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Ideologia millennial contro i pensionati, per conto di De Benedetti

Non è facile discutere di pensioni, lo ammettiamo. Quando bisogna ragionare su un qualsiasi sistema complesso, a prescindere o quasi dal suo contenuto, pochi ci capiscono qualcosa. Se ci aggiungiamo l’immedesimazione individuale – generazionale, di genere, di mestiere, ecc – ecco che l’obiettivo della comprensione se ne va a benedire, favorendo articoli demenziali che sembrano pensati per scatenare guerre tra poveri, anziché illuminare il buio del presente e del futuro che ci aspetta.
Prendiamo ad esempio questo articolo apparso ieri sull’edizione online de L’Espresso. Una colonna “pensante” del gruppo di Carlo De Benedetti.

Procederemo come altre volte abbiamo fatto, intermezzando il discorso dell’articolista, con le nostre osservazioni.

Partiamo subito malissimo, con il titolo dato al pezzo nella finestra di Repubblica, giornale renziano per eccellenza: “Pensioni, i numeri di un furto generazionale”. Chi sono i ladri? Chi i derubati? Lo sapremo cliccando. Ma il gioco è impostato, si tratta solo di indicare i colpevoli di un vero e proprio reato tra generazioni diverse. Compito arduo, se si segue il filo dei fatti, perché appare decisamente difficile che un “furto” possa essere perpetrato a un’intera generazione ai danni di un’altra.

Il titolo vero de L’Espresso è un po’ meno vile, ma altrettanto ideologico: “Pensioni, sempre più grande il divario tra ricchi e poveri. E una generazione è perduta”. Qui lo scenario sembra cambiare leggermente: c’è una sola generazione considerata (quella “perduta”), mentre il “furto” diventa un più serio “grande divario tra ricchi e poveri”. Beh, anche noi vediamo che il divario tra ricchi e poveri aumenta, quindi – pensiamo – possiamo continuare a leggere con qualche apprensione in meno.

Errore. Già il sommarietto ci smentisce:

Dal 2001 sono stata la voce che è aumentata di più, andando a occupare una parte sempre maggiore della spesa pubblica. Un enorme trasferimento di soldi dai più poveri, soprattutto i giovani millennial sotto i 35 anni, ai più ricchi.

Comincia a sorgere il dubbio che mr. Davide Mancino (a proposito: niente parentele?) creda davvero che i pensionati siano “i ricchi” e che i giovani siano “i poveri” perché costretti a pagar loro le pensioni.

L’Italia non ha neppure fatto in tempo a uscire dalla recessione – per qualche decimale, s’intende – che già la politica si avventa sui pochi soldi in più disponibili. Prima lo stesso Renzi, poi – più possibilista – il ministro dell’economia Padoan, e ancora il sottosegretario Nannicini.
L’oggetto del desiderio è comune: le pensioni, e più esattamente la possibilità di pre-pensionarsi rispetto ai termini attuali previsti dalla legge. Costo stimato: fra 5 e 7 miliardi di euro, da devolvere a chi beneficerà di questa agevolazione.
Per capire se si tratta di una buona idea o meno conviene intanto dare un’occhiata a quanto l’Italia spende in pensioni, sia di per sé che rispetto al resto d’Europa. Secondo i dati Eurostat questa voce (che non include le pensioni assistenziali) è da tempo la singola e maggiore spesa del bilancio pubblico, e per ogni 100 euro prodotti sull’intero territorio nazionale 14 vengono destinati proprio alle pensioni.

Dal 2001 le pensioni sono state anche la voce che è aumentata di più, andando a occupare una parte sempre maggiore della spesa pubblica. Il denaro che lo stato ha a disposizione però è tutt’altro che infinito, soprattutto in tempi di crisi, dunque bisogna fare delle scelte e stabilire quali sono le priorità. Così altri servizi pubblici sono da tempo costretti a convivere con poche risorse o addirittura – è il caso dell’istruzione – a subire tagli dolorosi.

