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Il Governo precetta, lo sciopero non può attendere

Nei giorni in cui il Governo attacca volgarmente il diritto di sciopero dei lavoratori e i sindacati confederali confermano di non avere la forza e la volontà di opporsi a questa deriva, è bene rispolverare un po’ di evidenze sul grado di conflittualità della società italiana, per smascherare alcune menzogne che spesso fanno capolino nel dibattito pubblico.

Mentre Salvini accusa il segretario della CGIL di indire lo sciopero generale di venerdì per poter godere di un week-end lungo e la narrazione dell’Italia come il Bengodi degli scioperi che bloccano le magnifiche sorti e progressive del paese si diffonde, la realtà dice tutt’altro.

Secondo i dati ISTAT, in Italia nel 2023 le ore di lavoro perse a causa di scioperi sono soltanto 0,5 ogni mille, in discesa rispetto al 2022 e al 2021 quando erano state pari a 0,6 e 0,8. Una riduzione della conflittualità ancora più significativa se confrontata con il primo dato disponibile risalente al 2005, quando le ore di sciopero erano state ben 2,5 per ogni 1000 ore lavorate.

Se si guarda ai dati forniti dall’European Trade Union Institute (ETUI) si ha un quadro chiaro di come il nostro paese rappresenti sì un’anomalia, ma al contrario. Vale a dire come esso sia un paese dal bassissimo grado di conflittualità dei lavoratori, conflittualità che è andata raffreddandosi nei decenni con una singolare solerzia.

Infatti, tra il 2000 e il 2009, secondo l’ETUI, in Italia si sono persi 87,6 giorni di lavoro a causa di sciopero, meno della Francia (127) e della Spagna (153) ma molto di più del periodo 2020-2022 quando il valore è talmente basso da essere insufficiente a formulare la statistica. Nel frattempo, però, in Germania si sono persi 18 giorni di lavoro, in Spagna 37, in Francia 79.

Un dato simile è riportato anche in un articolo di Domani dove, facendo riferimento a dati OCSE, si segnala che tra il 2008 e il 2018, mentre in Italia si registravano 42 giorni di sciopero, in Spagna e in Francia se ne registravano, rispettivamente, 76 e 112.

Ma che cosa c’entrano questi numeri con la vita reale delle persone? Abbiamo più volte sostenuto e argomentato che la distribuzione del reddito, quindi, salari più alti o più bassi, sia l’esito di un conflitto di classe che vede i lavoratori da un lato e i datori dall’altro.

Quando il conflitto è sopito, in genere, i lavoratori stanno perdendo e i loro salari reali stanno crescendo poco o addirittura riducendosi. Lo sciopero è un indicatore importante di quanto questo conflitto sia presente nella società e, soprattutto nelle fasi economiche come quella che stiamo vivendo, ci può essere molto utile per spiegare cosa stia accadendo ai salari.

L’Italia, infatti, mentre si caratterizza per la scarsità di mobilitazioni, si caratterizza anche per essere il paese che ha visto la crescita dei salari monetari più bassa d’Europa. Secondo uno studio della banca britannica Barclays, l’Italia ha registrato un tasso di crescita dei salari monetari ben inferiore rispetto a quello delle altre grandi economie europee. In Italia, infatti, le retribuzioni contrattate nel 2023, sono cresciute del 3%, mentre la media europea è pari al 4,5%. In Europa, la Germania ha registrato un aumento del 4,5%, la Francia del 3,9% mentre il Belgio, in virtù di un sistema di indicizzazione dei salari all’inflazione, ha registrato un aumento delle retribuzioni pari al 7%.

Questa condizione si rispecchia benissimo nella caduta dei salari reali che, come riporta l’articolo di Domani citando dall’OCSE, è stata pari al 7,5% in Italia, al 4% in Spagna e al 3,2% in Germania, mentre in Francia si registra addirittura un lieve aumento (1,5%).

La questione salariale rappresenta, quindi, una vera e propria emergenza per il paese. La necessità di aprire una decisa e estesa campagna di rinnovi contrattuali si fa sempre più cogente e richiede che i sindacati sappiamo tenere alto il livello delle pretese, svestendo i panni dismessi che hanno indossato finora.

A fronte di tutto questo occorre contrastare con vigore l’odiosa retorica che attacca oggi il diritto allo sciopero facendo leva sulla presunta tutela del cittadino utente per delegittimare i lavoratori dei servizi pubblici e, per estensione, tutti i lavoratori nel loro insieme.

Una delegittimazione ideologica agitata ad arte per creare divisioni e spaccature fittizie nella società cercando di instillare nella collettività l’idea falsa che i disservizi pubblici siano legati ai pochi scioperi annuali e non invece al drammatico ridimensionamento del loro finanziamento statale.

Una retorica velenosa che fingendo di voler tutelare il diritto, senza dubbio sacrosanto, dei cittadini a prendere autobus e treni per spostarsi, attacca il diritto allo sciopero nel suo complesso, nel trasporto e altrove, legittimando così quel cortocircuito vizioso che in ultima istanza va a detrimento di cittadini e lavoratori nel loro insieme.

Ribaltare a 180 gradi la retorica salviniana della precettazione degli scioperanti per la tutela degli utenti, significa ricordare che il peggioramento drammatico dei servizi è l’altra faccia della medaglia del deterioramento di salari e condizioni lavorative sia nel settore pubblico in senso stretto che nelle aziende nate dai processi di privatizzazione: tutte politiche figlie dell’austerità di bilancio, dei tagli alla spesa pubblica e sociale e del neoliberismo nel suo insieme.

Miglioramento delle condizioni di lavoro di tutti i lavoratori, crescita dei salari e potenziamento della quantità e qualità dei servizi pubblici rappresentano l’unica soluzione per tutelare gli interessi della collettività e rompere le false contraddizioni tra lavoratori e cittadini-utenti rinfocolate ad arte dai governi di turno.

*Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org

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