Il disegno di legge di bilancio (DDL Bilancio) approvato dal Consiglio dei Ministri è un atto di importanza fondamentale, perché consente di vedere oltre la nebbia dei primi provvedimenti di bandiera del Governo (dai rave alle ONG) e di riconoscere l’impronta politica dell’esecutivo Meloni.
Un’impronta in tutto e per tutto identica a quella dei precedenti governi che da oltre trent’anni – da destra, da “sinistra” o dallo scranno dei “tecnici” – hanno condotto un progressivo smantellamento dello stato sociale ed un attacco ai lavoratori, ai loro diritti e ai loro salari, che sta trasformando la povertà, la precarietà e la disoccupazione in elementi strutturali della vita della maggior parte dei cittadini italiani.
Vi è una perfetta armonia tra le misure di bandiera varate nelle prime settimane dal Governo, misure “minori” solo per chi non le subisce sulla propria pelle, e il DDL Bilancio appena approvato.
La guerra agli ultimi, ai poveri, ai deboli viene ostentata nell’ambito delle politiche migratorie perché condotta a largo del Mediterraneo, lontano dalle nostre case e dai luoghi di lavoro, sulla pelle degli stranieri, o spettacolarizzata nella lotta senza quartiere ai rave disegnata ad arte per reprimere ogni forma di dissenso sociale.
Eppure, quella stessa guerra di classe è la cifra della manovra finanziaria varata dal Governo, è il contenuto politico dei numeri che emergono dal principale strumento di politica economica in mano all’esecutivo. La Legge di Bilancio porta l’attacco dentro le nostre case, nei nostri luoghi di lavoro.
L’attacco è nei numeri perché – come anticipato nella Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) – il Governo Meloni farà più austerità del Governo Draghi, raccogliendo il testimone di un percorso di contenimento della spesa sociale e aumento delle tasse che si era interrotto solo a causa della pandemia e delle misure rese necessarie dall’emergenza sanitaria.
Dunque, come mostra un grafico della NADEF rivelatore della perfetta continuità politica Draghi-Meloni, il nuovo Governo tiene fede all’impegno, assunto dal precedente, di ridurre debito e deficit pubblico rispetto al PIL.
Mantenere questo impegno con l’Europa significa anche contenere il ruolo dello Stato in economia, lasciando la nostra organizzazione sociale in balia delle forze di mercato, libere di determinare i nostri destini in funzione dell’unica logica che conoscono, la logica del profitto.
Povertà, precarietà e disoccupazione, cioè il risultato dell’arretramento dello Stato dall’economia nell’ultimo trentennio, lungi dall’essere meri accidenti, rappresentano le principali leve usate per disciplinare i lavoratori e piegarli agli interessi del profitto.
Ecco perché è così importante ridurre al lumicino l’intervento pubblico: il sostegno dello Stato ai cittadini e ai lavoratori li protegge dal ricatto della disoccupazione, dalla minaccia della precarietà, dal morso della povertà e per questo li rende meno inclini ad accettare qualsiasi forma di sfruttamento pur di vivere degnamente.
Per piegarli, occorre ripristinare la più dura austerità, esattamente come scritto nero su bianco nella NADEF del Governo Meloni.
Il “saldo primario” del bilancio pubblico, che rappresenta la differenza tra le entrate e le spese al netto degli interessi pagati sul debito pubblico (spese, queste ultime, prive di qualsiasi impatto sociale positivo) passa da un disavanzo dell’1,5% del 2022 ad un disavanzo dello 0,4% per il 2023.
Ciò significa che Meloni riporta l’Italia all’interno del paradigma del pareggio di bilancio primario, perché riduce di oltre un punto percentuale il disavanzo primario ereditato da Draghi. Pareggio di bilancio significa che lo Stato toglie all’economia, con le tasse, esattamente tanto quanto eroga verso l’economia in forma di spesa sociale, sussidi, servizi e investimenti pubblici, rinunciando a stimolare la produzione, i consumi e l’occupazione.
Ecco perché possiamo pacificamente affermare che il Governo Meloni riesce ad essere più realista del re: dopo un anno passato all’opposizione del Governo Draghi a raccogliere il consenso di chi ne soffriva le politiche antisociali, Meloni prende il timone solo per virare ancora più radicalmente verso le politiche di austerità.
Con il ritorno al pareggio del bilancio primario “finisce la pacchia” dell’assistenzialismo statale che era stato reso necessario dalla pandemia: questo il significato politico più profondo della manovra finanziaria appena approvata, che si coglie immediatamente guardando al grafico della NADEF, dove il picco del 2020 raggiunto dal deficit e dal debito pubblico inizia a ridursi lungo un percorso costante che accomuna i governi di tutti i colori politici che si sono succeduti fino ad oggi.
Il carattere antisociale delle politiche di bilancio del Governo Meloni non si limita alla dimensione quantitativa della manovra, ma ne determina anche il contenuto e la composizione, descritti nel DDL Bilancio appena approvato, che distribuisce circa 35 miliardi di euro tra le priorità individuate dal Governo.
