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Crisi al “manifesto”. La parola ai lettori

Sembra la vigilia di un’implosione. Forse finirà così, forse ci sorprenderanno con un ultimo guizzo. Ma ci sembra difficile.

Valentino Parlato, con Rossana Rossanda, pone un problema impossibile da aggirare: che cosa è e vuol essere il manifesto in un mondo in crisi. Norma Rangeri cerca di aggirare la domanda rispondendo che è “il giornale della sinistra plurale” e che “parlare di comunismo” non ha più senso. Che di comunisti al manifesto ne fossero rimasti pochi, da lettori, ce n’eravamo accorti. Che fossero anche mal tollerati ci viene detto ora con una certa ruvidità.  Chi aveva pensato che fuoriuscita di Vauro fosse acrivibile a volgare auri sacra fames si deve ricredere una volta di più.

Ma stiamo al merito, non all’ideologia, che in molti sembrano ormai maneggiare con berlusconiana noncuranza.

Ammesso che abbia significato qualcosa nel ventennio di dismissione culturale che ci sta alle spalle… che vuol dire, all’alba del 2013, “sinistra plurale”?

Dove comincia e dove finisce questa “pluralità”? Di fronte al processo di costruzione dell’Europa in base ai comandamenti della troika (Bce, Fmi, Ue) questa “pluralità” ha chiavi di lettura condivise o divise? Fuor di astrattezza: il sostegno critico ai governi della Troika – Monti e quello dopo, con il Pd sempre “pilone insostituibile” del consenso parlamentare – e l’opposizione netta alle politiche che mette in pratica, possono stare dentro lo stesso contenitore? I ministri che mandano o manderanno la polizia a manganellare le manifestazioni di protesta, sono interlucutori all’interno della “sinistra plurale” tanto quanto i manganellati o manganellandi? Samaras o Rajoy o Bersani tanto quanto l’esodato il minatore del Sulcis? Scusate, è vero: Samaras e Rajoy sono “di destra”, Bersani (e prima Zapatero e Papandreou) sono “di sinistra”… Da qualche parte ci deve essere un bottone “mi piace” che non riusciamo a vedere. Ci accontentiamo di misurare tutti da quello che fanno e non da quello che dicono. All’inglese.

Un giornale di “sinistra plurale” in questo nuovo mondo, come ci si raccapezza? E come si fa a scegliere giorno per giorno – siamo un giornale anche noi, per quanto piccolo e con pochi redattori – di cosa dar notizia e come? Quali sono il o i diversi “punti di vista” che selezionano gli avvenimenti rilevanti? Qual’è la chiave interpretativa generale che permette di considerare importante questo e non quel fatto? Chiunque abbia dovuto in vita sua riempire anche un solo foglio di carta ha dovuto chiedersi, davanti alla pagina bianca, “che cosa voglio dire?” e “a chi voglio dirlo?”. Dichiararsi “non ideologici”, ci ha insegnato il ’68 – ed anche il manifesto, tra gli altri – è in genere un indizio certo della presenza di un’ideologia impresentabile in un determinato cerchio pubblico. Un tentativo non brillante di camuffamento per poter avanzare nel conseguimento dei propri obiettivi, come un incursore tra le linee nemiche. Capiamo quale sia l’obiettivo di Parlato, con cui pure spesso abbiamo polemizzato, negli ultimi 40 anni. L’obiettivo di Rangeri, invece, non ci viene neppure fatto vedere. È tanto brutto da non poterlo dire?

In qualche misura, insomma, visto che stiamo parlando di un giornale, la sua risposta a Valentino ci sembra un (l’ennesimo) tentativo di abbindolare i lettori, in genere “più di sinistra” di chi scrive sulle pagine. Qualcosa di simile hanno già scritto diversi “circoli” di lettori. Ci aggiungiamo alla schiera, garantendo anche la nostra presenza all’assemblea del 4.

Abbiamo tutti bisogno di un giornale di opposizione. Nessuno ha bisogno di un altro giornalino che fiancheggia il governo pizzicandolo qui e là sulle singole misure che prende. Siamo all’inizio di una crisi di civiltà che sta già rovesciando come un guanto la nostra vita sociale; abbiamo bisogno di capire e lottare. Il tempo della simulazione bertinottiana – “sono di sinistra, ma senza grandi idee” – è proprio finito.

