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Maschera e realtà intorno alla strage di Corinaldo

In Italia, quando c’è una duratura contraddizione tra potere e società, una strage fa sempre comodo. Permette di concentrare l’attenzione e l’emotività sociale su qualcos’altro, di riempire con altri argomenti le chiacchiere da bar o al mercato.

Nella storia del paese alcune stragi sono state ordite direttamente dallo Stato, ed eseguite da fascisti; altre volte da mafiosi, nel corso di una “trattativa” con lo stesso Stato. Qualche volta sono incidenti casuali, come quello della discoteca di Corinaldo.

In ogni caso fanno comodo, a chi sa come “trattarle”. Venti minuti di tg – sui 30 a disposizione – dedicati a poveri ragazzi per cui non è possibile non provare emozione. E intanto passano in cavalleria la grande manifestazione No Tav di Torino, le “lotte di classe in Francia”, il discorso di Mike Pompeo al German Marshall Fund (contro l’eurozona e l’”esercito europeo”, per militarizzare strategicamente il Mezzogiorno d’Italia), ecc.

Ma anche sulla tragedia dei ragazzi marchigiani viene inzuppato il biscotto della “narrazione tossica”, l’unica di cui sembrano ormai capaci i media nostrani, impossibilitati – per cultura giornalistica, abitudine al servilismo, povertà culturale, debolezza contrattuale, selezione all’ingresso nella professione – ad affrontare la durezza della realtà.

Ruolo dei media e realtà, in questo caso giovanile (anzi, adolescenziale), sono al centro di due delle riflessioni più stimolanti che ci sono state segnalate in questi giorni, e che spiccano sulla marea di paginate inutili buttate lì per “coprire la notizia”.

La prima, di Mario Di Vito, giornalista molto free che ospitiamo spesso sul nostro giornale e che ha scritto sull’argomento per il manifesto, prende di petto proprio i media (specie nel rapportarsi alla “questione giovanile”). Superficiali per costituzione genetica, “di scandalo in scandalo, di due giorni in due giorni”, rendendo così impossibile che una notizia sia più significativa di un’altra, che l’”indignazione perenne” si sedimenti in consapevolezza dell’ordine dei problemi da affrontare, delle responsabilità vere e di quelle solo “addebitate”.

Persino i pochi elementi certi – il numero dei biglietti venduti, lo spray urticante, l’eccesso di alcol in vendita nel locale (a minorenni!) – finiscono in un tritacarne da cui alla fine non si può individuare più nulla di rilevante. A cominciare dai gestori dei locali, che in altri articoli gli stessi media classificano tra gli “imprenditori”, tanto da avere anche un proprio rappresentante all’incontro al Viminale con Matteo Salvini (che evidentemente ritiene di aver assunto anche la delega allo “sviluppo economico”, in teoria in capo a Luigi Di Maio).

Il secondo contributo è forse ancora più interessante ed intrigante, perché arriva dall’interno di quel mondo – la musica Trap, l’uso di droghe tra gli adolescenti, le ragioni sociali profonde di certi comportamenti che terrorizzano un genitore o “schifano” un osservatore schizzinoso, ecc – in cui la strage è maturata.

Se lo leggete “in purezza di cuore” può essere addirittura illuminante. Perché restituisce, come uno specchio, l’immagine di noi stessi che nessuno gradisce vedere.

Non è un caso, a nostro parere, che entrambi i contributi inizino nelle stesso modo: “il problema”.

La realtà del presente è mascherata ad ogni istante, deformata e restituita – mediaticamente – come narrazione rassicurante o incubo terrorizzante. Due modalità che in ogni caso invitano a restar fermi, senza interrogarsi sul serio su di sé e sul mondo; due narrazioni che invitano a delegare ad altri soluzioni e responsabilità.

Perché quando la maschera è subito conflitto aperto tra popolo e potere: su come siamo costretti a vivere, a soffrire e morire. Perché quando la maschera cade è subito Francia, blocchi stradali, gilets jaune e assalto ai palazzi del potere. Come a Bruxelles, non per caso… Sullo stesso argomento, invitiamo alla lettura dell’intervento di Giampiero Laurenzano, che l’affronta da un’altra angolazione per noi decisiva.