Il giovane giornalista è alle prese con un tema di cui ha evidentemente sentito parlare de relato, magari ingozzandosi di dichiarazioni partorite da Tito Boeri, più avanti definito “accademico e presidente dell’Inps”. Altrimenti non chiamerebbe “pre-pensionamento” l’ipotesi della “flessibilità” chiesta proprio da Boeri, che il governo vorrebbe caso mai affrontare a costo zero, ossia accollando al singolo lavoratore stesso il peso di un “prestito bancario” più gli interessi (il contrario di una pensione insomma). Intanto perché anche i sassi dovrebbero aver capito che con la legge Fornero l’età pensionabile è stata innalzata – a seconda degli scaglioni – da un minimo di tre a un massimo di sette anni (quindi non si può chiamare pre-pensionamento una eventuale correzione al ribasso di una norma fallimentare sul piano economico-sociale, prima ancora che assolutamente ingiusta). Soprattutto, dovrebbe aver intuito che proprio questo incatenamento coatto dei vecchietti al posto di lavoro ha contribuito ad aggravare la disoccupazione giovanile.

Ma per lui esiste un solo dato certo è: la spesa pubblica per pensioni è l’unica voce della spesa pubblica ad essere aumentata, e questo – bum! – avrebbe causato i tagli in altri settori pubblici, tra cui l’istruzione.

Va bene, pensiamo noi, il giovane ignora la composizione del bilancio dello stato, le prescrizioni dell’Unione Europea (che sorveglia passo passo, lungo l’intero anno, la definizione della “legge di stabilità”), l’intangibilità della spesa militare (appensantita dall’acquisto degli F35, ecc). Ma l’ignoranza è una malattia curabile, studiando e cercando informazioni attendibili.

Altro errore.

Nonostante le numerose riforme, dopo la Grecia l’Italia è il paese europeo che devolve alle pensioni la fetta maggiore delle proprie risorse. Certo questo, in qualche misura, dipende dal fatto che il nostro è un paese molto anziano.
Ma conta parecchio anche la generosità del sistema pensionistico che per anni ha consentito a tantissime persone di lasciare il lavoro in estremo anticipo, per poi ricevere un vitalizio assai superiore rispetto ai contributi versati durante la propria vita lavorativa.
Quanto siano sbilanciate, le pensioni italiane, lo si capisce per esempio facendo un confronto con la Germania. Lì le persone che hanno più di 65 anni sono appena meno che in Italia, eppure la spesa pensionistica assorbe circa 9 euro ogni 100 prodotti in un anno contro i nostri 14. E non che gli anziani tedeschi stiano male, anzi: il loro tasso di povertà è persino inferiore a quello dei nostri conterranei.

Definire “generoso” il sistema pensionistico italiano, messo a punto negli anni ’70 in seguito a un conflitto sociale alquanto aspro, è un esercizio di alta retorica, non di scienza. Mr. Mancino può chiedere a qualche suo parente pensionato se si senta ricco o no (naturalmente, se il parente fosse un ex ministro, saremmo sicuri che è effettivamente ricco; ma non sarebbe comunque rappresentativo dei “pensionati”, così come l’aver tirato calci ad un pallone non assicura a tutti il godimento di proventi tipici di un contratto da serie A).

E comunque l’ignoranza si rivela assoluta quando scrive “ha, consentito a tantissime persone di lasciare il lavoro in estremo anticipo”. In anticipo rispetto a cosa? Alla natura? Alla legge attuale? No, certo, si lascia il lavoro in base a una legge. E la legge d’allora contava gli anni di lavoro (anzianità) e consentiva, in poche categorie particolarmente care allo Stato (dalla Banca d’Italia alla polizia, ai carabinieri, ovviamente ai parlamentari, ecc) di ritirarsi in condizioni particolarmente favorevoli rispetto ad altre (operai, impiegati non qualificatissimi, ecc), comunque obbligate a lavorare almeno 35 anni. Sono i cosiddetti baby-pensionati, qualche centinaio di migliaia di persone che hanno sottoscritto un accordo con lo Stato secondo le leggi vigenti. Non “ladri”. Basta fare i nomi (delle categorie interessate) e uscire dal generico. No?

