È appena iniziato un nuovo anno scolastico, decisamente il più difficile. Anche se ogni anno, probabilmente, si potrebbe dire lo stesso, perché da ormai vent’anni l’istruzione pubblica subisce tagli di bilancio ingenti da parte di qualsiasi Governo in carica.
Se le sforbiciate all’istruzione hanno conosciuto una forte accelerazione dal 2008 (riforma Gelmini-Tremonti), lo stravolgimento della scuola si è iniziato a delineare con la riforma Berlinguer del 2000, che ha dato inizio al processo di progressiva aziendalizzazione dell’istruzione.
Certo, la scuola non è l’unica vittima dell’austerità, che ha massacrato sistematicamente l’intero settore pubblico, ormai allo stremo e sottorganico nella maggioranza dei suoi comparti. Tanto per citarne uno, l’esperienza del Coronavirus ci ha mostrato come la sanità si arrivata vicina al collasso nei mesi più duri della pandemia, rivelando a tutti la fragilità del sistema e l’effetto nefasto dei tagli degli ultimi anni.
Come se non bastasse, sul sistema educativo si pratica pure un esercizio retorico di rara ipocrisia, continuando a dichiarare che l’Italia potrà riparte solo con la scuola. Alle parole, tuttavia, non seguono i fatti.
In questi mesi, si sono viste infatti tutte le difficoltà che l’istruzione, dall’infanzia fino all’Università, ha dovuto fronteggiare. Mancanza di professori, insufficienza di aule, impossibilità di offrire a tutti gli studenti le lezioni a distanza, e così via. D’altronde, che la scuola fosse in grave sofferenza si sapeva da tempo. La citata riforma Gelmini tagliò in soli 3 anni – dal 2008 al 2011 – più di 8 miliardi di euro in termini di spesa per l’istruzione, con una tragica conseguenza sull’occupazione: 81.120 cattedre e 44.500 personale non docente (ATA) in meno.
Da allora, non è cambiato l’orientamento politico sull’istruzione. I tagli sono stati continui, basti pensare che nel 2009 si spendevano quasi 72 miliardi di euro nel settore scolastico, a fronte dei 66 del 2017. Tagli che hanno riguardato, ovviamente, non soltanto il personale ma anche la chiusura di moltissime strutture scolastiche, costringendo studenti ed insegnanti dentro ignobili classi-pollaio.
E, guarda caso, ora che si impone un distanziamento minimo tra gli studenti, si denuncia la mancanza di aule. Così la Ministra dell’Istruzione Azzolina ha proposto di utilizzare 3000 edifici dismessi ma che, ormai in stato di abbandono, non rispettano le normali condizioni di sicurezza.
Le conseguenze delle politiche di austerità (per intenderci, dei tagli) si riflettono non soltanto nei livelli occupazionali, ma anche nelle tipologie contrattuali di docenti e personale tecnico e amministrativo. I tagli all’istruzione hanno reso sempre più precario il mestiere dell’insegnante, ingrossando le fila dell’esercito dei supplenti e diminuendo quelli di ruolo.
Soltanto negli ultimi sei anni, si registra una riduzione di quasi 200.000 tra docenti e ATA a fronte di un aumento di personale con contratti a tempo determinato per l’ordinario funzionamento: nell’anno scolastico 2013-2014 i docenti precari erano 137.000, mentre nel 2020-2021 saranno più di 200.000. In parole povere, si riduce il personale complessivamente impiegato, e lo si rende più fragile.
La precarietà nell’insegnamento significa, peraltro, anche un danno al percorso educativo delle giovani generazioni, costrette a subire una continua alternanza nei docenti precari, che destabilizza la programmazione della didattica e mina la continuità della formazione.
Eppure, al peggio sembra non esserci mai fine. Mentre affannosamente cercava di mettere pezze ad una situazione dai toni drammatici, tra mascherine che non si trovano e banchi singoli che non sono ancora arrivati, la Azzolina annunciava trionfalmente, alla fine di agosto, che grazie alle risorse stanziate per l’emergenza ci saranno oltre 70mila unità di organico in più per la ripartenza tra docenti e ATA.
Se la pandemia è stata una tragedia sotto mille aspetti, a prima vista sembrava almeno aver suonato l’allarme sull’importanza di certi settori, tra cui la scuola, col Governo che pareva intenzionato a ovviare alle carenze di personale tramite l’assunzione di migliaia di nuovi lavoratori dell’istruzione.