Da dove ricominciare

Valentino Parlato
L’editoriale di Norma Rangeri e di Angelo Mastrandrea sul manifesto del 12 ottobre scorso ha provocato molte critiche anche gravi, fino al rischio di dimissioni di alcuni di noi. Ed è paradossalmente proprio per non avere buttato il sasso nello stagno che quell’articolo è criticabile. Senz’altro i direttori sono stati mossi da buone intenzioni nel tentativo di rappattumare le divisioni nel manifesto.
Ma voler far passare il documento di Rossana Rossanda come la linea del giornale, quando si sa che alle assemblee del collettivo, il suo documento è stato solo citato da alcuni ed è stato accolto (anche per colpa mia) nell’indifferenza generale, ha provocato la giusta reazione di Rossana. E la mia.
Con la differenza che do atto ai direttori di aver svolto un compito ingrato in questi mesi di liquidazione coatta, quando da dimissionari sono stati rinominati direttori dai liquidatori.
Al punto in cui siamo giunti penso che l’ultima speranza di rilanciare il manifesto è rappresentata dalla convocazione, domenica 4 novembre a Roma, dell’assemblea dei circoli, dei sostenitori, dei collaboratori e dei lettori del manifesto che giustamente hanno titolato l’assemblea «da dove ricominciare».
Manca meno di una settimana, il tempo stringe e in questi pochi giorni dobbiamo definire, sulle pagine del nostro giornale, cosa ci proponiamo di fare.
Certo la crisi non è solo nostra ma di tutto quel che resta della sinistra.
Una crisi che si manifesta anche nelle nostre riunioni di redazione. Il giornale ha perso la fisionomia che aveva in tempi migliori. Certo pubblichiamo ancora ottimi articoli, ma che non fanno il discorso politico e multiculturale che spesso ci è riuscito di fare nel nostro passato.
Siamo in amministrazione controllata e, a dicembre, i liquidatori metteranno in vendita la testata e nessuno di noi ha i soldi per comprarsela. Forse (nemmeno questo è sicuro) ci sarà un padrone. Questo ancora nostro giornale rischia di scomparire in silenzio o di finire in altre mani.
Dopo l’assemblea del 4 novembre avremo solo due mesi di tempo per continuare a discutere tra noi, con i lettori e con i circoli per tentare di sopravvivere e ricominciare, definire analisi e obiettivi. E anche questo tentativo dovrà farsi pubblicamente, sulle pagine del giornale. Una discussione aperta e pubblica può anche richiamare e coinvolgere lettori delusi.
Certo, dicevo, siamo di fronte ad una crisi storica globale, che non si può risolvere solo in Italia e neppure negli Usa; la finanza sta distruggendo anche la politica e l’allontanamento dei cittadini dalla politica (in Italia il partito più forte sarebbe, è, quello di chi si astiene e dei grillini) e dalla cultura (quanto e che cosa si legge oggi in Italia?) Ma di questo, cosa e quanto pubblicano le nostre pagine? C’è la grande crisi e cresce la povertà, ma quanti e chi sono quelli che si arricchiscono?
Se questa grande crisi ci ha messo in difficoltà e calo delle vendite è anche per nostra responsabilità. E, aggiungo, poco o niente ci siamo interrogati sul calo delle nostre vendite in edicola e sulle nostre divisioni interne delle quali siamo tutti, più o meno, responsabili. Di questo non discutiamo e c’è una certa passività e occasionalità nella fattura del giornale invece di costruire campagne.
«La discussione sul manifesto – ci ha scritto Rossanda – è partita male. La prima domanda non è di chi è, ma che cosa è il manifesto», riferendosi a chi sostiene che il giornale appartiene a chi lo fa. E concordi con Rossanda sono, oltre a me, anche i circoli della Sardegna, di Padova, di Bologna, di Pietrasanta e di Roma. Per questo – nonostante il poco tempo davanti a noi – ribadisco che una intera pagina del giornale sia ogni giorno dedicata al nostro che fare e magari, prima del 4 novembre, anche più di una pagina, perché il tempo stringe. Molto utile, a mio parere, l’intervento di Sergio Caserta sul manifesto di ieri.
Per un giornale come il nostro, la discussione deve essere pubblica. Spero che questa proposta abbia l’approvazione anche del nostro attuale collettivo in modo da arrivare con più chiarezza alla decisiva discussione del 4 novembre.

