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La gestione fallimentare della pandemia in Veneto

Ogni giorno il presidente del Veneto Luca Zaia va in televisione e fa il suo teatrino in cui dà i numeri della pandemia, ma li dà in modo tale che ci si capisca poco o nulla, per arrivare sempre e comunque alla stessa conclusione: in Veneto va tutto bene e se in Veneto ci sono molti contagiati è solo perché in Veneto si fanno molti tamponi.

E se qualcuno obietta che, ad esempio, il 12 dicembre su 19.902 nuovi contagi in Italia ben 5.098, cioè oltre il 25%, sono avvenuti in Veneto, Zaia spiega che noi i positivi li cerchiamo “con la rete a strascico” mentre invece in altre regioni li cercherebbero con il guadino, che sarebbe quella piccola reticella con il manico che usano i pescatori per tirare all’asciutto il pesce pescato con l’amo.

L’unico dato che conta è che da diversi giorni il Veneto è la prima regione d’Italia per contagi, decessi e ricoveri da Covid19. Il fallimento della gestione della pandemia nella nostra regione, che Zaia attribuisce di volta in volta all’irresponsabilità dei propri cittadini o al governo perché sarebbe stato quest’ultimo ad aver mantenuto la regione in “zona gialla”, è sotto gli occhi di tutti: il tanto decantato “modello veneto” si è sciolto come neve al sole. È il momento di denunciare questo fallimento e di cambiare completamente strategia.

Il Veneto fa tanti tamponi”: ma a chi?

Cominciamo a demistificare questa storia dei tamponi. È vero in Veneto se ne sono fatti molti più che altrove, quasi 3 milioni, in pratica 60 tamponi ogni 100 abitanti. Solo il Friuli e il Trentino-Alto Adige hanno fatto di meglio, rispettivamente con 69 e 67 tamponi ogni 100 abitanti. Il problema però non sono i tamponi, ma le persone cui viene sottoposto il test: non cosa viene fatto, ma come.

La “rete a strascico” di Zaia ha un problema perché pesca gli stessi pesci per più volte di seguito: i tre milioni di tamponi eseguiti in Veneto dall’inizio dell’epidemia corrispondono a 1.112.000 persone testate, cioè 22 ogni 100 abitanti. E qui casca l’asino, o meglio casca il “governatore”, perché in questa classifica il Veneto è solo al 12° posto in Italia. Al primo c’è il Lazio con quasi 33 persone testate ogni 100 abitanti, ma hanno testato più persone del Veneto anche la Toscana (26,8), l’Emilia-Romagna (25,5), la Lombardia (24,2) e il Piemonte (23,6).

Se poi si guarda alle persone testate dopo la fine della prima ondata, cioè tra il 1° luglio ed oggi, il Veneto scende addirittura al 16° posto con 14,3 persone testate ogni 100 abitanti. Peggio del Veneto fanno solo Abruzzo, Marche, Puglia e Sicilia, regioni per altro colpite molto meno dalla pandemia.

Va sicuramente detto che se si fanno molti tamponi alle stesse persone vuol dire che si sta facendo prevenzione sulle categorie più a rischio, per esempio il personale sanitario che fa un tampone ogni 20 giorni, e questa è un’ottima cosa, ma non può essere fatto passare per uno screening di massa come invece vorrebbe fare Zaia parlando di “pesca a strascico”.

Tracciamento, USCA, Immuni: la situazione è fuori controllo

È chiaro che, se non riesci a ricostruire le catene di contatti grazie a cui si diffonde il contagio, per dimostrare di stare facendo qualcosa e fingere di avere la situazione sotto controllo finisci per fare il tampone sempre alle stesse persone. È proprio ciò che sta succedendo in Veneto: è questa la verità dietro la retorica di Zaia sul numero assoluto di tamponi effettuati. In Veneto il sistema di tracciamento è completamente saltato.

5.000 nuovi casi di Covid al giorno è un numero che rende impossibile qualsiasi strategia di tracciamento dei contatti avuti dai nuovi positivi: non c’è abbastanza personale per identificare in 24 ore tutti quelli che potrebbero essere venuti a contatto con uno dei 5.000 nuovi positivi. E il problema non si pone certo adesso, con i numeri di questi giorni, ma è una realtà denunciata da esperti ed operatori del settore fin dall’inizio di novembre.

A questo proposito, due ulteriori dati parlano da sé. Il primo: a fine novembre in Veneto risultavano attivate solo 51 USCA su 98.

Le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, introdotte dal decreto legge 14/20 del 9 marzo scorso, sono precisamente le strutture che avrebbero dovuto potenziare le articolazioni territoriali della sanità – ma, un po’ in tutta Italia e in Veneto in particolare, sono rimaste solo sulla carta o sono state attivate quando la seconda ondata stava già montando.

Il secondo: a metà ottobre in Veneto il database di Immuni non risultava essere mai stato aggiornato, di fatto rendendo l’app uno strumento completamente inutile (perché senza dati aggiornati non può segnalare i contatti con i positivi), benché scaricato da oltre mezzo milione di persone a livello regionale.

Quindi non c’è nessuna “pesca” che funzioni, né quella a strascico né quella mirata. In Veneto la situazione è fuori controllo: il numero dei ricoverati e dei morti cresce ogni giorno, mentre cala nel resto dell’Italia.

A livello nazionale la seconda ondata della pandemia ha raggiunto il suo picco lunedì 23 novembre. Quel giorno in Italia i pazienti ricoverati per Covid erano 38.507 di cui 34.697 in reparto e 3.810 in terapia intensiva. Da quel giorno i numeri della pandemia a livello nazionale hanno cominciato a scendere e al 12 dicembre avevamo in Italia 7.242 ricoverati in meno (-18,8%) rispetto a tre settimane fa.