Ma il panico ci prende quando mr. Mancino invoca come “prova scientifica” della sua tesi il fatto che in Germania ci siano altrettanti anziani che in Italia (e con pensioni decisamente superiori, aggiungiamo noi), ma il peso delle pensioni rispetto al Pil è inferiore. Il prodotto interno lordo di un paese dipende infatti dalla sua capacità produttiva, e la Germania – con appena un terzo di popolazione in più (80 milioni contro 60) – può vantare un Pil più che doppio rispetto al nostro. Volendo infierire, i prezzi delle merci nei supermercati tedeschi sono mediamente inferiori ai corrispettivi italiani. Anche per le merci italiane (se volete comprare una Fiat, fatelo a Berlino, risparmierete molto…). Le regole europee, oltretutto, imposte dalla stessa Germania e spesso accettate dai governi italici senza neanche leggerle, vanno allargando questo divario. Anche per l’inconsistenza strutturale dell’imprenditoria italiana (rileggetevi le intercettazioni tra Gemelli e Guidi e fatela finita).

Cosa significa? Che l‘Italia, oggi, produce molto meno di quanto non facesse – per esempio – prima di questa crisi (il 10% in meno, all’incirca), mentre oltre venti anni fa – prima degli accordi di Maastricht, insomma – sembrava all’inseguimento del colosso tedesco non ancora riunificatosi con i land dell’Est. Quindi, tutto il sistema di vita che reggeva benissimo oltre 30 anni fa, pensioni comprese, è entrato in sofferenza.

Questo sì che è un dato oggettivo. Ma richiede che si conosca un po’ di storia, di economia, di modificazioni istituzionali (lo Stato italiano non governa più di tanto questo territorio, è sub judice). La banale contrapposizione del rapporto spesa pensionistica/Pil tra Italia e Germania va insomma spiegata, da sola non spiega nulla. Cosa che però non interessa affatto a mr. Mancino.

Ma il problema cruciale è che, in sostanza, il sistema attuale consiste in un enorme trasferimento di soldi dai più poveri – in particolare i giovani millennial sotto i 35 anni – ai più ricchi. Il denaro per le pensioni arriva dai contributi sociali versati dai lavoratori: chi oggi è occupato non riceve il proprio reddito lordo ma una quota inferiore che, in parte, viene girata ai pensionati.

Il giovane millennial – il giornalista – è davvero convinto di esser pagato poco perché suo padre o suo nonno prendono la pensione. Così convinto da chiamare “ricchi” i pensionati in generale (ormai ci ha persuaso: i pensionati della sua famiglia devono aver fatto mestieri da paura, diciamo da deputato in giù). Detto amichevolmente e scientificamente: “in sostanza” un bel niente. Non c’è alcun trasferimento di soldi dal povero millennial al pensionato a 800-1.000 euro. Esiste invece un sistema di previdenza che raccoglie contributi e distribuisce assegni pensionistici sulla base dei diritti individuali maturati durante l’attività lavorativa, con il contributo dello Stato se c’è uno sbilancio. Tra gli sbilanci storici dell’Inps – non è un segreto, basta guardare i dati – c’è certamente il carico dell’ex Inpdai (la cassa di previdenza dei dirigenti d’azienda), fallita in seguito al sistematico differenziale tra i contributi versati (pochi) e gli assegni distribuiti (principeschi, sono “dirigenti”…). Poi c’è il caso particolare dell’Inpdap, genialmente accorpata all’Inps senza che fossero stati accantonati i versamenti per il Tfr (secondo la vecchia legislazione: tanto era lo Stato che deve pagare i propri ex dipendenti, quindi era solo una partita di giro..). Tra un po’ – lo annunciamo al giovane giornalista che si aspetta una carriera rampante – toccherà all’Inpgi, la cassa di previdenza dei giornalisti, minata da pensioni da autentica “kasta” e contributi infimi versati dai neoassunti a stipendio bassissimo (quando pure vengono assunti…). In pratica il sistema Ingi resta in piedi fin quando ci saranno i versamenti contributivi dei giornalisti Rai più anziani e meglio pagati; poi sarà il fallimento.

Non è finita. Anche gli asini possono leggere il bilancio Inps e scoprire che, tolte le voci “improprie” (le casse di previdenza fallite e l’intero settore dell’assistenza, che altrove è sempre a carico della fiscalità generale), e tenendo conto solo del core business (riscuotere contributi e pagare pensioni) sarebbe addirittura in attivo!

