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Genesi, contagio e repressione delle rivolte carcerarie

Tredici detenuti morti, diciannove evasi, 6mila detenuti coinvolti nei disordini, 600 posti letto inagibili, danni stimati per 35 milioni di euro cui si aggiungono 150.000 euro di psicofarmaci rubati: questo il bilancio delle rivolte carcerarie scoppiate domenica a proseguite a singhiozzo in una cinquantina di istituti penitenziari italiani.

Per avere un’impressione di quello che può essere il carcere ai tempi di una pandemia basti leggere lo stato di agitazione per pericolo di contagio alla luce dell’impossibilità di autodeterminarsi nell’affrontare il pericolo in una situazione di oggettivo pericolo sanitario determinato dall’altissima concentrazione umana senza neppure poter contare sul supporto e conforto dei propri cari. Si aggiungano a queste condizioni le misure restrittive messe in campo per evitare il contagio da Covid-19 quali la sospensione delle attività delle scuole, dei permessi di lavoro, dei colloqui con i familiari e gli avvocati, e si ha la genesi della rivolta.

Non merita neppure commento la ridicola pista della “regia occulta proveniente dall’esterno”: teoria spacciata da giornali e politici per derubricare rivendicazioni legittime di soggetti che vivono in condizioni di totale deprivazione relegandole ad una manovra di arruolamento della malavita organizzata desiderosa di nuove braccia da arruolare.

In ogni caso, se è vero che le nuove restrizioni hanno certamente influito sulla reazione della popolazione detenuta non si cada nell’errore di sottostimare il contesto carcerario che rappresenta il volto più oscuro della democrazia borghese. Si tratta infatti di un sistema sovraffollato che contiene 61 mila persone a fronte di una capienza regolamentare di meno di 50 mila posti (addirittura alcuni istituti arrivano ad ospitare il 30% di persone in più rispetto alla loro capienza). Persone stipate in strutture fatiscenti e con carenza di spazi tali da riuscire a garantire quel minimo di vivibilità richiesto dalla legge tali da posizionare le nostre patrie galere all’ultimo posto nella classifica europea in perenne violazione delle normative vigenti in materia. A ciò si aggiungano le violenze esercitate in un sistema di ricatto che rende le informazioni sul tema sempre parziali ed omissive.

A proposito di violenze poliziesche, il bilancio dei morti ammonta a 12 detenuti. Già alla prima notizia relativa ai decessi era legittimo iniziare a chiedersi a quale attacco epilettico sarebbero stati addebitati. Ed infatti la ricostruzione ufficiale non è tardata ad arrivare: overdose da metadone e altri farmaci. Ci sembra legittimo dubitare di tale ricostruzione visti i pregressi (Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, e Giuseppe Uva, solo per citare i più tristemente celebri) ma anche qualora dovesse risultare che le morti siano effettivamente state causate da overdose da farmaci, dodici persone sarebbero state così disperate e tossicodipendenti da approfittare dei tumulti per assaltare l’infermeria del carcere e bersi metadone o altra sostanza fino a morirne.

Ora risulta tornata una calma apparente, ma le rivolte hanno reso finalmente visibile ai più uno spaccato della popolazione carceraria: solo i reclusi dell’istituto penitenziario di Modena prima delle proteste era il 35% tossicodipendente e il 55% in osservazione psichiatrica benché in assenza di un’articolazione per la salute mentale.

Per far fronte alle richieste sono state messe in campo l’uso della posta elettronica nella comunicazione tra detenuti e familiari, nonché l’uso Skype per le lezioni scolastiche e universitarie in videoconferenza e per lo svolgimento degli esami e dei colloqui tra docenti e studenti reclusi. A cui si vanno ad aggiungere le risibili distribuzioni di tamponi e mascherine.

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