Abbiamo già cominciato

Norma Rangeri, Angelo Mastrandrea
Questo è il giornale della sinistra plurale: politica, sindacale, sociale, culturale. E’ un giornale che guarda alla sua storia e molto attento ai cambiamenti in atto; è il giornale che da sempre difende i lavoratori più svantaggiati e i precari; è il giornale dei diritti e della giustizia sociale. E’ il foglio della sinistra, di tutta la sinistra. E’ un giornale aperto all’ambientalismo e al riformismo sociale, pioniere nella difesa dei beni comuni. E’ un giornale che mette insieme i “vecchi” comunisti e i giovani meno ideologizzati e più libertari. Pensare di difendere la nostra storia senza tenere conto del fatto che le giovani generazioni non sanno neppure cosa voglia dire “comunismo” significa attardarsi in una lotta politica e in una informazione minoritarie. Abbiamo l’ambizione di accompagnare il cambiamento del mondo del lavoro, di raccontarne l’involuzione, di restituire la ricchezza delle mappe internazionali, di continuare a imparare dall’inchiesta sociale, di condividere le esperienze dei nuovi movimenti, di aiutare il compito di ricostruire una sinistra critica, il cui mondo sospettiamo più interessante e ricco di come lo rappresentiamo. Abbiamo un punto di vista radicale, mai settario. Forse a qualcuno questa prospettiva larga non piace. Ci si accusa di non avere una linea: non l’abbiamo infatti, non siamo un partito.
Negli ultimi tre anni, quando abbiamo assunto la responsabilità della direzione (dopo quasi due anni di assemblee sfibranti quanto inefficaci) abbiamo dedicato tutte le nostre energie al lavoro quotidiano. In un momento di crisi pesante per la carta stampata, dovevamo tenere il più possibile stabili le copie, difendere i posti di lavoro e curare la qualità del manifesto, dialogando tanto con l’opposizione interna quanto con la crisi esterna, che mazzolava tutti i quotidiani. A leggere le percentuali di perdita delle altre testate, da Repubblica, all’Unità, al Fatto, con centinaia di giornalisti mandati a casa, possiamo dire di aver affrontato la crisi perdendo copie sì (mentre il contesto si arricchiva di nuovi e agguerriti concorrenti) ma mantenendo un livello accettabile di vendite. I postumi della fine tardiva di Berlusconi, oltre alla crisi più generale dell’editoria nazionale (e internazionale: testate storiche come Newsweek ora sono solo sul web) ha colpito tutti duramente.
Dopo un’estate terribile ora le nostre copie in edicola stanno risalendo, e la stagione politica che ci aspetta ci fa ben sperare, ma naturalmente non ci mette al riparo. L’assenza cronica di pubblicità, i costi eccessivi di una redazione troppo numerosa, da sempre, hanno pesato moltissimo, al punto da portarci alla liquidazione amministrativa. E avendo Valentino Parlato sottolineato questo passaggio nel suo articolo, ricordiamo che se siamo stati confermati dai liquidatori alla direzione del giornale è anche perché non c’era chi fosse disposto ad accollarsi questo peso. Non solo. Come i nostri lettori sanno, circa un anno fa abbiamo dato le dimissioni: era faticoso, fisicamente e psicologicamente, lavorare senza poter contare sulla solidarietà esplicita di persone che hanno fatto la storia (insieme a questa direzione) del manifesto. Mentre fuori grandinava, abbiamo lavorato con l’elmetto, spesso non per ripararci dai colpi esterni, ma da quelli che venivano dall’interno: questa direzione ha affrontato una opposizione costante. Da qui, nella speranza di favorire un clima più disteso, l’offerta delle nostre dimissioni. Ma neppure dalle fila dei critici più accaniti si è fatto avanti qualcuno disposto a prendersi la responsabilità del giornale in un momento così difficile.
Ci si può addebitare, ed è l’unica critica che ci sentiamo di accogliere, di non avere incentivato un dibattito assembleare interno. Ma, a nostra parziale discolpa, va il fatto di avere lavorato in condizioni drammatiche, con la redazione dimezzata dalla cassa integrazione, e dunque con tempi strangolati. Nulla ha mai ostacolato la possibilità di attivare una discussione da parte di chi più di noi aveva tempo e modo per sollecitarla; imputare a noi di non averlo fatto è singolare. Abbiamo sempre tenuto nella massima considerazione il contributo critico dei circoli, tutti (non abbiamo mai fatto la conta di chi ci sostiene e chi no), come naturalmente di tutte le lettrici e i lettori. Detto questo, il manifesto ha sempre rivendicato a sé la propria autonomia, mai piegandosi a interessi di partito, e quando accadde Luigi Pintor si dimise dal giornale. Vogliamo continuare così. Ben venga qualsiasi contributo, idea, suggerimento, proposta perché il giornale possa vivere oggi, domani e per altri quarant’anni.
Sul futuro esistono alcune proposte di rilancio e di riorganizzazione del giornale. Ne vogliamo discutere pubblicamente. Ma una cosa deve essere chiara: chi ha fatto il giornale nella sua fase più difficile non si farà da parte. E, sarà bene ribadirlo: noi siamo estranei a qualunque ipotesi di nuove società editoriali che cancellino l’esperienza di autogestione della cooperativa. E siamo preoccupati, invece, per l’esplicita ammissione di progetti di appropriazione della testata discussi fuori dalle stanze della redazione. Se i circoli del manifesto raccoglieranno i soldi necessari per aiutarci a ricomprare la testata entro la scadenza dell’asta liquidatoria, tanto meglio. Saremo felici di saltare il passaggio del socio finanziatore. Ma deve essere chiaro che, anche in caso di acquisto, noi tratteremo alla condizione di avere una cooperativa libera e autonoma.
Immaginiamo che la nostra risposta e lo scritto di Valentino Parlato non saranno una piacevole lettura per molti di voi. Avevate pensato che il manifesto, nonostante le difficoltà, fosse unito nella lotta per le magnifiche e progressive sorti della sinistra? Non è così. Ci sono oggi, al nostro interno ­ come del resto è sempre accaduto – sguardi diversamente critici, tanto sulla sinistra che sul giornale da fare. Meglio esibirli apertamente.
Ps: Ci suona pretestuosamente polemico il riferimento di Valentino Parlato al commento nel quale citavamo l’articolo di Rossana Rossanda. Non abbiamo fatto, in quell’articolo, che sottolineare alcuni aspetti della sua analisi sulla quale concordiamo. La prossima volta, se capiterà, scriveremo le stesse, identiche cose senza fare nomi e cognomi.