13010816_1016398888407673_1267688667503524777_nIl giovane milennial iniziato al giornalismo pseudo-scandalistico, comunque, è convinto che lo paghino poco perché una gran parte del suo salario deve essere indirizzato verso i pensionati (“chi oggi è occupato non riceve il proprio reddito lordo ma una quota inferiore che, in parte, viene girata ai pensionati”). Il suo committente gli ha detto così, ma ovviamente non è vero. Lo pagano poco perché il lavoro umano, per gli imprenditori, vale sempre meno. Un articolo come il suo lo può scrivere chiunque. Quindi vale poco. Del resto, possibile che il giovane Mancino non sappia che la Associated Press – non proprio un’agenzia di seconda fascia – ha “assunto” un software che scrive articoli? Se ne faccia una ragione: il giornalismo, oggi, è un mestiere da prostitute costrette ad abbassare i prezzi perché ci sono le bambole gonfiabili… I pensionati, a lui, non tolgono nulla.

Ma beviamo a questo punto fino in fondo l’amaro calice.

Allo stesso modo gli occupati del futuro pagheranno – si presume – la pensione ai giovani di oggi. C’è però una differenza importante: le generazioni più anziane sono andate in pensione con il vecchio sistema retributivo, secondo il quale quanto si riceve dipende soltanto dal proprio stipendio a fine carriera, a prescindere dai contributi pagati.
Si tratta di pensioni che, secondo i calcoli pubblicati su lavoce.info da Michele Belloni e Flavia Coda, consentono ad alcuni gruppi di persone di ricevere anche il triplo rispetto a quanto si è versato. I soldi però non crescono sugli alberi neppure per le casse pubbliche, naturalmente, e così lo stato è costretto a girare all’INPS diversi miliardi ogni anno proprio proprio per colmare la differenza.
Si tratta, a tutti gli effetti, di un sussidio verso le persone che sono già andate in pensione. Sussidio pagato – fra gli altri – dalle tasse e dai pesantissimi contributi previdenziali a carico dei giovani che oggi lavorano, e che però quei benefici non li vedranno mai.

L’avevamo detto: ha ingurgitato dosi eccessive di Boeri-pensiero (la voce.info è roba del neo-presidente Inps…). Non legge altro, altrimenti saprebbe che le banche centrali di tutto il pianta stanno letteralmente “stampando soldi che non crescono sugli alberi” pur di contrastare la caduta dell’economia, far risalire l’inflazione, aumentare i consumi… Al punto che ieri Mario Draghi ha dovuto rispondere – per ora negativamente, “non ci sono le basi legali” – a giornalisti economici autorevolissimi che gli chiedevano se stesse contemplando anche l’ipotesi di “spargere denaro dagli elicotteri”, direttamente sui conti correnti dei cittadini europei, invece che solo sulle banche, come adesso.

Neanche noi pensiamo che la ricchezza si crei stampando denaro, ma se le massime autorità monetarie stanno girando intorno a questo dilemma vuol dire che “l’economia normale” – quella da cui mr. Mancino trae i suoi scarsi insegnamenti – ha smesso di funzionare. Da tempo, oltretutto. Quindi quel che appare “ovvio” in una certa costellazione diventa “stupido” in un’altra e viceversa. Significa che il sistema pensionistico europeo – non solo italiano – è sottoposto a una tempesta scatenata da crisi sistemica e decisioni politiche (i trattati europei, da Maastricht in poi), e non da “leggi economiche” presuntamente valide per ogni mondo o epoca. In particolare, non è assolutamente corrispondente a verità che ci siano “pesantissimi contributi previdenziali a carico dei giovani che oggi lavorano, e che però quei benefici non li vedranno mai”. O meglio, ci sono contributi versati oggi da persone che non riceveranno mai nulla indietro. Ma questo non dipende dai pensionati di oggi, ma dagli imprenditori di oggi. I “pesantissimi contributi” di cui ha esperienza mr. Mancino, infatti, sono niente altro che gli stessi contributi pagati da tutti i loro predecessori (le aliquote base non sono cambiate…). Certo, lui non li riavrà indietro, contrariamente a suo padre o a suo nonno. Ma per questo deve ringraziare Prodi-Berlusconi-D’Alema-Monti-Letta-Renzi, e in fondo l’Unione Europea. Lasci perdere i pensionati o gli esodati, sottoposti – come lui, del resto – alla legge e dunque all’arbitrio di questi signori.

