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Le periferie di New York e le nostre (che Saviano ignora)

Sono giorni molto particolari, quelli che stiamo vivendo oggi: in Italia dopo la grande paura collettiva ed il lockdown si prova, tra mille cautele, a riprendere con la vita “normale”. Una normalità che sembra però diventata una chimera, in una realtà diventata ancora più cruda di quanto fosse prima.

Questo con sullo sfondo uno scenario internazionale in continuo mutamento, dove irrompono con forza le proteste negli Stati uniti a seguito dell’ennesimo assassinio per mano poliziesca di un afroamericano.

La morte di George Floyd, avvenuta durante un arresto nella città di Minneapolis, è solo l’ultima di una lunga e triste storia che comincia con le deportazioni degli africani verso il continente americano.

Sappiamo benissimo che la segregazione razziale non è finita con l’abolizione della schiavitù: i grandi proprietari erano sempre lì, pronti ad infilarsi cappucci bianchi o neri e ad appendere per il collo i loro ex schiavi alla luce di croci fiammeggianti.

Alla segregazione si accoppia il classismo di una società basata sulla competizione. Gli Stati uniti hanno costruito la propria fortuna a scapito degli “altri” meno dotati militarmente ed economicamente; se poi la pelle è anche di un altro colore meglio ancora, il destino manifesto dell’uomo bianco è di dominare indiani, neri e latinos.

Con la crisi sociale causata dall’epidemia, però, queste contraddizioni secolari degli States vengono a galla e si esplicitano in un movimento variegato e complesso, giustamente anche violento ed incazzato dopo secoli di oppressione.

E qui scatta il “riflesso d’ordine” che distingue progressisti (che perseguono o comunque accettano i cambiamenti) e conservatori (nascosti spesso dietro la maschera della “legalità”).

Nelle ultime ore, per esempio, su la Repubblica è comparso un articolo di Roberto Saviano che si scaglia contro i saccheggiatori di New York, dove lo scrittore vive da tempo.

Sono righe che sanno davvero tanto di vecchio e stantio. Nel suo racconto manifestamente scritto affacciato a una finestra dei piani alti, ci sono i manifestanti “buoni” e quelli “cattivi”, la grande maggioranza pacifica e i pochi saccheggiatori criminali che fanno gli interessi del “potere”. Una narrazione tossica, ben conosciuta a chi frequenta i movimenti:

Saviano si concentra sulla “5th avenue”, a Soho, la via dello shopping e delle grandi marche: per lui i looter (saccheggiatori) sono mossi solo da avidità e voglia di accedere a merci cool, come le Nike o i Rolex. Non ha mai parlato con uno di loro, ma attribuisce a quella gente l’identità che fa comodo a lui e quelli come lui.

Un passaggio che mi ha colpito: prima di andare a vivere negli Stati Uniti Saviano non concepiva cosa fosse la paura della polizia. E questo a causa del lungo elenco degli afroamericani uccisi. Benissimo, è legittimo, per uno straniero appena arrivato.

Ma viene da chiedersi dove abbia vissuto Saviano prima di trasferirsi oltreoceano: quanto messo nero su bianco dallo scrittore partenopeo è di una pericolosità che forse lui stesso non comprende.

Saviano non viveva forse nello stesso Paese di Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi? O di Giuseppe Uva? O di Davide Bifolco? Di quest’ultimo Saviano dovrebbe conoscere peraltro bene sia la città che il contesto.

Forze armate e di polizia in Italia hanno una storia che parla soprattutto di colonialismo interno: non è un caso se ci sono tanti militari sardi, tanti carabinieri campani e tanti marinai pugliesi. La divisa in Italia significa soprattutto stipendio, e viene sempre utilizzata contro il disagio sociale.

Abbiamo imparato a nostre spese ad aver “paura” di polizia e carabinieri: capelli troppo lunghi, jeans troppo strappati, tatuaggi troppo in vista e nella testa di chi ti controlla sei automaticamente uno spacciatore (o un sovversivo, fa lo stesso).

Tra i sedici e i venti anni rischiare di essere perquisito è sempre stata la normalità, così come lo è per migliaia di giovani in tutta Italia. Perché, anche se si sostiene di essere “puliti”, «dalla faccia non sembra», per usare un’espressione ricorrente.

È questa la società che Saviano difende con le sue parole, la sciando sottintendere che “in Italia non succede”. Ma ai giovani di Tor Bella Monaca o dello Zen, che solo per essere nati in quei quartieri conoscono perfettamente la paura della polizia, che risposte dà quella società difesa da Saviano?

Se questi giovani scendessero in piazza e iniziassero a spaccare le vetrine di Nike e Rolex per impadronirsi della merce, probabilmente il “famoso scrittore” direbbe la stessa cosa che dice dei loro coetanei nordamericani: che lo fanno per accedere a merci cool, per vestirsi “fichi”.

Se lui vede un gesto avido e controproducente dalle vetrine distrutte sulla “5a strada”, chi conosce la vita della periferia non può che vederci un grido di libertà, stavolta reale, da parte di un popolo sfinito.

Ci hanno raccontato che tramite il “libero mercato” avremmo potuto avere tutto, ma purtroppo avevamo già le ginocchia del classismo a premere sul nostro collo.

È l’ora, almeno negli Usa, di invertire le priorità  e di andare a prendersi quel tutto. Con ogni mezzo necessario.

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