La/il neopresidente del Consiglio Giorgia Meloni ha presentato il suo governo alla Camera con un discorso di poco più di un’ora.
Il tono deciso e gli sguardi in tralice hanno caratterizzato i tratti salienti del discorso e del programma del suo governo, un discorso sicuramente emozionato, meno imbalsamato di quello dei suoi predecessori, ma che ha indicato un programma apertamente liberista e nazionalconservatore, come prevedibile.
“Siamo nel pieno di una tempesta e gli italiani hanno affidato a noi la nave” ha messo le mani avanti il/la Presidente del Consiglio, rivendicando e giocando sapientemente l’asset di essere la prima donna alla guida di un governo nella storia di questo paese, definendo se stessa – riferendosi non casualmente alla Thatcher – come una “underdog”, una donna fuori dai pronostici.
Ha dato il benservito ai governi che l’hanno preceduta definendoli legittimi costituzionalmente ma distanti dalla gente.
La Meloni ha chiarito che terrà l’Italia ben dentro le regole dell’Unione Europea e l’alleanza nella Nato, incluso nella guerra contro la Russia, anche se ha sottolineato che la Ue non deve sembrare un consiglio d’amministrazione e che la lotta al debito pubblico non deve essere l’austerity ma la crescita economica. Quindi ha rivendicato l’Italia in una Ue fondata sulle radici giudaico-cristiane che rivendicherà l’interesse nazionale dentro un destino comune.
Gli sguardi in tralice – che rivelano nel linguaggio del corpo le questioni su cui il governo Meloni picchierà più duro – sono stati riservati ai passaggi sulla riforma costituzionale per l’introduzione del presidenzialismo (o di un semipresidenzialismo alla francese); alla fine dello Stato-tiranno che si accanisce contro le imprese; all’attacco al reddito di cittadinanza definito una sconfitta per l’Italia; alla bellezza della genitorialità che incrementi il “Pil demografico” del paese; allo sport per i giovani come alternativa agli spinelli; all’indagine sulle scelte fatte durante la pandemia di Covid; al contrasto dell’immigrazione illegale e alla mafia.
Infine, e non certo per l’importanza, la Meloni ci ha tenuto a rivendicare la propria storia politica nella destra sociale e – sguardo in tralice – l’odio per l’antifascismo militante, citando senza nominarlo il caso del giovane neofascista milanese Sergio Ramelli ucciso negli anni Settanta, ma ovviamente omettendo i giovani di sinistra uccisi dai neofascisti esattamente nello stesso periodo.
La Meloni ha preso le distanze dal fascismo delle leggi razziali (che non è affatto l’unico né il più grave crimine del ventennio fascista) e dai totalitarismi che hanno dilaniato l’Europa. Ha ricordato come la destra italiana da tempo invochi la pacificazione e la storicizzazione.
Sul piano economico la Meloni ha sostanzialmente avanzato un programma apertamente liberista, con mano libera per le imprese che non vanno vessate dallo Stato e che devono essere “lasciate libere di fare”.
Ha parlato di sovranità tecnologica (mentre ha avuto gioco facile – a causa della stupidità dell’opposizione – nello spiegare cosa significa sovranità alimentare) e di una clausola di interesse nazionale su autostrade e aeroporti contro i profittatori. Ma quando ha indicato i punti di forza del sistema industriale italiano ha rivelato il carattere pienamente subordinato “dell’italianità” che si regge sostanzialmente sulle eccellenze dei marchi nella moda, sull’agroindustria e il turismo, in sostanza un paese pienamente subalterno al ruolo affidatogli dalla divisione europea del lavoro.
Il quadro che l’intervento della Meloni restituisce è quello di un governo apertamente liberista in economia e nazionalconservatore in politica. Insomma niente rotture del perimetro disegnato dal pilota automatico euroatlantico, ma dentro una tempesta che ne scuoterà continuamente e pesantemente la navigazione.
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