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Noi, la morte e Michela Murgia

Oltre tutti questi santini e coccodrilli, alcuni dei quali lunghissimi e apparsi tre minuti dopo la notizia della sua morte (è ferragosto, scuso i giornalisti, comprensibile che per una con la sua situazione di salute il coccodrillo fosse già preparato) vorrei provare a dire qualcosa. Qualcosa di personale.

Davanti alla morte, dopo la morte, ci vorrebbe un atteggiamento che si riassume in una parola talmente abusata, e non solo dai mafiosi, da aver perso significato. Ma l’abuso altrui (ultimo esempio, la sconcertante commemorazione di B. da parte del figlio, scusato – lui sì – solo in quanto appunto figlio) non mi riguarda, perciò la uso: rispetto.

Un’altra parola non appartiene alla nostra cultura, chiassosa e cicalona di natura, e peggiorata tantissimo dopo l’avvento dei social. È una parola non a caso giapponese, 沈黙, ovvero Chinmoku: silenzio.

Secondo questa usanza, alla morte di una persona che si conosceva (amico o nemico, simpatica o antipatica non importa) si osserva silenzio dopo la sua scomparsa. Ma non per – o non solo per – rispetto, ma per proprio uso personale.

L’occasione per riflettere e per guardarsi dentro, per provare a capire se gli atti in vita e la nostra percezione, dopo la morte di quella persona, ci hanno lasciato qualcosa. L’umana pietà c’entra, però è un altro concetto usurpato da una cultura, quella cristiana, che non mi appartiene: essere e restare umani è un concetto che esisteva – nell’animo dell’uomo – ben prima dell’uso pro domo propria messo in pratica dalle religioni: non tutte, ma diciamo che quelle monoteiste con il culto dell’aldilà ne hanno fatto un’industria molto redditizia.

In realtà, la pietà verso un essere sofferente della propria specie è un’estensione dell’istinto di protezione verso i piccoli della propria specie, in ultima analisi, cioè, dei figli: l’essere umano è capace di identificare un altro essere umano sofferente, debole, morente, morto, secondo quello stesso istinto, estendere – modificati, certo – quei sentimenti.

È un discorso non facile, un terreno minato, ma proprio per questo voglio provare oggi a farci un passetto, in quel campo minato: tutti – io fra i primi – proviamo altri istinti, altri sentimenti legati per esempio all’istinto di gruppo (altra parola abusata, ma che ci appartiene per istinto, appunto: di branco), che ci porta a identificare i “nostri”, gli amici, i compagni: quelli del nostro branco, appunto, contrapposti agli “altri”.

Spesso, e penso che anche questo sia “umano”, questi ultimi sentimenti, e non i primi, prevalgono anche di fronte alla morte di qualcuno degli “altri”.

Per me, Michela Murgia era una degli “altri”, non ho mai avuto dubbi, negli anni. Non è questa la sede, men che meno oggi, per parlarne, ci mancherebbe altro.

Avrei scelto il silenzio, ma non sono un orientale saggio, sono un querulo opinionista occidentale, ad peius, italiano, perciò eccomi qua.

È stata una dichiarazione di una scrittrice che mi sta da sempre, invece, molto simpatica, a fare da punto di partenza per un inizio di riflessione.

Ringrazio per questo Lara Cardella, mi scuso se la nomino così – “gratis” – ed altrettanto gratis riporto il suo pensiero qui (osservazione a margine: ah, saper scrivere, essere diretti, dire la verità in maniera civile, che dono raro e prezioso):

Non mi ha mai ispirato simpatia, per questo posso permettermi di parlare senza parere la fan dell’ultima ora. Le avevo appena scritto un’inutile mail per esserle vicina senza ipocrisie, nel rispetto totale del suo desiderio di vivere questo tempo ultimo come cazzo pareva a lei.

Dopo, ho scoperto che non leggerà neanche quella mail. Non mi era simpatica, ma fortuna che c’era: a estremizzare le posizioni, a smuovere l’acqua putrida stagnante, a dividere e far riflettere. Mi auguro che i pensieri oggi siano tutti per lei e per quanto ha fatto per le donne, non per i circensi senza dignità.

Le donne, che pur non essendo d’accordo con lei, devono riconoscere semplicemente che quel posto, il suo, rimane vuoto e le riconoscono una forza che solo lei sapeva mostrare.

E però sbagliavi, te l’avevo detto: tu non eri la tua malattia. Ché tu resti, lei va affanculo da qualcun altro, ma non tocca più te.

Non ti auguro pace, ragazza, quella andava bene finché eri qui: possiedi, piuttosto, con animo feroce, quelle donne che non hanno la tua stessa forza.”.

Touché.

