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La Nato si schiera per il ‘NO’ al referenzum?

A ben guardare, l'annuncio del segretario generale Nato Jens Stoltenberg, fatto non incidentalmente in casa dei diretti interessati, sull'invio di 140 militari italiani in Lettonia, a completare i quattro battaglioni (di 1.000 uomini ciascuno) che l'Alleanza Atlantica ha deciso di dislocare in Polonia e nei Paesi baltici, in sé e per sé non è una “nuova notizia”. Lo si sapeva da tempo e anche Contropiano vi aveva accennato nel luglio scorso, dopo il vertice Nato di Varsavia. Del dispiegamento dei quattro battaglioni, poi, si sa da molto prima che il vertice di Varsavia adottasse la risoluzione definitiva e lo stesso Stoltenberg lo aveva ribadito a giugno, alla riunione dei Ministri della difesa della Nato.

Il sito baltnews.lv, a inizio agosto, scriveva che nel battaglione comandato dai canadesi (i quattro battaglioni multinazionali che, dal 2017, verranno dislocati in Polonia, Estonia, Lituania e Lettonia saranno sotto comando rispettivamente di USA, Gran Bretagna, Germania e Canada) “possono entrare anche circa 150 soldati italiani”, mentre con gli altri paesi – con riferimento a Francia, Belgio, Danimarca e Norvegia – “si sta ancora trattando”. Dettaglio “curioso”, baltnews scriveva testualmente che, oltre ai canadesi, “la partecipazione di soldati degli altri stati al battaglione multinazionale in Lettonia sarà annunciata da quegli stessi stati”! Evidentemente, alla Nato hanno concluso che l'ipocrisia del governo Renzi sia tale per cui un annuncio diretto non sarebbe mai arrivato da Roma e la notizia sarebbe forse stata diffusa solo a cose fatte, nel 2018, data per cui è decisa la partenza del contingente italiano; o, quantomeno, dopo il referendum di dicembre, per non fornire un ulteriore argomento a favore del “NO”.

E poi, oltre ai 140 o 150 soldati che dovranno schierarsi in Lettonia, da tempo velivoli da guerra italiani partecipano nel Baltico, a rotazione con altri paesi Nato, al cosiddetto “pattugliamento” dei cieli ai confini nordorientali dell'Alleanza Atlantica e nessuno ha mai detto se quegli aerei italiani portino a bordo ordigni convenzionali o, a seconda del “clima”, anche nucleari. E, da sud a nord dei confini russi, non da ora naviglio italiano partecipa alla squadra navale multinazionale che incrocia nel mar Nero e nel Baltico. E' inoltre certo che reparti italiani entreranno nella prevista task force aerea, navale e di terra, forte di quarantamila uomini, (anzi, Stoltenberg ha precisato che nel 2018 proprio l'Italia ne sarà paese guida) che la Nato programma di dislocare in una rete di “agili punti di forza, con rotazione di truppe, periodiche esercitazioni militari e apertura di depositi per attrezzature militari”, dopo l'apertura dei sei centri di comando (Nato Force Integration Unit) in Lituania, Bulgaria, Lettonia, Polonia, Romania ed Estonia.

Ed è molto probabile che anche vascelli italiani partecipino all'operazione di “scorta” della squadra navale russa che oggi transiterà nel mar del Nord, per raggiungere entro una settimana il Mediterraneo orientale. A sorvegliare da vicino il naviglio russo – un incrociatore portaerei, un incrociatore atomico lanciamissili, due navi antisom e vascelli di scorta – sono mobilitate per ora forze aeronavali Nato di Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda, Francia e Spagna. Visto che i vascelli russi entreranno nel Mediterraneo, sarà quasi certamente compito della marina italica dare il cambio alla scorta.

Dunque, anche senza l'aggiunta di quei 140 uomini, l'Italia è da tempo militarmente schierata ai confini con la Russia e ogni dichiarazione sul “dialogo” con Mosca, sulla ricerca di “avvicinamento”, sembra avere poco più che valenza interna. Nei fatti, Roma è parte attiva dell'espansione della Nato a ridosso delle frontiere russe; un'espansione che i massimi esponenti USA ed europei, poco prima della fine dell'Urss, quando si trattava di strappare a Mikhail Gorbaciov il via libera all'annessione della DDR da parte della RFT, avevano giurato e spergiurato non sarebbe mai avvenuta. E intanto gli USA, sotto il cui comando agiscono i paesi dell'Alleanza Atlantica, Italia compresa, si apprestano a schierare anche nei Paesi baltici sistemi di difesa antiaerea “Patriot”, dopo che hanno già trasferito in basi dell'Europa centrale numerosi caccia multifunzione F22 “Raptor”, dopo l'installazione in Romania e Polonia dei sistemi di direzione automatica “Aegis”, armati di missili-intercettori “Standard-3” e ora che, il prossimo febbraio, una forza autonoma USA di 4.500 uomini verrà dislocata in vari paesi esteuropei ai confini russi.