Chiariamo perché sia possibile parlare di una “manovra” di 35 miliardi a fronte di un saldo di bilancio primario in pareggio, dunque a fronte di una sostanziale neutralità dello Stato in economia.
Ogni anno, il Governo in carica redige una Legge di Bilancio contenente a) il bilancio di previsione per l’anno successivo, dove sono stabilite puntualmente le spese e le entrate, b) il bilancio pluriennale per il triennio, che include gli stanziamenti decisi per l’anno successivo e le previsioni per gli altri due anni seguenti.
La differenza fondamentale tra questi due bilanci previsionali è che il primo – quello per l’anno successivo – ha forza di legge nel destinare la spesa e nel definire la struttura delle entrate, mentre il secondo, quello che include gli altri due anni del triennio, è una mera proiezione, che viene puntualmente utilizzata dai governi per mostrare traiettorie straordinariamente virtuose di contenimento futuro del deficit e del debito pubblico senza alcun effetto concreto sul presente.
La previsione per gli anni successivi al primo è sempre molto stringente per le spese e molto ottimistica sul fronte delle entrate, e dunque viene puntualmente disattesa quando, dopo un anno, deve essere aggiornata sulla base degli impegni concreti che il governo deve assumere.
Per l’appunto, i 35 miliardi della manovra del Governo Meloni non sono 35 miliardi che il nuovo esecutivo immetterà nell’economia, stimolando la domanda di beni e servizi, ma sono il mero risultato di una previsione pluriennale di contrazione delle spese e aumento delle entrate che – come ogni anno – mancherà di realizzarsi.
In altre parole, il disavanzo di bilancio per il 2023 si ridurrà rispetto al 2022, come abbiamo detto e per effetto di una continuità nelle politiche di austerità, ma si ridurrà meno di quanto astrattamente previsto nel 2021 in sede di elaborazione del bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024.
In virtù di questo artificio contabile, che ogni governo sistematicamente sfrutta, Meloni può oggi ostentare una manovra apparentemente espansiva mentre, nei fatti, contrae il peso della spesa pubblica sull’economia. Oltre l’illusione contabile, resta il fatto che questi 35 miliardi non comparivano tra le previsioni di spesa per il 2023 e possono dunque essere distribuiti in base alle priorità del governo in carica.
Le priorità del Governo Meloni appaiono tristemente limpide ed in linea con quelle del Governo Draghi: concentrare le pochissime risorse disponibile in difesa dei profitti delle imprese maggiormente esposte alla corsa dei prezzi energetici.
Difatti, 21 dei 35 miliardi a disposizione vengono impegnati per fronteggiare il caro energia prorogando le misure introdotte dal precedente esecutivo (ecco svelarsi il trucco contabile: nessuna misura aggiuntiva rispetto allo scorso anno, ma solo una proroga di quanto già stanziato fino a dicembre 2022).
Tuttavia, tale sostegno risulta fortemente sbilanciato verso le imprese e copre solo in minima parte le famiglie. Nel dettaglio, si consideri che dei 21 miliardi stanziati circa 4 servono per prorogare l’azzeramento degli oneri di sistema e la riduzione al 5% dell’IVA sul gas metano.
Queste due misure vengono presentate come rivolte alle famiglie ma, in realtà, ne beneficerà tanto una famiglia in difficoltà quanto una multinazionale, ed in proporzione ai consumi, dunque con enorme vantaggio della seconda: l’azzeramento degli oneri di sistema si applica infatti a tutte le utenze, domestiche e non, mentre la riduzione dell’IVA sul gas si applica sia agli usi civili che industriali.
Insomma, ben poco di quei 4 miliardi aiuterà precari, lavoratori, pensionati e disoccupati a resistere al prossimo inverno.
All’interno del “pacchetto energia” da 21 miliardi, comunque, la parte del leone la fa la proroga e l’estensione dei crediti d’imposta per le imprese, che assorbiranno fino al 45% della spesa per le imprese energivore e, per le altre, non saranno comunque inferiori al 35% delle bollette: questo sì un argine significativo al rialzo dei prezzi energetici, ma riservato ai padroni.
A conti fatti, tra le misure varate dal Governo Meloni per il caro bollette restano, per le famiglie, le briciole stanziate per prorogare il bonus sociale, destinato al pagamento delle bollette di luce e gas alle sole famiglie più povere, con ISEE inferiore ai 15.000 euro. Poco più di 1 miliardo su 21.
E la situazione è resa ancora più drammatica, per i lavoratori, dalla proroga solo parziale dello sconto sulle accise: le imposte sulla benzina, calmierate per far fronte all’impennata nei prezzi nel 2022, tornano a salire dal primo gennaio prossimo con un impatto immediato sulle tasche di chi è costretto ogni giorno a spostarsi con mezzi propri per andare al lavoro.
Il secondo capitolo principale della manovra, dopo quello energetico, è senza dubbio la tanto sbandierata riduzione del cuneo fiscale, di cui abbiamo già discusso estesamente: circa 4 miliardi di euro che non avranno praticamente alcun impatto sui salari netti dei lavoratori, e saranno fagocitati dai profitti alla prossima tornata di rinnovi contrattuali, quando diventeranno il pretesto per concedere minori aumenti.