Lei sì, non tutti questi coccodrilli, mi hanno commosso. Forse perché penso e sento “quasi” come lei, con la sola piccola differenza che, essendo di un altro sesso, certe cose le puoi approvare con il cervello e la ragione, abbracciarle con il sentimento e con il cuore, ma è meno facile: devi pensare non come uomo, ma come essere umano.

Ed estendere il tuo “branco” a tutti gli umani (sarebbe: a tutti gli esseri viventi, ma qui allargo troppo il discorso, mi perdo, divento lungo già più di così, quindi sorvolo).

Cerchi di riuscire ad arrivare al punto che senti dentro ogni offesa fatta a un essere umano, uomo o donna non conta: ma in questa società, devi crearti una società ideale dentro, tua, perché fuori, non è ancora così: ed il cammino per arrivarci è ancora lungo. Per me, non è stato facile, non è facile.

Questo è il piccolo passettino che oggi mi son sentito di fare, grazie a Lara, e grazie alla morte di una donna, che in vita non mi stava simpatica, ma mi ha fatto pensare: pensare che si può cambiare, poco o poco, se conservi la capacità di riflettere e di metterti in discussione, di capire le tue ragioni, depurare quelle meno nobili dovute al maschilismo ancestrale, ed andare oltre.

Un passettino, mica sono Gandhi: resto Massimino l’odiatore, ma ci sto lavorando, ci lavorerò sempre, finché campo.

E parlo sempre di me, anche quando parlo degli altri.

Dopo, pure per me, mi raccomando amici, scrivete qualche bel coccodrillo.

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2 Commenti


  • Eros Barone

    Gli aspetti, che colpiscono maggiormente nello psicodramma collettivo organizzato ‘ante mortem’ intorno alla propria fine per iniziativa della stessa Michela Murgia, e poi a ruota dal sistema dei ‘mass media’, sono la spettacolarizzazione e la patetizzazione. Ed è da queste coordinate culturali, etiche e sociali che si sprigiona il significato di una messa in scena barocca realizzata da un personaggio pubblico, quale era Michela Murgia, con largo impiego di moderni mezzi audiovisuali, ma strettamente connessa alla tradizione italiana e in particolare meridionale, dove la morte si è venuta configurando, per un verso, come la metafora di una rinascita e, per un altro verso, come la celebrazione individuale, familiare e mediatica della moritura. Per parafrasare Andy Warhol, nel futuro ognuno sarà famoso per settimane se si trova in una condizione senza scampo. D’altronde, che lo spettacolo pubblicitario e quello televisivo pervadano tutta la nostra società, imprimano a tutte le sue manifestazioni il marchio della decadenza e stiano minando le basi antropologiche del nostro Paese, è ormai cosa assodata, così come è assodato il fatto che sia assai rara un’autentica resistenza intellettuale. Va dato atto, però, alla scrittrice sarda di uno straordinario coraggio nell’aver rifiutato la logica, ad un tempo spietata ed ipocrita, della segregazione ospedaliera cui vengono costretti i malati oncologici terminali e nell’aver mostrato in modo attivo l’esistenza e la praticabilità dei margini di iniziativa, di comunicazione e di amore che, nonostante la malattia, ancora sussistono. Due mi sembrano pertanto essere le lezioni di vita che in tal modo la Murgia ci ha consegnato: noi non siamo coloro che moriranno – anche le bestie muoiono – ma siamo, come dicevano i Greci, i “mortali”, coloro che sanno di dover morire, senza sapere tuttavia che cosa questo significhi e ancor più senza potersi impedire di pensarci. Non si tratta allora di risolvere il problema della morte, ma di affrontarlo. L’altra lezione che Michela Murgia ci ha dato può essere riassunta nella frase di Spinoza: «L’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione non sulla morte ma sulla vita». Laddove è opportuno osservare che la seconda parte della frase è tanto evidente quanto la prima sembra paradossale. Come meditare sulla vita senza meditare anche sulla sua brevità, precarietà, fragilità? D’altronde, Spinoza corregge, in un altro passo dell’“Etica”, ciò che questo pensiero potrebbe avere di troppo unilaterale. Si tratta di riconoscere che ogni essere vivente è mortale e che nessuno può vivere o perseverare nel proprio essere senza resistere a questa morte che da ogni parte l’assale e lo minaccia. Del resto, nessuno è assolutamente libero e nessuno è saggio per intero. L’autrice del romanzo “Accabadora” sapeva che queste due caratteristiche umane lasciano al pensiero della morte dei bei giorni o delle notte difficili, che bisogna pur accettare.


  • Tony

    Considera che anche Lara ha dovuto combattere con il cancro, che ha comportato l’asportazione di alcune costole e un pezzo di polmone. Dunque il suo commento acquista ancor più valore.

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