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Marco Solimano, l’uomo che non riuscì a terminare il percorso di Vidocq

Un breve riassunto dei fatti: Marco Solimano, assieme al fratello Nicola, è un ex Prima Linea. Condannato a 22 anni, per concorso morale, poi dissociato, una volta uscito dal carcere è piano piano diventato un dirigente Arci locale, poi consigliere comunale dei Ds (poi Pd) e appena tre giorni fa era di fatto assessore al sociale.
Cosa ti succede? Appena c’è la notizia della nomina il Tirreno parte con l’ennesima intervista alla vedova di un agente di custodia rimasto ucciso in un assalto di PL alle Murate. Il Pd silura l’assessore appena scelto, che era ormai un quadro storico del centrosinistra locale, in pochissime ore. Motivazione: dopo i funerali di Gallinari “un ex terrorista non può diventare assessore” (l’ha ribadito stamani il figlio di Lando Conti).

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La vicenda della mancata nomina di Marco Solimano ad assessore al sociale, al comune di Livorno, ha sia del vergognoso che del paradigmatico. Sia ben chiaro il nostro atteggiamento: noi le critiche all’Arci livornese, associazione di cui Solimano è rappresentante, le abbiamo sempre mosse e senza sconti. Per il collateralismo ancillare dell’ Arci verso il Comune, la cui dimensione economica è tutt’altro che chiara, per il comportamento blando tenuto verso la drammatica situazione del carcere delle Sughere, dove Solimano è garante dei detenuti, per la lista civetta, dissoltasi dopo le elezioni, che ha permesso la scellerata rielezione del sindaco Cosimi al primo turno nel 2009. Allo stesso tempo dopo le dimissioni del precedente assessore al sociale Cantù, vicenda bulgaro-livornese i cui contorni non sono affatto chiari, Solimano poteva avere le caratteristiche richieste per la successione: conoscenza del territorio e senso della mediazione, anche se l’incarico di assessore sarebbe stato in conflitto di interessi con il suo ruolo storico nell’Arci e in ogni caso non si capisce perchè a Livorno si deve sempre pescare nei soliti consessi. 

A Solimano, una volta assessore, avremmo rivolto serie critiche politiche o argomentazioni informate e circostanziate. In uno scenario dove la questione sociale a  Livorno è emersa ormai con forti tratti di pericolosità. Bene, questo piacere di poter esercitare la nostra critica politica, che è fondamento di ogni tessuto democratico, non potrà essere praticato. Semplicemente perché, tra faide interne al Pd e gusto giornalistico di inventarsi repliche di “Romanzo criminale”, la candidatura ad assessore è svanita perchè è stata tirata fuori di nuovo la vecchia storia di Solimano ex appartenente a Prima Linea e condannato a 22 anni di carcere. Una storia già emersa quando è diventato Garante dei detenuti e che di cui, naturalmente, viene sempre scritto il medesimo ritornello senza mai spiegare il contesto di quella pena che in quegli anni di leggi speciali e repressione feroce da parte degli apparati statatli coinvolti a piene mani nella strategia della tensione e nello stragismo, veniva comminata anche senza aver mai sparato un colpo.

Nessuno si è sostanzialmente e pubblicamente chiesto se Marco Solimano, con la sua conoscenza del territorio e del sociale, sia oggi nel 2013 una persona adatta a fare l’assessore. Ma ci si è focalizzati sul fatto che aver fatto parte di Prima Linea, dieci anni prima della caduta del muro di Berlino, in un mondo completamente diverso, sia ostativo o meno della possibilità di fare l’assessore quasi quattro decenni dopo. E questo in una regione, la Toscana, che vanterebbe una tradizione illuministica, e in un paese che non si è fatto problemi nemmeno quando un ex repubblichino, Mirko Tremaglia, è diventato ministro della repubblica nata dalla resistenza.

Riflettere su questa vicenda ci porta ad una situazione paradossale: siamo una testata che esprime differenti tradizioni politiche tutte molto critiche verso esperienze come Prima Linea e che auspica la dissoluzione del centrosinistra, locale e nazionale, per il bene dello stesso paese. Potremmo tranquillamente dire sia al Solimano di ieri che a quello di oggi, per ragioni ben differenti, di andarsene al diavolo. Ma c’è una questione sulla quale si deve essere intransigenti: da troppo tempo in questo paese è passata una concezione della condanna perpetua, dell’esilio permanente dalla vita civile verso persone che hanno fatto parte, a (davvero) diverso titolo, della vicenda banalmente definita “anni di piombo”. Si tratta di tipo di di cultura della condanna perpetua che equipara questa esperienza al nazismo, che pure è stato di una ferocia incomparabile rispetto agli “anni di piombo”, e che risulta persino più tollerante, rispetto alla “lotta armata”, nei confronti del fascismo. Siamo quindi arrivati ad una situazione di fatto per cui il fascismo è oggettivamente considerato un male minore. Ai recenti funerali di Pino Rauti, esponente storico del fascismo stragista, si sono infatti levate pochissime critiche sui saluti romani, sull’apologia della dittatura che si è manifestata. Come è passata praticamente sotto silenzio la vicenda della statua al criminale fascista di guerra Graziani in un paesino del Lazio. Sappiamo tutti cosa sarebbe successo se qualcuno, al contrario, avesse voluto fare una statua per Mara Cagol.

