliere, dopo aver ascoltato la sua cronaca personale sugli incontri riservati e sulle riunioni collegiali che ha avuto al vertice Ue. Un resoconto nel quale Berlusconi alternava ammissioni inquiete e intimorite alla sua solita sicurezza: «Ho dato garanzie, mi hanno creduto». Dichiarandosi stupefatto dell’increscioso siparietto messo in scena da Sarkozy e dalla Merkel sull’affidabilità del governo: «Davvero, confesso che non riesco a spiegarmelo».

Giorgio Napolitano invece se lo spiegava bene, per quanto fastidio possa avergli procurato, dato che giovedì scorso è stato il destinatario di una telefonata carica di diffidenza da parte della cancelliera tedesca (e di una chiamata, parallela, del presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Junker).

Tra le altre cose, la Merkel girava al presidente i propri dubbi e le proprie perplessità sul futuro politico dell’Italia, vale a dire sulla capacità di sopravvivenza dell’esecutivo e sugli scenari che si aprirebbero nel caso di una sua improvvisa caduta. Che cosa accadrebbe, chiedeva, in una simile evenienza?

Il Quirinale non ne vuole neanche parlare, ovviamente, finché il governo ha la maggioranza. Ma ieri qualcuno ha ritenuto di interpretare come delle pre-consultazioni da crisi imminente certi contatti avviati al Quirinale. Ad esempio l’udienza con il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, e altri analoghi sondaggi con il mondo politico. In realtà la sua ricognizione mira a verificare se, quantomeno in questa fase cruciale, sia praticabile la possibilità di condividere alcune scelte. Così da far apparire più convincente all’Europa l’impegno italiano.

Una speranza da lui evocata spesso, da giugno a oggi, invocando appunto uno spirito di «coesione nazionale» che ha portato al varo in corsa del primo decreto sul risanamento dei conti pubblici, in luglio, e sulla rinuncia delle opposizioni a fare filibustering parlamentare sull’altro che è seguito in agosto. Il problema è che, come Napolitano ha ricordato con un’amara denuncia mercoledì, mettendo in mora il governo, quei decreti restano «in attesa di attuazione» e aspettano di essere integrati con misure per lo sviluppo e la crescita divenute «impellenti».

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