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7 Commenti


  • Roberto

    Complimenti alla redazione di Contropiano per il commento.


  • MaxVinella

    Continuo a comprare il Manifesto solo per solidarietà con chi ci lavora, ma non lo leggo quasi più.

    E’ un giornale che contiene ormai non più di due o tre articoli leggibili : tutto il resto è aria fritta.

    Non si comprende più se abbia un linea e se c’è quale sia !!

    Arriva sempre sui fatti con uno o due giorni di ritardo.

    Non fanno inchieste da secoli e le notizie sul dilagante fenomeno della corruzione vanno scovate con il lanternino.

    Chiudano la baracca e vadano sul WEB : c’è andato News Week, ci può andare anche il Manifesto !!!!!


  • luciano

    La domanda giustamente posta da Rossanda,andrebbe invece trasformata in:” Che cosa è stato sin qui il Manifesto”?Avendo vissuto tutta la fase dell’organizzazione politica prima e,in seguito,con la diffusione militante e il sostegno attivo poi attraverso la sottoscrizione per diversi anni dell’abbonamento,ritengo di appartenere a quella generazione che ha conosciuto da vicino la realtà del giornale, oltre alle sue componenti culturali da cui deriva la sua indubbia originalità.Quello che sta producendo l’attuale” impasse” è facilmente riconducibile alla originaria linea politica ispiratrice del gruppo fondatore che non ha mai fatto mistero della propria ragion d’essere insieme interna ed esterna alla sinistra storica,che si cercava ,velleitariamente , di condizionare “da sinistra”.Si credeva allora e si crede ancora oggi, nella possibilità di una sorta di catarsi che faccia esplodere le famose contraddizioni interne al blocco indicato come referente di una alternativa di governo.Il problema è che quella sorta di togliattismo rivisitato se mai ha avuto un qualche pregio storico,è stato definitivamente sconfitto e affossato dal declinare delle sue ragioni di fondo,scientemente rinnegate dai suoi eredi!Oggi, ospitare un’intervista ad un esponente del pd, non vuol dire allargare gli orizzonti della critica, ma creare nella classe ulteriore disorientamento e confusione.E’alquanto fuorviante rappresentare la crisi attuale solo come un lento precipitare delle antiche certezze;c’è un filo rosso che unisce le diverse fasi della vita del quotidiano e lo si può sicuramente indicare nella volontà DI NON ROMPERE IN MANIERA DEFINITIVA con una tradizione che ha avuto ai suoi vertici dirigenti nobili come Secchia e Terraccini,ma anche e soprattutto,Napolitano,Amendola e Pecchioli.Questi ultimi fra i principali responsabili della disfatta storica subita dal movimento operaio nel suo complesso.Inseguire oltre modo costoro nel campo borghese che occupano oramai stabilmente non è solo miope ,ma lo si può considerare un vero e proprio atto scellerato!


