La denuncia che arriva – addirittura da una Cgil sempre più incerta e divisa su quale atteggiamento tenere con un governo “sorprendente” – illustra due dei tantissimi problemi irrisolvibili creati dalla “riforma delle pensioni” del ministro Fornero. “Esodati” e “ricongiunzioni onerose” fanno da cartina tornasole di una politica tesa all’affamamento della popolazione. Come in Grecia.
Una riforma con scasso«Un furto legalizzato». Il patronato Inca Cgil non usa mezzi termini per definire la «ricongiunzione onerosa» dei contributi e il limbo cui sono confinati gli «esodati» Domanda a Fornero «Può una nuova legge cancellare contratti e accordi già firmati?»Francesco Piccioni
Un «furto legalizzato», ma anche «il delirio di un folle». Si sta parlando degli effetti concreti della prodigiosa «riforma delle pensioni» approvata in pochi giorni dal governo Monti.
L’Inca Cgil ha voluto limitare la sua denuncia, ieri, soltanto a due «effetti diretti» di quel provvedimento, nel timore – fondato – che i giornalisti si perdessero negli infiniti meandri una una «riforma» fatta secondo criteri che ricordano il tracciamento coloniale dei confini di certi paesi sahariani: con la riga e la squadra, senza guardare chi cadeva dentro o fuori.
Il primo punto riguarda i cosiddetti «esodati», lavoratori messi fuori dalla produzione grazie ad accordi sottoscritti con l’azienda e con il governo, secondo le regole pensionistiche in vigore fino al 4 dicembre 2011. Gente al momento senza pensione, senza più posto di lavoro e spesso persino senza ammortizzatori sociali. La platea identificata dall’Inca comprende quanti sono ancora in mobilità o che stavano per andarci, ma anche chi è uscito per crisi e ristrutturazione aziendale, quanti sono stati convinti dall’azienda ad uscirsene con incentivi, ché tanto le pensione era lì a un passo.
La «riforma» ha confermato il taglio dei ponti alle spalle, ma ha allontanato il traguardi di molti anni (fino a 7, in alcuni casi). Il loro numero è stato quantificato dall’Inps in 70.000, inizialmente; ma si riferisce solo ai casi già arrivati all’attenzione dell’istituto, ossia accordi siglati prima del 4 dicembre. Ma da allora sono andati in porto dismissioni importanti (Termini Imerese e Irisbus, per dirne due), con migliaia di persone coinvolte. La manovra prevedeva una «cifra x», da decidere, per «coprire» queste posizioni; ma ammoniva anche che si trattava di un fondo «a esaurimento»: finché c’erano soldi si paga, poi amen. Con buona parte di un diritto fin qui certo (l’andare in pensione dopo una vita di lavoro).
L’iter parlamentare del «milleproroghe», che doveva porre riparo alla «disattenzione» del governo, peggiorava addirittura la situazione: veniva allargata la platea dei possibili beneficiari, ma il fondo rimaneva uguale. La Cgil – spiegano sia Vera Lamonica (segretario confederale) che Morena Piccinini, presidente dell’Inca – chiede di sapere se «gli accordi con il governo sono validi o no?»; e, dal ministro, «qual’è l’atto riparativo riparativo che ha promesso e quando sarà deliberato». Ma il ministro Fornero, per ora, non ha mai neppure risposto.
La seconda questione è in prospettiva persino più esplosiva, anche se già ora sta facendo danni formidabili. Si parla della «ricongiunzione contributiva onerosa», una misura decisa dal governo Berlusconi – ai tempi della sua «riforma delle pensioni. Avendo deciso di equiparare l’età pensionabile delle donne a quelle degli uomini, nel pubblico impiego (uno «scalone» di ben 5 anni), si pensava che molte avrebbero preferito ritirarsi subito, anche prendendo un assegno minore. Quindi, per scoraggiarle, fu deciso di far loro pagare la «ricongiunzione» tra i diversi periodi contributivi della loro vita lavorativa. Ben poche vi fecero ricorso, ma la norma è rimasta.
L’attuale governo ha avuto il colpo di genio, rivelando solo qui una «competenza tecnica» degna di miglior causa: ha esteso a tutti questa norma. Con effetti letali. Misura decisa «per equità», perché «era necessario metter fine ai privilegi», dice il governo. Mentendo. La «ricongiunzione» – tra istituti che oltretutto sono in corso di unificazione, come Inpdap e Inps – è sempre stata gratuita per chi passava da un trattamento migliore a uno peggiore; onerosa solo per il viceversa. Ora pagano tutti, a prescindere.
