A novembre si sono svolte le elezioni per il rinnovo dei Consigli di Istituto in scadenza.
Si tratta di un organo di controllo e di indirizzo molto importante, che non ha solo il compito di contribuire alla valorizzazione dell’offerta formativa, ma anche quello di tutelare la scuola della Repubblica da pericoli vecchi e nuovi.
Da alcuni anni, infatti, il problema non è più quello della concorrenza tra scuola pubblica e scuola privata, ma si è radicalizzato il conflitto tra cultura democratica e cultura privatistica all’interno delle stesse istituzioni educative dello Stato.
Nel destino degli insegnanti italiani l’autonomia e alcune pieghe contrattuali hanno gradualmente prosciugato le risorse reddituali, offrendo modesti residui di pubblici finanziamenti, con fondi destinati alle singole scuole, facili da acquisire soltanto a costo di una mutazione quasi antropologica dell’insegnante.
Occorre essere onesti e ammetterlo: studio e approfondimento scivolano ineluttabilmente in secondo piano. Si corre disperatamente verso la fonte di ristoro: si accumulano incarichi, ci si contendono i vari bonus, le porzioni di finanziamento d’ogni origine, si replicano e riproducono progetti la cui cifra cognitiva sta tutta nella compilazione ossessiva di logoranti format di progettazione.
Con quali fondi? Sempre più spesso ci si appella ai finanziamenti privati, cioè al contributo volontario delle famiglie, che sulla base delle disponibilità, contribuiscono più o meno consapevolmente alla competizione sleale tra aree geografiche, quartieri, e contesti patrimoniali.
Inevitabile la disparità di offerta formativa che ne deriva. Drammatica la lesione del diritto allo studio. Ma non si tratta solo di questo.
Recentemente un dirigente ministeriale mi ha fatto osservare che i docenti sbagliano a lamentarsi dei bassi salari, perché attingendo ai finanziamenti PON (Programma Operativo Nazionale, basato sull’erogazione di fondi europei), si possono richiamare presso la propria scuola importanti risorse.
E così l‘attività del docente si trasforma grado a grado in quella del professionista della progettazione, che diventa un ruolo assai ambito ma pure fortemente burocratizzato. Lo capisce anche un bambino: tempo ed energia degli esseri umani non sono illimitati. Ciò che dedichi a un’attività, lo sottrai inevitabilmente a un’altra. L’effetto è quello di risparmio per lo Stato, che già pochissimo investe per la formazione e la retribuzione dei propri educatori (e non riesce a promettere più di un aumento equivalente a 8 euro l’ora), ma anche di trasformazione strutturale delle dinamiche professionali.
Penso a un fenomeno recente: la mutazione palese, e a tratti spaventosa, avvenuta tra i gabbiani. Tanto affascinante è il gabbiano di mare, per molti simbolo di libertà, e così ripugnante appare la sua evoluzione metropolitana. Il mare è diventato poco pescoso, e il gabbiano è attratto da scarti di viveri d’altra specie, un veleno che ha finito per mutarne l’aspetto, le dimensioni, l’indole. Si contende quel facile cibo di scarto con altri volatili. L’uno cannibalizza l’altro, illudendosi d’aver conquistato il centro della metropoli.
Similmente, alcuni tra i nostri insegnanti sembrano spigolare le briciole di sistema. Il modo in cui si scambiano colpi sotto la cintura appare sempre più simile a quegli scontri tra volatili che siamo ormai abituati a vedere intorno ai bidoni dell’immondizia.
L’insegnante che tende al burocratismo, diffidente nei confronti dei colleghi, e sempre immerso in una logica di competizione, non potrà mai essere un modello educativo.
E nell’ottica della concorrenza – ahinoi! – vanno interpretate le nuove ipotesi sulla regionalizzazione dell’insegnamento o l’abolizione legale del valore del titolo di studio. Non lontane, dunque, per logica privatistica, alla perversione del RAV e delle politiche di marketing valutativo ed esperenziale oggi attivati dalle scuole.
Ma non è solo la necessità materiale che ha condotto molti docenti verso l’inizio della mutazione. Come per il gabbiano, che cerca spazio e autonomia nelle aree metropolitane, con una buona dose di orgogliosa spavalderia, emergono tra i docenti figure che rischiano di smarrire il profilo dell’intellettuale. È la sindrome impiegatizia, con tutto il rispetto degli impiegati, che burocratizza e svuota la vocazione pedagogica dell’insegnante.
Per la fortuna dei nostri studenti, i gabbiani di mare esistono ancora, e non vogliono perdere la loro libertà. Chiunque, guardandosi indietro, sente di aver perso un respiro e una profondità, cui aspirava in anni giovanili. È la vita, niente di strano. Occorre diventare adulti, ma non adulterare sé stessi. Bisogna saper cogliere quelle dinamiche di sistema che producono effetti trasformativi nell’ecologia sociale, devastando rapporti, culture, compiti educativi.
Comprendere è già un primo passo verso la scoperta di una nuova direzione, per ritrovare la strada del mare.
* da https://www.orizzontescuola.it/
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Marco
La strada tracciata è quella che obbiettivamente hai delineato tu. Il problema è che non vedo all’orizzonte, da parte di nessuno, alcuna intenzione di cambiarla, questa strada.