Sfortuna vuole, infatti, che a chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995 è stato invece riservato il sistema contributivo, secondo il quale si riceve quanto si è versato: non un centesimo di più.

Ma per giustificare un trasferimento di denaro da una categoria all’altra bisogna almeno – per un’elementare questione di giustizia sociale – dimostrare che è chi sta peggio a ricevere i soldi. Altrimenti sarebbe la versione inversa di Robin Hood.
Eppure, secondo le statistiche raccolte dalla Banca d’Italia, sono proprio i trentenni il gruppo sociale ad aver pagato il conto più salato – e persino da prima che cominciasse la crisi. Innanzi tutto se contiamo quanto guadagnano: tanto che il reddito relativo degli under 35 non fa che calare dal 1995, e nel 2012 raggiunge il minimo storico.

Viceversa, lo stato sociale ha protetto il reddito di chi ha più di 55 anni. Così, nel tempo, il modo il modo in cui la torta degli stipendi viene divisa fra gli italiani è cambiato in modo radicale: oggi la fetta più grande va di gran lunga alle generazioni più mature mentre in passato la differenza era assai minore.

Se poi guardiamo alla ricchezza l’aumento della disuguaglianza è ancora più forte. Rispetto al 2008, dove il “capofamiglia” ha fra 35 e 44 anni la ricchezza è diminuita di oltre 45mila euro, mentre per chi ha meno di 35 anni si è praticamente dimezzata.

Mr. Mancino è un osso duro. Anzi, è ridotto all’osso. Se dal 1995 in poi vale il sistema contributivo, anziché il retributivo, non è colpa della “sfortuna”, ma di un governo – quello di Lamberto Dini – che realizzò la prima delle “riforme delle pensioni” che hanno progressivamente abbassato il livello degli assegni erogati ed aumentato l’età del ritiro.

Il poveretto arriva comunque al dunque, ossia al livello del salario.”Il reddito relativo degli under 35 non fa che calare dal 1995, e nel 2012 raggiunge il minimo storico”. È verissimo, lo scriviamo da anni, a cadenza quasi quotidiana. Ma perché quel reddito cala? Secondo la vulgata confindustriale-governativa-boeriana – dunque anche secondo mr. Mancino – il reddito-salario degli under 35 scende perché i contributi Inps sono diventati più alti. Secondo tutti i dati – Istat e non solo – sono invece calati i salari. Ossia gli imprenditori pagano meno e ci sono orde di lavoratori – giovani e meno giovani – disposti a lavorare per meno soldi. Le aliquote contributive (la percentuale di salario che finisce in contributi) non sono invece cambiate nemmeno di un centesimo percentuale. Mr. Mancino, insomma, paga in percentuale esattamente quanto suo padre (se il padre aveva la stessa aliquota).

Purtroppo il suo stipendio è bassissimo, ne siamo certi. Purtroppo non basta per vivere, ne siamo sicuri. Ma per questo dovrebbe organizzarsi e lottare collettivamente, come fecero padri e nonni, invece di rompere i cabbasisi ai medesimi per trovare una ragione della sua insussistenza contrattuale.

Il bello è che mr. Mancino ha accesso ai dati. Quindi può vedere – lo scrive, addirittura! – che “Rispetto al 2008, dove il “capofamiglia” ha fra 35 e 44 anni la ricchezza è diminuita di oltre 45mila euro, mentre per chi ha meno di 35 anni si è praticamente dimezzata”.

Avete letto bene? Il reddito medio annuale, dall’inizio della crisi, è diminuito per tutte le fasce di reddito. Di più per quelli giovani (colpiti duramente dal “pacchetto Treu” e dalla “legge 30”, ed ora anche dal Jobs Act), poco di meno per quelli più maturi.

Di chi è la colpa, se guadagni meno? Di quello che ti abbassa il salario (a parità di aliquote contributive) oppure del pensionato povero cui, in teoria, dovrebbero arrivare i tuoi (pochi) contributi?

