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Intrigo di spioni in Italia. Seimila schedati. Divieto a procedere da parte degli Usa

Mentre i bevitori/veicolatori delle bufale dell’ex vicepresidente statunitense Joe Biden sulle ingerenze “russe” continuano a non produrre nessun riscontro, da altri lidi e altre vicende emerge un intrigo cybespionistico di estrema gravità.

In Italia sarebbero oltre tre milioni e mezzo le mail “carpite” e ben seimila le persone spiate dal 2004. Il pm Eugenio Albamonte ha reso noto di aver avviato un procedimento stralcio, ipotizzando il reato di spionaggio politico (articolo 256 del codice penale, che punisce fino a 10 anni chi procaccia notizie concernenti la sicurezza dello Stato) sulla base di una informativa messa a disposizione del tribunale e redatta dagli specialisti della Polizia Postale – con la collaborazione fornita dall’Fbi – sono riusciti a sbloccare i server utilizzati negli Usa dai due fratelli Occhionero e ricostruire l’intera rete creata su almeno 9 computer riconducibili agli ai due fratelli. Giulio e Francesca Maria Occhionero, sono gia’ a processo con l’accusa di aver avviato una attivita’ di cyber spionaggio su larga scala, ai quali adesso la Procura contesta anche l’accusa di spionaggio politico.

L’inchiesta sugli episodi di hackeraggio compiuti dai fratelli Occhionero, non ha mai completamente chiarito, con quali fini i due fratelli carpissero dati: venne ipotizzato che volessero fornire informazioni su appalti, o investire in borsa, o forse accumulare una serie di dati sensibili legati alla sfera personale di personalità che un giorno avrebbero utilizzato in altro modo. Gli investigatori hanno accertato che i due gestivano una rete di computer (botnet), infettati con un malware chiamato ‘Eyepyramid’. L’inchiesta è partita dalla segnalazione al Cnaipic dell’invio di una mail, arrivata all’Enav, che conteneva il virus in questione, il cui codice di acquisto rimandava a Giulio Occhionero.

Ma quello di spiare la gente rubandogli mail e intrufolandosi nei loro computer, non è una prerogativa solo dei due fratelli oggi sotto processo. In un’altra vicenda che attiene una società italiana con forti entrature nei servizi di intelligence, è entrato anche un cittadino statunitense di 30 anni, di origine iraniana, Fariborz Davachi, residente a Nashville, nel Tennessee e che ufficialmente risultava venditore di automobili tra la fine 2014 e l’inizio 2015, e che era stato prima a Teheran e poi a Roma. Di questo parla ampiamente il Corriere della Sera.

Il cittadino statunitense sembra che sia il finanziatore dei sistemi informatici utilizzati nel 2015 per rubare alla società milanese Hacking Team il prezioso e segretissimo codice sorgente del programma di intercettazione telematico “Galileo”, molto utilizzato dai servizi segreti, dagli apparati di polizia italiani e dalle polizie di mezzo mondo, inclusi paesi che certo non brillano per il rispetto dei diritti democratici.

I magistrati milanesi che indagano sulla vicenda, si sono visti frapporre una barriera insormontabile da parte dei servizi di sicurezza statunitensi alla richiesta di estrazione dell’uomo.

Nei mesi scorsi, con estrema riservatezza, i magistrati della Procura di Milano avevano ottenuto un mandato d’arresto per l’americano, ma lo hanno dovuto revocare e chiedere l’archiviazione per impossibilità di sostenere il processo dopo che il Dipartimento di Stato americano ha comunicato che non consegnerà all’Italia i contenuti dei computer sequestrati in estate dagli agenti Fbi su rogatoria.

I codici segreti rubati alla società Hacking Team nella notte del 6 luglio 2015 compaiono su un server tedesco in cui si mescolano 530 indirizzi IP tra utenti veri o inventati. La polizia postale seguì la pista di  uno dei 530 indirizzi IP, che aveva raggiunto anche un server in Olanda dal quale risultava sferrata l’intrusione informatica all’archivio milanese di Hacking Team. Si è scoperto così che a sua volta il server della società olandese era stato affittato da una connessione anonima (Tor) che aveva pagato l’affitto in Bitcoin.  I magistrati italiani chiesero una rogatoria agli Usa sulla società americana che risultava aver venduto la criptovaluta usata dall’anonimo per affittare il server olandese che aveva hackerato la società Hackin Team, scoprendo però che il proprietario si era stabilito… in Uganda. Seguendo però la pista  dei bitcoin avevano scoperto che erano stati, a loro volta, comprati con i resti di alcune scratch card, carte prepagate spedite a un indirizzo newyorkese di Central Park, presso la casa di una attivista dei diritti civili. Su 20 scratch card dell’attivista, 19 sono neutre, una invece (regalata alla nipote) risulta essere stata spesa da qualcuno (probabilmente amico della nipote ma a insaputa della nipote) per comprare online il servizio di anonimizzazione che, abbinato a una mail di un gestore brasiliano, era poi stato usato per affittare il server olandese dell’attacco ad HT. L’esame incrociato di spese, ricariche e resti consente di ricondurre l’uso di quella scratch card al portafoglio Bitcoin di Fariborz Davachi, l’iraniano-amerikano, appunto.

Agli agenti Fbi che lo interrogano l’hacker ammette di aver comprato le scratch card ma dice di non essere stato lui a usarle, asserendo di averle cedute a persone che sostiene però di non sapere identificare a causa di problemi di droga. Eppure, nonostante questa bizzarra spiegazione, gli Stati Uniti non consegnano all’Italia i suoi computer, perché il Dipartimento di Stato mette una lapide sula questione con una nota nella quale garantisce unilateralmente che non ci sono ragioni per ritenere che quei pc contengano notizie utili per le indagini della magistratura italiana.

Il processo è così finito ancora prima ancora di iniziarlo. Per la legge italiana, infatti, per contestare all’amerikano il concorso materiale nel reato di «accesso abusivo a sistema informatico», occorre la prova della consapevolezza che i mezzi da lui pagati sarebbero poi stati usati da terzi per commettere proprio quel reato. Ma l’impossibilità di disporre dei contenuti dei computer dell’indagato, a causa del divieto imposto dalle autorità statunitensi, rende impossibile la prova del dolo e insostenibile in partenza il processo. Lo stesso processo per cui sono state archiviate, perché ritenuti estranei all’attacco, gli iniziali indagati Mostapha Maanna, Guido Landi e Alberto Pelliccione cioè gli ex collaboratori del titolare della Hacking Team David Vincenzetti.

Ma tornando alla vicenda iniziale dello spionaggio dei fratelli Occchionero in Italia, non sarebbe il caso di sapere e far sapere chi sono le seimila persone che sono state spiate dai sistemi informatici dei due fratelli che, secondo alcune fonti, collaboravano con la Cia? C’è qualche parlamentare o ex parlamentare che ha voglia di andare a fare qualche domanda in Procura?

 

 

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1 Commento


  • Maurizio

    Per difendere la nostra privacy cosa possiamo fare?

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