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Mario Di Vito

Il problema non è chi scrive cazzate su Facebook e Twitter, ma chi lo fa sulle colonne dei più autorevoli (…) giornali dell’impero.
Oggi in molti sembrano avere le idee chiarissime su quello che è successo a Corinaldo, con tanto di indicazioni dettagliate su colpe e colpevoli. Io, da modesto cronista, ho osservato e cercato di capire e, in tutta onestà, ancora non ho un’opinione precisa. Sarà un limite mio, ed è per questo che in un certo senso nutro stima (e forse invidia) per chi è riuscito a farlo comodamente seduto in redazione o sul divano di casa.
Tuttavia, qualche dubbio mi resta. Questo Sfera Ebbasta non l’avevo mai sentito nominare fino a ieri, l’ho ascoltato e mi fa cagare, ma non penso che lui abbia una qualche responsabilità per quello che è accaduto, né biasimo i ragazzini che lo ascoltano e vanno ai suoi concerti. Ho avuto sedici anni anche io – forse, non ricordo di preciso quando, ma ce li ho avuti – e mi pare di ricordare che avevo la testa piena di cazzate che oggi definirei pericolose. Per esempio, mi piacevano molto i Noir Désir, il cui cantante poi avrebbe ammazzato di botte sua moglie. Oppure leggevo con inquietante interesse i vecchi volantini delle Brigate Rosse, condividendone le parti più intransigenti. A oggi, quindici anni dopo, non sono diventato un uxoricida né un terrorista.
[Ridete, o non ridete, ma a sedici anni eravate dei cretini anche voi]
A sedici anni andavo anche a qualche concerto, di solito in posti al di sotto degli standard minimi di igiene e sicurezza, e pure allora cominciavano di solito dopo l’una di notte. Sono sempre tornato vivo a casa, forse ho avuto culo, non lo so. So però che adesso a mezzanotte mi viene sonno e entrare in un locale con più di venti persone mi dà quasi fastidio.
Lo spray al peperoncino. Usarlo è una cazzata, usarlo in mezzo alla folla è un crimine. Anche qui, però, più che verso chi l’ha fatto indirizzerei la mia indignazione su chi rende questi attrezzi così facili da trovare e da comprare, e fa ridere che tra i più accesi accusatori ci sia un giornale (quello lì, Libero) che a 43.50 euro più il prezzo del quotidiano ti dà una pistola che spara peperoncino a 180 chilometri orari.
E pure la faccenda dei biglietti: sì, ne hanno venduti il doppio rispetto ai posti disponibili, è grave. Ma è vero pure che così fan tutti i locali italiani – non prendiamoci in giro – e le prefetture e i Comuni che stilano chilometrici regolamenti per il pubblico spettacolo non hanno mai avuto niente a che ridire (e l’hanno sempre saputo). Questo per dire che è facile, dopo, gridare allo scandalo, evitando di dire che però in più occasioni, prima, si è preferito chiudere un occhio, talvolta anche due.
Tutto questo per dire cosa? Che la cronaca è cronaca, siamo a una giornata dai fatti, c’è un’inchiesta in corso e sarebbe saggio aspettare prima di cominciare a sparare a zero. Perché farlo subito? Questa la so: perché tra due giorni già la storia di Corinaldo non sarà più una notizia e dovremo indignarci per un’altra cosa. E poi per un’altra. E poi per un’altra. E così via, di scandalo in scandalo, di due giorni in due giorni. Da soli nel paese che sembra una scarpa.

P.s.

Ah, infine su Corinaldo è venuto fuori che non erano stati venduti 1.400 biglietti, ma qualcosa meno di 700. Quindi non c’è stato quell’overbooking mostruoso al quale quasi tutti hanno attribuito la responsabilità dei sei morti e dei sessanta feriti.
Tutti i giornali hanno dunque scritto un’inesattezza bella grossa che ha condizionato forse irrimediabilmente il dibattito. Pur avendo messo tutti i condizionali di questo mondo, ho sbagliato anche io nei miei pezzi per il manifesto.
Accampo una scusa, nella speranza che sia valida o che almeno aiuti a capirci qualcosa di più: sicuramente tutti noi cronisti avremmo dovuto essere più diffidenti, ma quando una notizia (il numero di biglietti staccati) viene diffusa da carabinieri, procura, presidente del consiglio e ministro degli interni, è davvero difficile non sbagliare.
[Questo ricordatevelo anche quando vi straparleranno di fake news: i primi diffusori di cazzate, a quanto pare, sono le nostre istituzioni]

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Il problema non è Sfera, siete voi

Federico Leo Renzi

Ho studiato la Trap come fenomeno sociale, sia quella italiana che americana. Ho fatto delle interviste qualitative ai ragazzi che l’ascoltano, li ho frequentati, sono andato (sto andando) negli istituti superiori a parlarne, ho organizzato pure un paio di concerti per loro. Quindi ho qualche vaga nozione di quello che sto per scrivere.