La tragedia nasce dal fatto che si è obbligati a pagare – e cifre inconcepibili, per un lavoratore dipendente: decine di migliaia di euro – se per caso, pur avendo fatto sempre lo stesso lavoro nella stessa azienda, è cambiata la «ragione sociale» della ditta. È il caso delle Poste e Ipost, con persone contributivamente trasferite – per decisione dell’allora a.d., Corrado Passera – dall’Inpdap (statali) all’Inps (privati). Ora dovrebbero ripagarsi una seconda volta tutto un (lungo) periodo contributivo già versato, altrimenti la loro pensione sarà quella di uno che ha lavorato appena 20-25 anni. Di fatto, gli anni di contributi non utilizzabili sono incamerati senza un servizio corrispettivo. È dunque legittimo parlare di «furto legalizzato», con lo Stato nella parte del ladro.
Ma si trovano nella stessa situazione anche tutti coloro che sono stati «privatizzati» (le municipalizzate, Telecom, Alitalia, ecc), scorporati, esternalizzati, o riassunti da una «newco» (pensate a Fiat? toccherà anche a loro, ovvio). Per non dire dire dei giovani che, secondo gli stessi ministri, «devono abituarsi a cambiare spesso lavoro». Cosa accadrà quando, com’è giusto, dovranno «ritirarsi»? Quanto dovranno versare per «riunificare» una carriera lavorativa svolta sotto 12 o 20 società diverse, tra periodi mancanti o fasi da «partita Iva»? Di fatto, quello che era il diritto alla pensione per chi ha sempre lavorato, diventa ora «una lotteria», o un diritto puramente «ipotetico». Ossia l’esatto contrario di un diritto garantito dallo Stato.
La Cgil minaccia ovviamente cause legali. Ma a lavoratori che pure hanno lo stesso problema sembra impossibile persino praticare la strada della class action. Pare che il genio legislativo che l’ha materialmente scritta l’abbia congegnata in modo tale da renderla inapplicabile; perlomeno in casi simili. Un comma 22.
La domanda che anche in casa Cgil sorge al termine di questa disarmante ricognizione è abbastanza precisa: «ma una nuova legge può sciogliere contratti e regole precedenti, liberamente sottoscritti da soggetti indipendenti e persino dallo Stato?». In regime di democrazia, no. Può accadere solo in caso di golpe o di rivoluzione. Ma, quest’ultima, non l’abbiamo vista passare…
Da l’Unità
Grazia, insegnante di 71 anni beffata per tre giorni
Grazia ha insegnato presso lo stesso Istituto scolastico per oltre 37 anni, fino al 31 agosto 2010. Dal primo settembre 2001 però l’Istituto da privato diventa “parificato” e ciò determina, a decorrere dalla stessa data, il passaggio dell’obbligo assicurativo di tutti i dipendenti dall’Inps all’Inpdap.
Grazia viene collocata a riposo per raggiunti limiti di età il primo settembre 2010. Nei primi giorni del mese di agosto va all’Inps per presentare domanda di pensione con l’intento di chiedere il trasferimento dei 9 anni di contributi versati all’Inpdap dal 1° settembre 2001 al 31 agosto 2010 presso l’Inps ai sensi della legge 322/58, come negli anni precedenti avevano fatto i suoi colleghi che erano andati in pensione. Non sapeva dell’abrogazione della legge 322/58 tre giorni prima. A settembre 2010 riceve il provvedimento di liquidazione della pensione di vecchiaia Inps in modalità provvisoria in attesa del trasferimento della contribuzione versata presso l’Inpdap. Pensione liquidata sulla base della sola contribuzione accreditata presso l’Inps (28 anni e 5 mesi). I 9 anni di contributi versati all’Inpdap presso la Cassa Pensione Insegnanti, non possono essere utilizzati in alcun modo perché la manovra del 2010 ha abrogato la vecchia norma (legge 322/58).