Il sito mk-lat.lv, a settembre si chiedeva “Porteranno la tranquillità in Lettonia i soldati stranieri? A che scopo soldati Nato in Lettonia? Da chi saranno comandati? Saranno pronti a entrare in combattimento?”. Le stesse domande che ogni cittadino italiano avrebbe il diritto – e il dovere – di rivolgere al proprio governo. “Nonostante i mantra tranquillizzanti dei politici sull'impossibilità di un conflitto militare tra il nostro vicino orientale e la Nato, prosegue la militarizzazione dell'intera regione del Baltico”, scriveva mk-lat.lv. “L'ultimo soldato russo ha lasciato il territorio lettone nel 1995” continua il Moskovskij Komsomolets lettone “e per quasi 20 anni non c'è stato soldato straniero sulla nostra terra, a parte quegli alleati durante le esercitazioni. Tutto è cambiato nel 2014. Gli Usa, principali gendarmi della democrazia sul pianeta, hanno cominciato l'operazione Atlantic Resolve e allora è giunta in Lettonia la prima compagnia di soldati americani, che devono rimanere permanentemente nel paese”. Mk-lat.lv scriveva poi dei 200 soldati USA della 3° Divisione di fanteria, con 9 carri Abrams e 5 blindati Bradley, presenti nella base di Ādaži, una ventina di km a nordest di Riga e anche dei 60 soldati del 501° reggimento dell'aviazione dell'esercito USA, con 5 elicotteri Black Hawk, giunti nella base aerea di Lielvārde (50 km a sudest di Riga) e non dimenticava i 150 soldati italiani (dei militari degli altri paesi, il sito non scriveva: pare che il reparto italiano fosse l'unico di cui si avesse certezza) che dovranno entrare nel battaglione comandato dal Canada.

Se lo stesso segretario del Ministero della difesa lettone, Janis Garisons, confessava candidamente di non sapere ancora se i soldati lettoni della base di Ādaži dovrebbero essere agli ordini dei propri comandi o di quelli USA o Nato, non è difficile immaginare a chi risponderanno i 150 militari italici: di sicuro, non al Parlamento italiano. Se la compagnia yankee è stata dislocata in Lettonia, a detta di Garisons, “per scongiurare un possibile attacco da parte della Russia”, mk-lat.lv replica semplicemente che “la Russia non ha mai manifestato alcuna intenzione di attaccare la Lettonia”; inoltre, lo stesso Garisons afferma che “i paesi i cui soldati si trovano sul nostro territorio, non hanno fornito alcuna garanzia che, in caso di attacco alla Lettonia, i loro reparti ingaggerebbero combattimenti coi potenziali nemici”.

Dunque, a difesa di cosa saranno schierati i soldati nostrani? Ancora una volta, a difesa di infrastrutture energetiche controllate anche da banche italiane? O saranno invece impiegati in servizio d'ordine alle parate annuali, a Riga, degli ex legionari lettoni, lituani ed estoni delle Waffen SS, “istituzionalizzate” ora dalle massime autorità locali? Parteciperanno i nostri militari alle celebrazioni ufficiali lettoni di fronte al monumento dedicato ai “fratelli dei boschi”, gli ex legionari nazisti baltici che seminarono il terrore in quelle zone per buona parte degli anni '50? O ancora, monteranno la guardia ai futuri ghetti in cui le organizzazioni nazionaliste e neonaziste propongono (col beneplacito ufficioso del Ministero della giustizia) di deportare i circa 250mila “non cittadini” e “non uomini” russi della Lettonia, per preservare la purezza degli “ariani” lettoni?

Molto improbabile che ciò avvenga. Mentre ci auguriamo che non finisca davvero così, ci domandiamo anche quale tipo di “democrazia” vadano a difendere le armi italiche; una democrazia che manda in galera per la minima esposizione di “simbologia comunista”, che sanziona il sindaco della propria capitale per l'uso della lingua russa, che non ammette al voto alcune centinaia di migliaia di propri cittadini, rei di parlare russo, e che innalza agli onori nazionali le proprie ex SS. E ci domandiamo anche contro quale “pericolo di aggressione”, che non sia quello portato dalla Nato stessa nella propria espansione a est, si mobiliti il governo italiano.

Chissà se Stoltenberg, rilasciando proprio ora la dichiarazione ai media italiani, avesse un occhio puntato anche al referendum del prossimo dicembre e, se sì, quali obiettivi possono essersi posti al quartier generale Nato nei confronti del governo di Roma, oltre la smania di dimostrare una volta di più agli elettori italiani chi è che comanda a Roma e a Bruxelles?

 

Fabrizio Poggi

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