“Non è esistito nel mondo intero, in questi ultimi dieci anni, un partito democratico che abbia fatto per la emancipazione della donna la centesima parte di quanto la Repubblica dei Soviet ha realizzato in un anno”, diceva Lenin nel gennaio 1920. Siamo nel 2023, a più di cento anni da allora, e nel capitalismo occidentale questa affermazione è ancora realtà. Perché nonostante i cambiamenti che hanno attraversato questo sistema da allora, la condizione di sfruttamento delle donne è ancora sotto gli occhi di tutti e nei momenti di crisi come quelli attuali non fa che acuirsi.
La tendenza alla guerra, il carovita, la crisi ambientale, economica e sociale, la crisi di prospettive delle giovani generazioni, l’aumento generalizzato dello sfruttamento e della precarietà lavorativa, pesano oggi in particolar modo sulle categorie più sfruttate, fra cui le precarie, le disoccupate, le migranti, le lavoratrici sfruttate, le studentesse e le donne delle periferie.
Al peggioramento delle condizioni materiali si accompagna, inoltre, un imbarbarimento generalizzato figlio della crisi di egemonia della borghesia occidentale che, non riuscendo ad avere più una funzione progressiva, vince ma non più convince, produce sistemi di dominio invece che di egemonia e scarica sulle fasce più deboli dal punto di vista sociale e culturale gli effetti della propria profonda crisi di valori e di prospettive.
Discriminazioni, molestie, competizione sfrenata, disagio psicologico ed esistenziale sono solo alcuni degli effetti vissuti da donne e uomini anche nei posti di lavoro e nei luoghi della formazione pubblica, fino ad ogni ambito della vita sociale.
Dal punto di vista del lavoro si conferma, ancora oggi, una delle dimensioni storiche dello sfruttamento femminile, in funzione della quale le donne nei momenti di crisi hanno avuto maggiore difficoltà di ingresso e facilità di uscita dal mondo del lavoro: parlano chiaro, in tal senso, i dati relativi alla dinamica dell’occupazione femminile bruciata nell’arco di pochi mesi durante la pandemia e ancora non recuperata.
Così come parlano chiaro i dati sull’utilizzo del lavoro part-time (involontario), sul persistente gender gap e sulla segregazione orizzontale (concentrazione in settori a minore specializzazione) e verticale (preponderanza in bassi e medi profili professionali), spesso in presenza di overeducation: forme di sfruttamento del lavoro di cui il capitale fa largo utilizzo per la crescente componente femminile nell’occupazione e che stanno estendendosi a tutta la forza lavoro, portando a una progressiva “femminilizzazione” del mondo del lavoro.
Perché se è vero che la maggiore partecipazione femminile rappresenta una maggiore opportunità per tutte le donne di emancipazione, indipendenza e autonomia, rimane evidente che le forme di lavoro che caratterizzano la componente femminile continuano a inserirsi in larga parte in una cornice di maggiore sfruttamento e precarietà del lavoro femminile, nonché di compatibilità con il lavoro di cura che continua a essere visto come appannaggio delle donne.
Tali condizioni di lavoro – affiancate dalla dimensione del doppio carico lavorativo e familiare, da un welfare inesistente e da un processo di aziendalizzazione ed élitarizzazione del mondo della formazione -, vanno a definire gli attuali contorni della dimensione moderna dello sfruttamento della maggior parte delle donne: sono le precarie, le disoccupate, le lavoratrici sfruttate, le studentesse, le donne delle periferie e le migranti, un esercito di riserva da allargare e contrarre a seconda delle necessità del sistema.
Ma questo, più che rappresentare una “ingiustizia morale” nell’ottica del raggiungimento della parità di genere, rappresenta un dato del tutto materiale che si traduce in una minore possibilità di autonomia e indipendenza economica da parte delle donne e in una maggiore povertà femminile, che sono poi alla base spesso della condizione di subalternità delle donne nei contesti sociali e familiari e del ricatto materiale della violenza.
A fronte di questa condizione materiale, la valorizzazione capitalistica del processo di femminilizzazione del lavoro sta comportando poi l’emersione di un ulteriore elemento, relativo al rafforzamento della selezione di classe nella componente femminile. Questa porta il capitale a individuare e valorizzare donne che, nella maggior parte dei casi per condizioni sociali ed economiche di partenza, possano ambire a ricoprire ruoli di potere e di immagine storicamente appannaggio degli uomini e funzioni portanti nei processi produttivi per i quali si individuano margini di sfruttamento della componente femminile oltre a quella maschile (è questo il caso, ad esempio, degli investimenti per favorire la formazione delle studentesse nelle materie STEM).
Queste sono le donne che “ce l’hanno fatta”, che hanno dimostrato di stare al passo con il contesto produttivo e che sono riuscite a sfondare il cosiddetto “soffitto di cristallo”: imprenditrici, manager, politiche, cape di governo, cape delle banche centrali, e così via. Quelle che rappresentano, soprattutto per la borghesia di sinistra e per il femminismo borghese, i massimi esempi di emancipazione femminile, da introiettare quali modelli positivi soprattutto nelle giovani generazioni, accentuando la contraddizione tra aspettative e realtà che già vivono attualmente.