  • domenico

    Forse sono rimasto indietro con la semantica. Stavo prendendo il vocabolario, ho lasciato perdere. Cosa è la “sinistra plurale”? forse
    ancora negli anni novanta qualcuno che nelle orecchie aveva il ritornello della fine della storia si trovava. Ma oggi…- E’ difficile dichiararsi, non solo sulla prima pagina “quotidiano comunista”? Chi non lo è mica è
    obbligato a starci, magari scriverà con una piccola avvertenza del tipo “contributo alla discussione di un non comunista”, così tutto è e sarebbe più chiaro. Con “sinistra plurale” si definisce quella che è nella realtà degli articoli che il Manifesto ci sottopone una autentica minestra acida che NON serve ai Comunisti della strada che invece sono costretti continuamente a scrivere al giornale perchè corregga, aggiunga, perchè omette. Ci ritroviamo con un giornale comunista che ha ormai collane di perle di articoli composti da NON comunisti. Tenetevelo. –


  • alfredo

    Per me non esistono più da moltissimo tempo. Il comunismo quello di Marx e di Lenin abolisce i servi. Loro invece sono dei servi coscienti e contenti del centro sinistra


  • almanzor

    Personalmente è quantomeno dalla crisi del Prodi II (feb. 2007) che provo autentici conati all’ascolto del termine ‘sinistra plurale’. Non sono uno snob settario e negli anni ho anche votato, sia pur con scetticismo, le forze che vi si richiamavano. Devo dire che al (come noto) minimo spazio politico a loro disposizione, sono riusciti ad aggiungere uno sfacelo assoluto della loro classe dirigente. Risultati: zero (nel migliore dei casi), credibilità: completamente annullata per questi personaggi e, quel che peggio, per qualunque prospettiva politica ‘di sinistra’ (non banalmente pd) agli occhi dei potenziali soggetti sociali interessati. Oggi oltretutto l’unico ‘mattone’ di questa bicocca (stando almeno ai sondaggi) è rappresentato da un partito personalistico (sel, ovviamente) dai contorni di un’ameba e che seguirà necessariamente le sorti del suo capo.

    Al fatto che la ‘gauche plurielle’ non abbia più, da anni, il minimo spazio politico si aggiunge quello, non meno importante, dell’irrilevanza culturale: sarebbe ora di chiamare questo tipo di diversità non una ‘ricchezza’ (mi viene un altro rigurgito !) ma un’autentica e cacofonica schizofrenia. La drammatica parabola della sinistra italiana negli ultimi 40 anni (in cui si affastellano marx, femminismo, macrobiotica, biopolitica, antiautoritarismo, situazionismo e via incasinando), ha prodotto tanti frammenti come per una stella esplosa da molto tempo. A partire dalla sua stessa nascita il Manifesto, con tutti i suoi meriti, è stato la serra ideale per raccogliere i frammenti di quest’esplosione cosmica. Era forse un’aspettativa eccessiva pretendere che di questo manicomio facesse qualcosa di commestibile, ma quel che è certo è che ormai non si può continuare nell’equivoco: quando le parole (sinistra, comunismo, …) sono sottoposte ad un tale stress semantico diventano dannose per tutti.

    Insomma: così com’è il giornale è ormai un equivoco irrisolvibile e c’è da auspicare che le parti migliori di esse (ad es., buona parte della redazione economica che spesso viene ripresa su questo sito) riescano, con altre forze fresche, magari, a convergere su un progetto al passo con i tempi drammatici che stiamo vivendo nel nostro ‘nuovo’ secolo.

    Il pluralismo di Rangeri & co. forse ne soffrirà ma penso che ce ne faremo una ragione.


  • Vito Fernando ROSA

    Meglio che il Manifesto muoia . Non è mai servito ai comunisti . Un secondo giornale intelletualoide che non da indicazioni di lotta e che le lotte non le racconta nemneno, non serve niente se non a chi lo scrive . Un giornale fatto per il ceto politico, per i buracrati sindacali sempre sostenuti acriticamente, non serve ai lavoratori, che anche nelle loro più avanzate avanguardie hanno smesso di leggerlo .
    Per il suo DNA il Manifesto non può migliorare. Solo dalle ceneri del vecchio possono nascere le cose nuove ed utili .
    Vadano, i giornalisti, alla Stampa di Calabresi come altri loro colleghi, lì possono avere una paga migliore e fare le pulci alla classe politica senza combatterla veramente .
    Quindi, nemmeno un euro per il Manifesto .
    Vito Fernando ROSA, Unità Popolare – Basilicata

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