L’ultimo problema che abbiamo in Italia (credo se la giochi alla pari con il terrapiattismo) è Sfera Ebbasta. Il ragazzotto in questione fa esattamente il mestiere per cui è pagato e seguito: racconta i conflitti, desideri, problemi della sua generazione e di quella seguente. Lo fa con un linguaggio (musicale e testuale) comprensibile al suo uditorio, linguaggio che non ha inventato lui, ma è una fusione delle serie tv, dei film, della musica pop e del gergo giovanile della sua generazione.

Lui non ha creato nulla, lo ha solo interpretato e reso visibile. E qui sta il vero problema, che non è suo né del suo uditorio, ma vostro. La realtà che vi sputa in faccia senza filtri non la capite, vi fa paura, vi sembra un incubo distopico. Codeina ed eroina sono tornate, circolano fra i ragazzi in quantità che non immaginate, a costi bassi nemmeno fossero brani scaricabili da Spotify.

Le ha diffuse la Trap? No, circolavano da tempo come sedativi contro l’ansia dell’isolamento sociale, del non avere futuro, dell’essere inchiodati nel circolo eterno di lavori precari e sottopagati. La Trap si limita a farvi vedere quanto sono presenti e pervasive.

Le ragazzine minorenni che vendono immagini/video porno per una ricarica da 10 euro del cell, che scopano con il ragazzo con più follower della scuola per poi postare una foto su Instagram e guadagnare 100 like in più, che si fanno chiamare troie e se ne vantano in opposizione al neobigottismo del politicamente corretto, non esistono perché ci hanno scritto delle barre Sfera o la Dark Polo Gang. Sono le sorelle povere e politicamente scorrette di Chiara Ferragni, la stessa che portate in palmo di mano come esempio di giovane imprenditrice di successo, innovatrice di marketing, donna consapevole ed emancipata.

Il motto “No way out” che è la bandiera della Trap, non l’hanno coniato Lil Peep o Ghali, ma è ripreso da un famoso discorso della Margaret Thatcher, in cui la premier di ferro inglese davanti alla macelleria sociale conseguenti alle riforme neoliberali sosteneva non ci fosse altra strada, altro mondo possibile, se non quello del tutti contro tutti per le ultime briciole del benessere. Voi questo discorso l’avete ripetuto fino alla nausea nelle scuole, nei media, nelle convention di marketing ed economia, che loro l’hanno interiorizzato, fatto diventare un’estetica e uno stile di vita.

Vi fa schifo vederli agghindati con rolex da 50.000 euro, Nike anni ’90 da 500 euro a botta, felpe Pyrex pagate 10 volte il loro prezzo di produzione? Chi ha inventato il feticismo del logo, il marketing che associa dei “valori” ad un brand aziendale, la delocalizzazione per aumentare i dividendi degli azionisti? Non certo loro, non erano nemmeno stati concepiti quando voi idolatravate MTV, celebravate i prodotti Apple come fossero rivelazioni divine, vi riempivate la bocca di delocalizzazione e abbattimento dei costi di produzione per favorire la ripresa del consumo.

Adesso vedete gli effetti incarnati di quello che predicavate (ma soprattutto praticavate ogni giorno, da 30 anni a questa parte) e vi fanno paura? Il problema non è di Sfera né dei ragazzini che lo ascoltano, ma vostro. Vi fanno ribrezzo perché sono voi senza le vostre menate buoniste, la vostra retorica dei veri sentimenti, il vostro moralismo da squali che piangono dopo aver divorato la preda? Nessuno ama guardarsi allo specchio, ma proprio per questo è necessario, e la musica pop è il più grande e fedele fra gli specchi.

Comunque la Trap non è un problema, anzi: permette un ponte fra le generazioni, di entrare nell’immaginario dei giovani e giovanissimi per capire il loro problemi e provare a dare loro una risposta, permette di avere un linguaggio condiviso per parlarci da pari a pari. Ma a voi capire e dare risposte ai loro problemi non interessa, non vi interessa nemmeno parlarci. Vi basta metterli in riga, farli stare zitti, nascondere sotto il tappeto le contraddizioni e la solitudine a cui li costringete. Non siete intellettuali, critici, insegnanti o educatori: siete l’ennesima incarnazione dell’eterno fariseo.

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