In Veneto invece il picco della pandemia non è ancora stato raggiunto, ed è stato ampiamente superato quello della prima ondata. Nelle ultime tre settimane i ricoveri sono aumentati del 24%, passando da 2.636 a 3.267 e in particolare sono cresciuti i ricoveri in terapia intensiva che sono passati da 300 a 373 (+24%). All’1 aprile, picco dei ricoveri Covid in regione della prima ondata, il totale era 2.028: il numero odierno indica un aumento del 61% delle persone ricoverate rispetto ad allora.

Il collasso di un intero sistema sanitario “virtuoso”

Per quanto Zaia cerchi di evitare di parlarne, cercando di nascondersi dietro la propaganda sulla “eccellente” sanità regionale, gli ospedali in Veneto sono al collasso.

Il 2 dicembre la ULSS 4 del Veneto orientale ha denunciato che l’ospedale di Jesolo ha esaurito i posti letto per i malati Covid, e che quindi saranno allestiti nuovi reparti per pazienti Covid negli ospedali di Portogruaro e di San Donà, chiaramente sottraendoli ad altre specialità.

Se ci spostiamo di poco, vediamo che a Padova sono stati chiusi reparti all’Ospedale Civile per far spazio ai pazienti Covid ed è stata utilizzata per i casi Covid anche la terapia intensiva dell’ospedale Sant’Antonio che durate la prima ondata invece era stata mantenuta “Covid free” per far fronte alle “normali” emergenze sanitarie, mentre nella bassa padovana hanno chiuso importanti reparti dell’ospedale di Schiavonia, sguarnendo di importanti servizi un territorio abitato da decine di migliaia di persone.

E solo il collasso delle strutture sanitarie può spiegare quello che sta succedendo a Verona dove si sono verificati più di mille contagi su cinquemila ospiti delle case di riposo ma solo 28 di questi hanno potuto essere ricoverati in ospedale, con il risultato di avere 556 morti, un decesso ogni dieci ospiti!

Ed è importante ricordare, per comprendere la gravità dei dati che stiamo riportando, che gli effetti della sospensione dell’attività nella sanità “normale” si faranno sentire a lungo, anche quando la fase più acuta della pandemia sarà alle nostre spalle: se vengono chiusi ospedali e reparti, infatti, a saltare è anche l’ordinaria attività di prevenzione, gli esami specialistici, il monitoraggio dei disagi cronici.

Le responsabilità sono della politica. Ora riaprire gli ospedali e assumere personale

Per concludere il quadro della situazione, nelle ultime 3 settimane la crescita del numero dei decessi in Italia è stata del 27%, dai 50.453 del 23 novembre scorso ai 64.036 del 12 dicembre. Nello stesso periodo in Veneto i decessi sono cresciuti del 42,2%, cioè di 1416 unità.

Per capire l’enormità di questo numero, in tre settimane (21 giorni), in Veneto abbiamo avuto gli stessi morti che ci sono stati dall’inizio della prima ondata fino al 28 aprile, 65 giorni. Rimane il mistero di come sia possibile che questa regione sia sempre e comunque in zona gialla – e di questo bisognerà chiedere conto anche al ministro Speranza, oltre che al governatore del Veneto.

Intanto ricordiamo a Zaia, e a tutti coloro che ne costituiscono l’“opposizione” tanto a livello regionale quanto nei singoli territori, che ci sarebbero dei modi per agire subito e con efficacia sulla sanità veneta e che sono stati proposti ancora mesi fa: tenere aperti gli ospedali di Valdobbiadene, Monselice, Zevio, Bussolengo e Isola della Scala, chiusi negli ultimi anni in nome di una centralizzazione del servizio sanitario regionale e di tagli alle risorse disponibili, ma riaperti in occasione della prima ondata (salvo poi essere richiusi nel corso dell’estate, come nel caso di Monselice); avviare una politica di assunzioni stabili per potenziare l’organico del personale sanitario – il che vuol dire rimediare al sottorganico prodotto da un decennio di sconsiderati tagli al personale, che sono stati voluti da Zaia e dai suoi collaboratori e di cui ora subiamo tutte e tutti le conseguenze!

Cambiare strategia: basta con il “produci, consuma, crepa”

Il fallimento della zona gialla in Veneto deve essere una occasione per rimettere in discussione i criteri che guidano le misure di contenimento della pandemia. Le attuali zone gialle, arancioni e rosse si basano sugli stessi criteri che a fine febbraio hanno permesso di non chiudere le fabbriche della bergamasca, causando un aumento della mortalità del 500% in quella provincia, gli stessi criteri che poi a marzo hanno permesso il balletto dei codici ATECO, con le infinite deroghe prefettizie.

La prima cosa ad essere garantita oggi in Italia non è la vita delle persone, ma i profitti delle imprese. Fabbriche e industrie sono sempre aperte e gli assembramenti lungo linee di montaggio e nei magazzini della logistica fanno morti, ma non fanno notizia.

Anche la Grande Distribuzione Organizzata viene penalizzata in modo del tutto simbolico ripristinando le chiusure domenicali, ma solo per alcune tipologie di negozi. E mentre da una parte bar e ristoranti vengono penalizzati, dall’altra si incita al consumismo più sfrenato in occasione del Natale.

Questo sistema basato sul profitto, sull’individualismo, sul consumismo non ha futuro. Sono necessarie chiusure più drastiche, finalizzate a bloccare davvero la diffusione dell’epidemia e non a favorire la grande industria e la grande distribuzione. Con l’epidemia i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: la cosa fondamentale è che sia garantito a tutte e tutti un reddito dignitoso attraverso una redistribuzione delle ricchezze.

Tassiamo subito i milionari, per garantire a tutte e tutti di vivere in sicurezza e salute!

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