Domanda difficile, lo sappiamo, per mr. Mancino e i suoi maître à penser. E infatti…

 

L’unico gruppo per cui è rimasta immutata, in effetti, è proprio quello degli over 65. Né si può dire che, per esempio, tanto poi i genitori o i nonni comprano la casa ai figli, quindi comunque il problema non si pone. In primo luogo perché per chi ha meno di 35 anni il valore mediano degli immobili posseduti ha raggiunto nel 2012 un tondo e poco consolante 0 euro – anch’esso in calo – quindi di queste case nei numeri non se ne vede traccia.
Ma anche se fosse, è difficile capire perché i giovani non debbano essere messi in condizione di farsi strada da soli – come succede nel resto del mondo, come del resto è stato per i loro genitori – piuttosto che dipendere per sempre dalla paghetta della famiglia.

Il senso dell’intervento, nelle intenzioni di chi lo propone, sarebbe quello di far andare in pensioni prima lavoratori anziani così da “fare spazio” a quelli più giovani, per i quali il problema del lavoro resta pesantissimo – quella che viene chiamata di solito “staffetta generazionale”.
Tuttavia non c’è alcuna prova che far lavorare meno gli uni porti vantaggi agli altri. Semmai pare vero l’opposto: in Europa dove c’è più lavoro per le generazioni precedenti anche i giovani hanno maggiori opportunità. In piccolo lo si vede anche in Italia.
Nel 2014, in Sicilia, fra le persone fra 55 e 64 anni lavora soltanto poco più di una su tre. Una pacchia per i giovani, allora? Non esattamente, anzi si tratta della regione con il tasso di occupazione minore per i 15-24enni.
Il contrario succede a Bolzano, dove invece oltre la metà dei lavoratori “maturi” è ancora occupata e, allo stesso tempo, i giovani lavorano più spesso che in qualunque altra regione italiana.
In generale, ovunque si cerchi in Europa, va sempre così. Che sia in Germania o nel Regno Unito, oppure c’è il caso opposto della Spagna – altro paese dove i 55-64enni che lavorano tendono a essere pochi, e che soffre anch’essa di un grave problema di occupazione per i giovani.

Cosa fare, allora? Un suggerimento arriva da Tito Boeri, accademico e presidente dell’INPS. Prima di cambiare misteriosamente opinione – oggi è anche lui fra chi propone la staffetta generazionale – scriveva che “la sostituibilità tra lavoratori giovani e anziani proprio non esiste. Sarebbe dunque utile abbandonare questa logica.

Alla fine l’ignoranza si tramuta in malafede. “Né si può dire che, per esempio, tanto poi i genitori o i nonni comprano la casa ai figli, quindi comunque il problema non si pone”. Dovrebbe essere scontato per chiunque che l’immortalità non pertiene all’essere umano. Quindi che “comunque” i figli e i nipoti erediteranno la casa dagli avi. Quindi il presunto “zero” nella casella delle proprietà immobiliari si tradurrà – presto, si tranquillizzi mr. Mancino – in un “più di zero”. A voler essere precisi, oltretutto, c’è il dato – questo sì – generazionale per cui le generazioni che sono andate o stanno per andare in pensione (quelle che hanno fatto il ’68 e il ’77) sono anche quelle che hanno fatto meno figli pro capite; al massimo uno o due, spesso nessuno.

Cosa significa? Che molti giovani attualmente precari, si sentano oppure no “millennials”, si troveranno presto proprietari-ereditieri di uno o più immobili (la casa in città, quella al mare o in campagna, quella del paese da cui sono emigrati gli avi, ecc). Purtroppo per questi giovani, ci sarà poco da scorazzare avanti e indietro tra le varie proprietà. La loro condizione salariale è e sarà (salvo sorprese conflittuali, ma aspre) così disperante da costringerli a vendere qualcosa o anche tutto. Lo faranno, poveri loro, tutti insieme. Questo abbasserà notevolmente i prezzi delle case, a tutto beneficio della speculazione immobiliare – parliamo ormai di arabi, americani, cinesi e russi, mica più dei palazzinari costretti a candidarsi al Comune in prima persona – che potrà così scegliere fior da fiore pagando un prezzo minimo.