Tutto bene sembrerebbe. Peccato che si tratti semplicemente di carne mandata al macello, precari da spremere nel momento della necessità per poi essere rigettati nel mare nero della disoccupazione e della precarietà, una volta passata la tempesta. Tra i nuovi incarichi, infatti, 40.000 sono riservati a docenti supplenti, che hanno ben poco da festeggiare.
Proprio in questi giorni si è tornati a discutere dell’ignobile clausola Covid prevista nel decreto Rilancio per i contratti di questi supplenti. In pratica, se l’istituto chiude e le attività didattiche in presenza sono sospese causa Covid, il contratto di lavoro a tempo determinato si interrompe, il docente precario a cui era stata assegnata la supplenza viene licenziato ‘per giusta causa’ e senza diritto ad alcun indennizzo.
Oltre a danneggiare il docente-lavoratore, privato di qualsiasi dignità, la clausola danneggia anche gli studenti, perché in caso di interruzione della didattica in presenza questa dovrà essere portata avanti a distanza.
Il Governo sottovaluta enormemente lo sforzo che serve a tradurre la didattica ordinaria (le lezioni frontali) in didattica a distanza: quest’ultima comporta cambiamenti significativi rispetto alla didattica tradizionale, tra cui un apporto del docente a termine (il supplente) che diventerebbe fondamentale considerando le competenze digitali che questa trasformazione comporta e la giovane età (in media) degli insegnanti precari.
Dunque, lo Stato coltiva il sogno di tutti i padroni: liberare la classe lavoratrice di ogni possibile tutela. Non solo sei precario perché il tuo lavoro, se tutto va bene, finisce a giugno ma, se dovesse andare male, finisce all’istante e senza un briciolo di indennizzo.
Del resto, lo smantellamento dei servizi pubblici più essenziali e la precarizzazione del lavoro pubblico rispondono ad un disegno ben preciso plasmato dalle politiche liberiste di austerità attuate in modo continuativo da trent’anni.
Tagliare la spesa pubblica e allo stesso tempo depotenziare diritti e protezioni sociali per i cittadini e i lavoratori del settore pubblico significa incrementare direttamente o indirettamente povertà, precariato e disoccupazione dentro e fuori dal settore pubblico.
Questi mali rappresentano il miglior carburante per una caduta generale dei salari nel complesso dell’economia dal momento che i lavoratori saranno indotti dalle peggiori condizioni di vita e dalla mancanza di alternative sul mercato del lavoro ad accettare condizioni sempre più miserabili. Immaginate come gongola la classe imprenditoriale italiana.
Storicamente, il settore pubblico rappresenta infatti un punto di riferimento in termini di diritti e retribuzioni del lavoro: ogni volta che si attaccano i diritti dei lavoratori della scuola e della sanità si lancia un messaggio alle imprese, che rischia di diventare una tendenza generalizzata anche nel settore privato. E non può rappresentare un alibi per lo Stato la situazione di emergenza causata dalla pandemia.
Perché lo Stato, nel momento di crisi, dovrebbe essere ancora più presente per far fronte alle necessità della popolazione e invece ne approfitta per dare un’ulteriore mazzata ai diritti dei lavoratori, già ridotti al lumicino dopo le diverse riforme del lavoro che si sono succedute in Italia negli ultimi trenta anni.
L’istruzione pubblica e la sanità pubblica rappresentano lo strumento che le classi più povere possono brandire per ottenere sensibili miglioramenti delle loro condizioni sociali. Non è dunque un caso che questi settori siano tra quelli maggiormente colpiti dalle politiche di austerità, tanto care all’Unione Europea, che impone l’austerità proprio per addomesticare la classe lavoratrice, mantenendo elevati livelli di disoccupazione e precarietà.
Una società sempre più fondata sulle disuguaglianze non ha bisogno di un sistema educativo universale e qualificato, anzi, ha bisogno di un sistema selettivo e classista. A tale scopo, buona parte degli attuali docenti devono essere tenuti ai margini del sistema per alimentare quell’esercito di disoccupati e precari pronti ad offrirsi sul mercato del lavoro pur di arrivare a fine mese.
Un meccanismo che muove dalle istituzioni europee e danneggia i lavoratori docenti ma anche gli studenti, a vantaggio dei soli profitti. Un meccanismo che andrebbe messo in discussione alle sue radici.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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