L’arresto dell’imprenditore calabrese titolare di cinque supermercati in provincia di Catanzaro, che pagava i dipendenti 4,00 euro l’ora a fronte di un orario settimanale superiore a quello consentito ed al quale sono stati sequestrati ben 27 milioni di euro, non è che l’ennesima dimostrazione del fatto che la Calabria è la punta più avanzata dello sfruttamento capitalista.
Da quanto appreso dalla stampa l’imprenditore non permetteva ai propri dipendenti di usufruire delle ferie e delle agevolazioni per infortuni sul lavoro. Dovrebbero fare riflettere le dichiarazioni entusiaste di qualche esponente del governo Meloni, il quale di fronte al lavoro sottopagato e con scarse tutele, ai lavoratori sottrae tutti gli strumenti che possono garantire un minimo di difesa.
Questa è la logica perseguita da questo governo, che poi decanta il falso aumento degli occupati, dimenticando di raccontare che tipo di lavoro sta aumentando nel nostro paese: quello che non riconosce alcuna dignità e che si trasforma in una condizione degradante e mortificante e che sembra essere da diversi anni la caratteristica sempre più diffusa nella quale si presenta il lavoro in Italia.
Il governo italiano nel frattempo ha provveduto ad eliminare il reddito di cittadinanza il quale, nonostante le tante criticità, ha rappresentato sia un’importante misura di sostegno contro l’indigenza, permettendo a circa 450 mila famiglie di uscire da una condizione di povertà assoluta, sia una misura di lotta aumentando il potere contrattuale dei beneficiari sul mercato del lavoro.
Una ulteriore guerra ai poveri da parte del governo è rappresentata dal disegno di legge 1532 bis, intitolato “Disposizioni in materia di lavoro”, presentato da ben otto ministri del governo Meloni, guidati dalla ministra del lavoro Calderone, che contiene una norma sfacciatamente a sostegno dei padroni.
L’articolo 9, considera dimissioni volontarie del lavoratore l’assenza ingiustificata superiore a cinque giorni e senza che il lavoratore abbia manifestato alcuna volontà esplicita di lasciare il lavoro. Infatti, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore, senza corresponsione della Naspi al novello disoccupato.
La logica del provvedimento è semplice: i lavoratori devono accettare le condizioni poste dai padroni, punto e basta. Il ricorso dei lavoratori all’utilizzo delle dimissioni per difendersi va limitato al minimo, per evitare che si trasformi in un’arma che metta in difficoltà il padrone. E al padrone va concessa la massima libertà di poter disporre del lavoro altrui, anche a salari bassi e rispettando solo in parte le condizioni previste dai contratti.
Per chi vive di lavoro precario e saltuario questa norma, se sarà approvata, rappresenterà un altro colpo alla possibilità di difendersi e metterà i padroni in una condizione di ulteriore vantaggio. Dall’analisi della Cgia di Mestre emerge che in Calabria, con il 19,6 per cento di lavoratori in nero in rapporto al totale degli occupati e a fronte del dato medio nazionale che è dell’11,3%, si registra la presenza più alta di occupazione irregolare (117.400 unità) nel sud.
L’analisi indica in circa 68 miliardi di euro il volume d’affari annuo riconducibile al lavoro irregolare nel Paese, di cui 23,7 miliardi nel Mezzogiorno, 17,3 nel Nordovest, 14,5 nel Centro e 12,4 nel Nordest. In Calabria si parla di 2,5 miliardi di euro. Se misuriamo l’incidenza percentuale di questo ammontare sul valore aggiunto totale regionale, la quota più elevata, pari all’8,3 per cento, interessa ancora la Calabria, seguita dalla Campania con il 6,9 per cento e dalla Sicilia con il 6,6 per cento.
La media nazionale è del 4,2 per cento. Il fenomeno tuttavia, riporta l’analisi della Cgia, è esteso anche al Centronord ed ha una presenza record soprattutto nel settore dei servizi alle persone (colf, badanti). Il tasso di irregolarità di questo settore raggiunge il 42,6%. Al secondo posto si collocano i lavori in agricoltura (16,8%), al terzo le costruzioni con il 13,3%.
L’analisi si sofferma anche sul fenomeno dello sfruttamento e del caporalato che interessa le categorie sociali più fragili come le persone in condizione di estrema povertà, gli immigrati e le donne. Tra le realtà a maggiore incidenza del fenomeno si cita la Piana di Gioia Tauro assieme all’Agro Pontino, al Nocerino-Sarnese, a Villa Literno e alla Capitanata di Foggia.
Ciò avviene in un contesto che vede la Calabria già segnata dal reddito pro capite più basso d’Italia a fronte di tassi di evasione fiscale e di economia sommersa più alti del Paese. La Calabria ha il tasso di occupazione più basso d’Italia e il tasso di disoccupazione più alto, ma vanta, si fa per dire, il più elevato tasso di lavoro nero e precario e la percentuale più consistente di inoccupati.
Ma non basta perché parallelamente, come ha recentemente dichiarato la responsabile regionale dell’Inail, Teresa Citraro, in relazione alle denunce d’infortuni sul lavoro, in questa prima parte del 2024 la Calabria realizza un grave aumento del 4,6%, contro l’1,7 mediamente registratosi nel resto del Paese, con un drammatico incremento del 130% degli incidenti mortali per i primi 4 mesi dell’anno.
Sempre secondo l’Istat il salario medio in Calabria è di circa 1.200 euro al mese, significativamente inferiore alla media nazionale di 1.800 euro. Ciò è la diretta conseguenza dell’oramai noto fenomeno della “fuga dei cervelli”. Circa il 30% dei laureati delle università calabresi, infatti, cerca lavoro al di fuori della regione, attratto da opportunità di crescita migliori e salari più alti (fonte: ANVUR, “Rapporto sulla Mobilità dei Laureati”, 2024).
Questo contribuisce ulteriormente alla carenza di personale umano qualificato nella regione, che invece si fa valere molto nel resto d’Europa, segno tangibile dell’ottima preparazione assunta negli atenei calabresi. L’Italia non è un paese per giovani, tantomeno la Calabria. Tra precariato, stipendi da fame, inflazione ed emigrazione sono pochi i giovani che possono permettersi di costruirsi una vita autonoma.
Per la prima volta da molte generazioni il futuro che ci vedrà protagonisti sarà peggiore di quello dei nostri genitori! Precarietà infinta, accesso allo studio sempre più difficile ed elitario, nessuna prospettiva di stabilità. Per questo abbiamo depositato la proposta di legge di iniziativa popolare per un salario minimo legale di almeno 10 euro l’ora, indicizzato al costo della vita.
Il salario minimo è il primo passo necessario per dare una svolta a questo quadro desolante e aprire una strada verso il futuro che ci meritiamo, in cui avere una casa o fare figli non sembreranno più utopie, ma possibilità concrete!
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