Il povero mr. Mancino arriva persino a sapere che “non c’è alcuna prova che far lavorare meno gli uni (gli anziani) porti vantaggi agli altri (i giovani)”, ossia che è l’economia e non i contributi previdenziali a generare occupazione, salario decente, reddito per tutti. Ma ormai si è infognato nell’ideologia liberista e quindi non può uscire dal giochino fesso che contrappone vecchi e giovani (come se davvero i soldi fossero un dato fisso “naturale” e si trattasse solo di decidere a chi vanno). Neanche l’esempio spagnolo, che pure cita, dove i vecchi al lavoro sono pochi ma la disoccupazione giovanile è altissima, lo smuove dalle sue credenze.

Alla fine – in mancanza di argomenti migliori – è costretto a professarsi “boeriano” integralista. Citandolo come unico salvatore della patria possibile. O almeno dei “ggiòvani”. E a pretendere – in un sussulto d’orgoglio – di non essere annoverato tra i “bamboccioni”.

Si rassicuri. Sappiamo bene che nelle nuove generazioni ci sono grandi promesse, persone normali e anche qualche fiancheggiatore del potente del momento. In quale categoria si riconosce, mr. Mancino?

Chiudiamo qui con un’ultima notazione. Ci sembra sorprendente, o indicativo, che mr. Mancino non nomini affatto la fetta più grande e preoccupante della giovani generazioni: i neet, ossia quelli che ormai non studiano, non lavorano e nemmeno cercano un lavoro.

Tutto preso dai “millennial” che lavorano tanto e prendono poco a causa – secondo lui – dei contributi previdenziali, si è dimenticato della maggioranza di questa generazione che rischia di perdersi.

E così ci torna alla mente che la vera linea di confine passa pur sempre tra le classi, non tra le generazioni. Persino quando l’appartenenza alla classe più elevata – come nel caso di mr. Mancino – è ancora solo un’aspirazione, più che una condizione reale.

Nulla di grave. Potrebbe capitare prima o poi anche a lui di incontrare qualche giovane neet con una più chiara visione di come è organizzata la distribuzione attuale dei redditi. La rissa che ne seguirebbe sarebbe piuttosto chiarificatrice…

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4 Commenti


  • Pietro

    Prima, esaustiva analisi della truffa generazionale. Bravissimi. Ho sempre pensato tutto questo dal 2011. Solo su boeri, ritengo la sua proposta complessiva di riforma (non le parole estrapolate) degna di analisi.


  • Herbert Sciamenna

    Questo articolo è un immenso flame, inutile davvero commentarlo. Di fatto i pensionati oggi vivono per la maggior parte dei contributi versati da chi lavora e non di quelli maturati dal proprio lavoro. Agevolare ancora le pensioni va com’è ovvio a scapito di chi oggi lavora, ancora una volta.. E pensare di aumentare la previdenza invece di abbassare le tasse è ovviamente l’ennesima presa per i fondelli , una pia illusione di poter così creare posti di lavoro. I posti di lavoro si agevolano abbassando il costo del lavoro e la pressione fiscale su lavoratori e imprese. La pensione non è beneficenza, ma è ciò che si raccoglie dopo aver seminato. Ma che ne parliamo a fare..


  • vincenzo

    Due commenti all’articolo: Pietro non ha capito un c….o; Herbert ha capito benissimo e sta dall’altra parte. A che serve Contropiano se questi sono poi i commentatori? Nel merito solo un rilievo: il raffronto con la Germania sull’incidenza delle pensioni sul pil, oltre a quanto giustamente osservato, non tiene conto del fatto che le pensioni in Italia sono al lordo delle ritenute mentre in Germania sono al netto.


  • Redazione Contropiano

    Caro Herbert, è difficile – o inutile – commentare i luoghi comuni copincollati da Giavazzi e Alesina. E solo con quei luoghi comuni in testa si può scrivere una falsità come “Agevolare ancora le pensioni va com’è ovvio a scapito di chi oggi lavora”. Agevolare che? dopo venti anni esatti dalla prima “riforma” (Dini) è stato tutto un progressivo massacro. Allora si andava in pensione con 35 anni di contributi, oggi con 42 (e non sempre bastano); allora si poteva uscire a 57 anni, oggi a 67 e 6 mesi…
    Appunto: ma che ne parliamo a fare….

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