Questo ci dimostra che nel paese, nella repubblica nata dalla resistenza, il bando perpetuo da una compiuta vita civile viene oggi adottato, via spettacolo mediale, con i criteri della più viscerale propaganda anticomunista, rovesciando i principi stessi dell’antifascismo su cui è nata la repubblica. Principi che non equiparano affatto fascismo e comunismo e che fanno del reinserimento nella vita civile uno dei cardini dell’orientamento democratico. Reinserimento di fatto più difficile, per non dire di peggio, in una repubblica che ha perso il senso di cosa sia stato il fascismo. Salvo inveire più forte, oggi quasi come 30 anni fa, contro l’altra parte in nome della condanna degli opposti estremismi che, a siderale distanza dai fatti, è ormai solo cieco accanimento ideologico contro una parte sola.

A Marco Solimano non è riuscito quindi di terminare il percorso alla Vidocq. Stiamo parlando del popolare bandito francese, ai tempi della rivoluzione, che finì per diventare capo della polizia segreta sotto Napoleone, Luigi XVIII e Carlo X. Solimano ha cominciato, da giovane, a predicare il primato politico della lotta armata per finire, negli anni successivi della sua vita, a ripetere il vuoto mantra della legalità. Non è però riuscito a coronare la carriera alla Vidocq formalizzando una carica istituzionale in una assemblea eletta. Perchè nella repubblica italiana di oggi vige una legge, della condanna perpetua alla impossibilità di assumere questo genere di carica, che non c’era nè sotto Napoleone nè durante la Restaurazione. Quella per cui, se da sinistra hai sfidato l’ordine statuale, anche se hai finito successivamente per abbracciarlo, sei un minorato civile per tutta la vita. Ci pensino i sostenitori del centrosinistra, visto che questa storia di Solimano è tutta interna al Pd, a che razza di mutazione genetica danno il voto.

Allo stesso tempo si tratta di dire basta. Ad un dispositivo premoderno di erogazione della giustizia sulla questione degli “anni di piombo”. Dispositivo che funziona da trent’anni in questo modo: i parenti delle vittime, la cui voce è amplificata dai media, hanno l’ultima parola, l’ultimo giudizio morale sul processo di reinserimento dell’ex aderente alla lotta armata. Questo giudizio, come nel caso di Solimano, diviene addirittura oggetto di impedimento per l’assunzione di una carica pubblica. A parte il rispetto per il dolore privato, che è una dimensione che questo discorso non tocca, resta il problema pubblico. E’ a partire dall’illuminismo che si separa compiutamente, nell’erogazione della pena, il giudizio dei parenti da quello della collettività. Non ci interessa qui discutere sul rapporto tra illuminismo e società disciplinare.  Quanto evidenziare il fatto che il  problema del reinserimento del presunto reo diviene, grazie all’illuminismo, prima un problema collettivo, poi di reinserimento e non un qualcosa sul quale la famiglia della vittima deve esercitare una sorta di perpetuo diritto di vendetta. Proprio per costituire un ordinamento dove la giustizia ha il primato sulla vendetta. La nostra cara democratica repubblica, su questa vicenda del giudizio dei parenti delle vittime sugli “ex terroristi”, assume quindi pratiche e criteri premoderni e preilluministici. Quelli dove le logiche dei vendetta privata, spettacolarizzata dai media tutte le volte che evidenziano la condanna dei parenti delle vittime, ha il primato sul processo di reinserimento e sulla giustizia. Dimenticando che il problema della giustizia non è mai affare tra parenti delle vittime e presunti assassini ma è questione di regolazione dei rapporti sociali di una collettività. Questo, dal momento in cui si supera il diritto medievale, quello in cui ancora i parenti delle vittime dicevano direttamente la loro sulle sorti del reo.

E questo lo diciamo chiaramente ai presunti vincitori di un lontanissimo ieri, quelli che si riempiono la bocca ancora oggi dell’ “abbiamo salvato la democrazia dalla barbarie terroristica”. Guardatela bene la democrazia che avrete salvato. Non solo pullula di ladri, oggi come allora, ma di fatto rappresenta una regressione civile rispetto al diritto moderno.

Guardatevi allo specchio, difensori di quel tipo di democrazia, e riconoscete che razza di demoni siete diventati. E ora godetevi il vostro bel mondo fatto di mercato, “tagli ineludibili”, concorrenza e di competitività. Finche questo bel mondo non vi ingoierà, come Crono divora i suoi figli, come da vostro destino.

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