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I “furbetti” della spending review

Oramai si tratta di un appuntamento quotidiano: non passa giorno senza che arrivi un nuovo provvedimento od una tassa in grado di peggiorare le già disastrate condizioni di vita di buona parte del Paese.
Ci dicono che è tutta colpa dell’enorme debito pubblico accumulato e che si tratta, pertanto, di interventi necessari e non più rinviabili, tanto più vista la contingente crisi economica.
Proprio per questo, oggi più che mai sarebbe necessario intervenire per contrastare lo sperpero di risorse pubbliche, impedendo che queste vengano impiegate, ad esempio, per finanziare la delocalizzazione delle attività produttive.
Molto spesso, infatti, i soldi dei contribuenti italiani non vengono utilizzati per creare nuovo lavoro in Italia, bensì all’estero.

Aziende risanate o che negli anni sono riuscite a rimanere sul mercato soltanto grazie alle politiche di incentivo o agevolazioni fiscali e che, un bel giorno, “chi ha avuto avuto, chi ha dato ha dato”, ci ricambiano con un saluto e tanti licenziamenti, con gravi conseguenze anche per tutto l’indotto che ruotava intorno alle attività produttive esportate all’estero.
Ma per tutti questi casi, ci domandiamo, potrebbe essere possibile immaginare un intervento legislativo in grado di far recuperare le risorse pubbliche che sono state utilizzate per tenere in vita aziende che oggi fuggono dall’Italia?
Certamente sì, basterebbe volerlo.
Così come sarebbe sufficiente pochissimo per impedire alla RAI di finanziare prodotti che verranno realizzati, interamente o in parte, all’estero.
 
Un Film che si muove è una piccola fabbrica che mediamente coinvolge dai 40 agli 80 lavoratori di “set”, un numero rilevante di figurazioni e un indotto in grado di rispondere alla domanda di  strumentazioni tecniche particolari, di strutture o di luoghi nei quali girare; di alberghi; ristorazione; trasporti; mezzi tecnici da affittare sul posto e molto altro ancora.
Un film girato all’estero porta tutta questa opportunità di lavoro e di ricchezza al di fuori dell’Italia, e se questi soldi provengono dalla RAI, possiamo ben dire che i contribuenti pagano non una, non due, ma tre, quattro volte.
Pagano per produrre il prodotto; pagano per non aver ricevuto alcun beneficio in termini di crescita economica da quella che può perciò essere definita spesa pubblica per noi improduttiva; pagheranno anche, inoltre, per il minor gettito fiscale e per i mancati contributi dei lavoratori che avranno, anzi, una maggiore necessità di far ricorso agli istituti di previdenza.
Del resto, è sufficiente fare due semplici conti: cento milioni di euro investiti in Italia possono creare lavoro e crescita economica, nonché, cosa di non poco conto, un ritorno per le casse dello Stato, tra prelievo contributivo e fiscale, di circa il 50-60% di quanto investito; cento milioni portati all’estero sono invece destinati a sparire nel nulla.

Tutto questo è palesemente assurdo ed inconcepibile, tanto più visto il vigore con il quale ci viene ricordato, tutti i giorni e provvedimento dopo provvedimento, che è tempo di sacrifici, o meglio, di spending review.
Suona pertanto quanto mai sospetto che non venga ritenuto urgente un intervento di riorganizzazione e razionalizzazione dei soldi spesi da un’azienda, la RAI, della quale il Ministero delle Finanze e dell’Economia risulta essere azionista di maggioranza per oltre il 99,5%.
Un Ministero che non si fa scrupoli di guardare continuamente dentro le tasche della povera gente, ma che, però, non fa alcun caso se la “sua-nostra” azienda  continua ad esportare ingenti risorse economiche senza portare alcun tipo di beneficio per il Paese.

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