Scarso impatto finanziario per il 2023 (un risparmio di 734 milioni) avrà invece un capitolo della manovra che assume una valenza simbolica e programmatica gigantesca: la progressiva abolizione del Reddito di Cittadinanza, che prevede per tutta la platea di beneficiari classificati come occupabili – quasi 700.000 individui (circa un terzo del totale) – prima la riduzione del 25% per il prossimo anno e poi la totale cancellazione del beneficio a partire dal 2024.
In buona sostanza, il prossimo settembre questi soggetti non riceveranno più un sussidio che nel solo 2020 ha consentito a circa un milione di persone di uscire dalla povertà assoluta.
La battaglia contro il Reddito di Cittadinanza condotta da destra giunge quindi ad una svolta decisiva: con l’esclusione dalla platea dei beneficiari di tutti i soggetti “potenzialmente occupabili”, il Reddito smette di interferire con le dinamiche del mercato del lavoro, dove in questi anni ha fornito a tutti i beneficiari uno strumento utile a sottrarsi al ricatto del lavoro povero.
Dal prossimo settembre, i disoccupati di lunga data saranno costretti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro per evitare la marginalità sociale, senza contare che non è affatto scontato che riescano a trovarlo, un lavoro: un nuovo esercito industriale di riserva che rappresenta l’ennesimo regalo del Governo Meloni alle imprese.
E sempre a sostegno delle imprese sono espressamente previste numerose, ulteriori misure: la proroga della sovvenzione pubblica per il pagamento delle tasse “ambientali”, sugar e plastic tax; la decontribuzione (1 miliardo) per le imprese che assumono a tempo indeterminato (tanto ormai c’è piena libertà di licenziamento) donne, giovani under 36 e percettori di reddito di cittadinanza (come se le imprese assumessero per fare un favore ai lavoratori, e non per sfruttarne il lavoro traendone profitto); l’estensione della flat tax al 15% alle partite IVA con ricavi fino a 85.000 euro, dunque anche alle imprese individuali tutt’altro che piccole; il rifinanziamento (1 miliardo) del Fondo di garanzia PMI, utile a favorire il credito bancario verso le imprese, nuove risorse per finanziare l’acquisto di beni digitali (Piano Transizione 4.0); il credito d’imposta per finanziare le attività di formazione 4.0; un fondo per la tutela del Made in Italy ed agevolazioni per l’acquisto di beni strumentali (Nuova Sabatini).
Un mare di denaro ammassato a difesa dei profitti mentre l’inflazione cresce e le tutele dei lavoratori si riducono: la politica di bilancio del Governo Meloni è una straordinaria spinta alla redistribuzione del reddito dai salari ai profitti, una gestione dell’ondata inflazionistica che ne scarica il peso interamente sulle spalle di lavoratori, precari, pensionati e disoccupati.
Per queste categorie, la manovra riserva le briciole. Pochi milioni per quota 103, un mero palliativo al sistema contributivo in pieno assetto Fornero che penalizza fortemente chi opta per l’uscita anticipata dal lavoro; e poi una serie di misure bandiera per donne e famiglie numerose, il ridicolo tentativo di connotare socialmente una legge di bilancio che porta avanti con violenza l’attacco al lavoro e allo stato sociale, in perfetta continuità con il Governo Draghi e le precedenti compagini.
Notiamo però che questa manovra finanziaria rivela alcune debolezze strutturali del nuovo esecutivo. Al di là della serie di misure sociali annunciate e poi rinviate a data da destinarsi (spicca su tutte la promessa, tradita, di ridurre l’IVA sui beni di prima necessità), colpisce la precarietà con cui il Governo Meloni ha predisposto le misure principali della sua politica di bilancio: i 21 miliardi di euro stanziati per arginare l’impatto dei costi dell’energia sulle imprese sono infatti previsti per i soli primi tre mesi dell’anno. Come se l’emergenza derivante dall’inflazione energetica svanisse nel nulla dopo i primi mesi invernali.
Per Meloni la scelta è stata obbligata: una volta accettata la piena compatibilità con i vincoli di bilancio imposti dalle istituzioni europee, la dimensione della manovra non avrebbe potuto superare i volumi attuali.
A conferma di ciò, il giorno successivo all’approvazione del DDL Bilancio in Consiglio dei Ministri, la Commissione europea ha indicato l’Italia tra i paesi a rischio di significativi squilibri macroeconomici, segnalando l’elevato debito pubblico come il principale elemento di vulnerabilità del nostro Paese.
Un monito al Governo Meloni, che potrebbe vedersi chiudere quei margini di flessibilità concessi dalla stessa Commissione europea a Draghi per una serie di scostamenti di bilancio extra che, nel corso del 2022, hanno consentito al precedente governo di tamponare i primi effetti sociali dello scoppio della guerra.
La resistenza politica e sociale alle misure economiche del Governo Meloni deve dunque inserirsi in queste crepe e agire sulla debolezza strutturale di un esecutivo chiamato a gestire la rigida ripresa delle politiche di austerità e a reprimere il dissenso che ne deriverà.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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