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Gli “eroi” nazisti dell’Ucraina golpista e lo sciovinismo polacco

Continua il “triello” a distanza Kiev-Varsavia-Mosca sulle questioni (solo apparentemente) storiche. Dopo le dichiarazioni del Ministro degli esteri polacco Witold Waszczykowski, lanciate all’indirizzo dei nazisti ucraini dalle colonne di wPolityce con Bandera, voi in Europa non entrate” – da Kiev rispondono “Decidiamo noi chi siano i nostri eroi”.

Primo fra tutti si era espresso uno dei diretti chiamati in causa, quel Jurij Šukhevič, figlio del comandante dell’OUN-UPA Roman Šukhevič e oggi deputato del Partito Radicale alla Rada, non nuovo a prese di posizione “europeiste”, come ad esempio il disegno di legge sullo “status giuridico e le onorificenze da attribuire alla memoria dei combattenti per l’indipendenza ucraina nel XX secolo”, in cui sono comprese, per l’appunto, le SS dell’OUN-UPA. Šukhevič aveva risposto con una cortesia liberal a Waszczykowski, invitando gli ucraini a “sputare sul muso ai polacchi”: cosa ce ne facciamo di “simili partner” aveva detto; “partner che pretendono che noi danziamo al suono dei loro pifferi. In fin dei conti, cosa sono questi polacchi, che vogliono stabilire chi sia per noi un eroe, chi non lo sia, chi abbia dei meriti di fronte all’Ucraina e chi no?”.

Al seguito di Šukhevič, il politologo Markijan Lubkivskij sostiene che le dichiarazioni del Ministro polacco “sono intempestive, non amichevoli e nuocciono alle relazioni bilaterali”, per cui Kiev dovrebbe pretendere da Varsavia spiegazioni “per le affermazioni circa il passato storico dell’Ucraina e Stepan Bandera”. Lubkivskij si aspetta che il Ministero degli esteri ucraino “convochi l’ambasciatore polacco per chiedere chiarimenti” circa le dichiarazioni di Waszczykowski, che costituiscono una “interferenza negli affari interni ucraini. Siamo noi a decidere chi siano i nostri eroi”, ha tuonato il politologo sulla scia dell’erede banderista, in riferimento al fatto che, con decreto di Petro Porošenko, due anni fa il 1 gennaio è diventato festa nazionale ucraina, in onore alla data di nascita del “sacro eroe” Stepan Bandera.

Chi invece un ambasciatore polacco non intende convocarlo, ma cacciarlo direttamente, senza tante cerimonie, è il deputato del Partito Comunista russo alla Duma, Nikolaj Kharitonov, in risposta alla decisione polacca sullo smantellamento di oltre duecento monumenti dedicati ai seicentomila soldati dell’Esercito Rosso che perirono in territorio polacco per liberare il paese dal nazismo. Kharitonov, in risposta al passo sciovinista polacco – la legge approvata lo scorso 22 giugno prevede in particolare l’eliminazione di ogni simbologia che possa ricordare “l’ideologia comunista”, a partire dalla stella rossa che campeggia su gran parte dei monumenti – chiede al governo di rompere le relazioni diplomatiche con la Polonia, richiamare l’ambasciatore russo a Varsavia e chiudere i rapporti commerciali col vicino occidentale.

Vicino occidentale, che riceve oggi la visita del presidente USA Donald Trump, in occasione della conferenza cosiddetta “Intermarittima”, dei paesi compresi tra i bacini di mar Baltico, Nero e Adriatico e il cui presidente, Andrzej Duda, ha dichiarato per l’occasione che desidererebbe “che la presenza degli alleati e soprattutto degli Stati Uniti sul nostro territorio avesse un carattere permanente. Gli USA, ha dichiarato Duda a polskieradio.pl, rappresentano “una garanzia di sicurezza militare” e la visita di Trump in Polonia rafforza la posizione polacca nell’Unione Europea.

Difficilmente, dunque, la richiesta di Kharitonov in risposta allo sciovinismo di Varsavia avrà un seguito alla Duma; più probabili, passi concreti, ma “più elastici”, della diplomazia russa nei confronti delle autorità polacche. D’altronde, non risulta che nemmeno l’ambasciata ucraina in Russia sia stata chiusa o si siano interrotti i rapporti commerciali tra Kiev e Mosca, che anzi continua a essere il principale o uno dei principali partner economici dell’Ucraina; eppure, Mosca avrebbe avuto moltissime più ragioni per un passo simile, nei confronti delle provocazioni della junta golpista ucraina, che non dei passi della Polonia nazional-conservatrice.

E nemmeno sembra che, a dispetto delle dichiarazioni di Varsavia, i nazisti ucraini intendano rinunciare tanto presto ai loro “eroi” che servirono le SS. Tanto più che a Kiev irridono alle “questioni storiche” polacche, non foss’altro perché, loro stessi, sanno che, di fatto, la questione dell’ingresso formale nell’Europa non è così vicina e possono benissimo affermare che “avranno da passare alcune decine di altri Waszczykowski, prima che si parli dell’ingresso nella UE, da cui siamo ancora ben lontani”.

Molto più verosimile di ogni rottura diplomatica nel triangolo Kiev-Varsavia-Mosca e molto più prossima temporalmente, sembra invece essere la prospettiva che, per le imposizioni dettate dal FMI a Kiev per la concessione della nuova tranche di “aiuti”, metà della popolazione ucraina, composta in larga parte di lavoratori costretti a emigrare per poter trovare occupazione, rimanga senza pensione. D’altra parte, i soldi del FMI sono essenziali per Kiev, il cui debito estero negli anni del governo golpista è balzato da 22 a 74 miliardi di dollari, di cui ben 62 di debito pubblico e negli ultimi due mesi lo stesso FMI si è appropriato del 75% delle riserve auree ucraine, a compensazione dei prestiti.

Ancora una volta, più che le parole decide il tesoro; o, per dirla con il vecchio Theodor Fontane: abbi la proprietà e avrai il diritto.

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