È il caso, a livello politico, dell’elezione di Giorgia Meloni al governo e di Elly Schlein alla segreteria del PD, gli ultimi prodotti nostrani della dirigenza neoliberista che, negli ultimi anni, dalla Merkel alla Von der Lyen alla Lagarde, hanno costellato gli apparati internazionali operando quel pink/rainbowwashing necessario per coprire la prosecuzione di politiche di sfruttamento e di erosione dei diritti, operata ai danni di tutti e tutte, anche del resto delle donne, come nel caso del PD.
Da un punto di vista più culturale, invece, Chiara Ferragni, imprenditrice con un patrimonio di 40 milioni di euro – asset esclusi – che al festival di Sanremo sfoggia un vestito da migliaia di euro con su scritto “Pensati libera”, è la rappresentazione plastica della dimensione di classe nelle dinamiche di genere.
Da un lato, una donna che per condizioni economiche, sociali e culturali di partenza “ce l’ha fatta” e che vede la liberazione femminile in un concentrato di individualismo, meritocrazia, ambizione personale e carrierismo. Dall’altro, un universo di donne che libere ci si possono solo “pensare”, strette quotidianamente tra condizioni di vita e di lavoro che tutto permettono tranne che di essere libere.
Se questa è la condizione attuale, è evidente come, per le comuniste e i comunisti, la questione femminile non possa rappresentare una questione morale, né si possa risolvere con l’affermazione o la dimostrazione che la donna non è inferiore all’uomo o con una richiesta di un minore sfruttamento, di utilizzo di un linguaggio diverso o di equiparazione dei due sessi, rivolta a chi quella differenza la valorizza in ottica capitalista. La priorità per i comunisti non può essere che una quota maggiore di donne sfondi il soffitto di cristallo e raggiunga le posizioni di potere degli uomini: di padroni e padroncini già ce ne sono a sufficienza.
In questo senso, non esistono soluzioni e scorciatoie per l’abolizione del solo sfruttamento della donna all’interno del sistema capitalista: la lotta per la liberazione femminile va inserita nel quadro più ampio della lotta per la rottura del sistema attuale e per la costruzione di una alternativa sistemica che preveda l’abolizione di ogni sfruttamento perpetrato, anche sulle donne, sia dal punto di vista materiale sia dell’apparato ideologico-culturale.
Un apparato che nel suo immaginario vuole ancora le donne deboli e vittime, al fine di mantenerle in una condizione materiale e culturale di subalternità, e il cui ribaltamento in chiave di indipendenza, autodeterminazione e autodifesa rappresenta il primo passo verso un progetto strategico e organizzato di rottura rivoluzionaria e di liberazione femminile. “Non saremo vittime ma rivoluzionarie”, slogan utilizzato nelle mobilitazioni autunnali, ci sembra calzante in questo senso.
In questo la storia insegna: le donne hanno ottenuto conquiste reali solo rifiutando il loro ruolo storicamente determinato e mettendosi in prima linea nelle lotte per l’indipendenza economica, per la parità nella retribuzione e per un salario adeguato; per avere più tutele e garanzie di alternative, a prescindere dalle proprie condizioni economiche e sociali o dalla propria cittadinanza; per una educazione e una formazione accessibile, lontana dalle logiche del mercato; per la possibilità di scelta nel lavoro, nello studio, nella famiglia; per la libertà di decidere se e quando diventare madri; per il diritto all’aborto sicuro e gratuito, alla contraccezione e all’educazione sessuale nelle scuole; per il diritto alla casa e alla residenza; per la liberazione dalla schiavitù domestica; per servizi sanitari pubblici, gratuiti e diffusi a livello territoriale.
È a partire da questi insegnamenti che scenderemo in piazza l’8 marzo, con un foglio di lotta che parta dalle esigenze materiali delle proletarie e delle sfruttate e nella consapevolezza che la libertà delle donne può essere conquistata solo creando organizzazione e lottando collettivamente per il cambiamento dello stato di cose presenti, verso una società più giusta.
Le donne e le operaie di Pietrogrado, che l’8 marzo del 1917 scesero per prime in piazza al grido di “pace e pane”, contribuendo a quel processo che portò pochi mesi dopo alla rivoluzione d’ottobre, sono in questo senso un esempio attuale di riscatto e protagonismo femminile dentro una prospettiva di trasformazione della società a tutto tondo.
Sempre Lenin sosteneva che “Noi possiamo a buon diritto essere fieri di avere nel partito e nell’Internazionale il fiore delle donne rivoluzionarie. Ma non basta. Noi dobbiamo attrarre nel nostro campo i milioni di donne lavoratrici delle città e dei villaggi. Dobbiamo attrarle dalla nostra parte perché contribuiscano alle nostre lotte e particolarmente alla trasformazione comunista della società. Senza le donne non può esistere un vero movimento di massa”.
Ancora oggi, senza le lavoratrici, le precarie, le disoccupate, le studentesse, le donne e le ragazze delle periferie, le migranti, non può esistere un vero movimento di classe che imponga la liberazione di tutte le categorie sfruttate, fra cui le donne: organizziamole, organizziamoci. Questo 8 marzo dimostriamo, ancora una volta, che la liberazione delle donne si conquista.
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