La beffa è che tutto è successo solo tre giorni prima della domanda. E nessuna l’ha avvertita di velocizzare la richiesta. Né può attivare la ricongiunzione onerosa perché titolare di pensione diretta Inps; non può chiedere la costituzione della posizione assicurativa all’Inps perché è stata abrogata dal 31 luglio 2010; non può chiedere la totalizzazione;non può chiedere la pensione supplementare all’Inpdap perché tale prestazione non è prevista nei fondi esclusivi. Una beffa totale.Massimo Franchi
da l’Unità
Giacomo, via dall’azienda e poi il baratro
È uno dei tanti che hanno accettato di lasciare il proprio posto di lavoro, sicuro di andare in pensione con le vecchie norme. Giacomo (nome di fantasia) è nato l’11 marzo del 1952 e ha accettato di lasciare il lavoro con esodo incentivato individuale, con 36 anni di contributi, il 31 dicembre 2010. Con la vecchia normativa sarebbe andato in pensione di anzianità ad aprile del 2012. Ora è senza stipendio, senza pensione, senza ammortizzatori sociali, ha un mutuo da pagare e due figli all’università disoccupati. Con la nuova normativa il lavoratore potrà andare in pensione a 64 anni, quindi nel 2016, con decorrenza maggio. Con l’approvazione del decreto legge Milleproroghe il lavoratore con esodo individuale incentivato licenziato alla data del 31 dicembre 2010 potrebbe rientrare nelle deroghe previste rispetto alla nuova normativa.
Il “potrebbe” però è d’obbligo visto che nel decreto Milleproroghe non sono state previste risorse aggiuntive rispetto a quelle stanziate nella legge 214 del 2011: si amplia giustamente la sfera dei derogati ma le risorse non vengono aumentate con l’ovvia conseguenza che moltissimi derogati non rientreranno nelle esenzioni e saranno costretti a raggiungere i nuovi requisiti più restrittivi. Cgil, Cisl e Uil hanno sempre sostenuto che devono essere esentati dall’applicazione della nuova normativa tutti i lavoratori indicati nella legge 214 del 2011, fra cui tutti i lavoratori disoccupati, tutti i lavoratori con esodi individuali o collettivi sottoscritti entro il 31 dicembre 2011. La deroga inoltre deve valere per tutti i soggetti individuati senza vincoli né di carattere finanziario né di carattere numerico: «il diritto alla pensione – sostengono i sindacati – è un diritto soggettivo perfetto e non può essere ridotto ad una mera lotteria».
Maria, al lavoro per 40 anni ma ora è senza nulla
Maria è una delle migliaia di lavoratrici che ha sempre fatto lo stesso lavoro, ma che ha avuto la sfortuna di cambiare istituto previdenziale. È nata il 21 gennaio del 1954 e ha sempre eseguito la stessa mansione. Prima in ditte private poi con società collegate a Poste Italiane. È stata iscritta all’Inps per oltre 33 anni. Poi la sua ditta è stata esternalizzata, diventando Postel con iscrizione all’ente previdenziale Ipost (ora riassorbito) per oltre 7 anni. Il 21 luglio 2010 ha presentato la domanda di ricongiunzione dei contributi verso l’Inps, prima di lasciare il lavoro il 31 dicembre 2010. Tra Inps e ex Ipost ha complessivamente oltre 40 anni di contributi. Maria era certa che la ricongiunzione all’Inps della contribuzione Ipost fosse gratuita, ma la manovra del 2010 l’ha resa onerosa. Nonostante la legge sia entrata in vigore il 30 luglio 2010, nove giorni dopo la sua presentazione della richiesta, la sua validità è infatti retroattiva.
Solo dopo 1 anno, il 20 luglio 2011 Maria riceve il provvedimento di ricongiunzione: oneroso e peraltro sbagliato. Dopo un riesame l’Inps comunica a dicembre 2011 che per ricongiungere il periodo Ipost all’Inps ha un costo di 36.857,87 euro. Il pagamento della prime tre rate il cui costo è di 2.670 euro scade il 31 marzo. Maria, però, non è in condizione di pagare, non lavora più e non è pensionata, nessuno è disposto a concederle prestiti. Se non paga può chiedere la pensione in regime di totalizzazione: oltre ad un trattamento notevolmente inferiore perderebbe oltre un anno di pensione. Secondo le nuove disposizioni della legge Monti la sua età per la pensione di vecchiaia arriverebbe nel 2020 con 66 anni e 11 mesi di età. Si troverebbe dunque ad attendere altri 9 anni senza stipendio e pensione.
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lodovico alessandri
Volentieri lascio il mio commento. Lavoratore Dipendente con versamenti INPS dal 1975 al 1992. Poi libero professionista dal 1992 ad oggi, con versamenti presso INARCASSA. Bene, raggiunti i miei 65 anni chiedo la Mostruosa Ricongiunzione da INPS a INARCASSA. Mi arrivano tre foglietti da INPS con il calcolo delirante di versamento di euro 89.000,00 per operare la ricongiunzione dei periodi assicurativi, altrimenti….soldi regalati all’INPS e perdita di TUTTO.