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Più Europa (e meno Spagna). O no?

Vi ho parlato in un post precedente di un economista eterodosso, un certo Pesce (o almeno così lo chiamavano a Roma), che in un convegno scientifico passato alla storia come il mountain workshop (il seminario della montagna), del quale sta per ricorrere il duemillesimo anniversario, disse una serie di cose di grande attualità, che via via abbiamo commentato in questo blog. Ieri alcuni lettori, chi in forma privata (per non perdere il posto di lavoro), chi in forma pubblica, mi hanno segnalato questo articolo di Repubblica, e le parole immortali di Pesce mi si sono stagliate davanti agli occhi: a fructibus eorum cognoscetis eos.

Eh già! Perché per valutare appieno la portata di questa ennesima riedizione del mantra “più Europa”, più che entrare (o rientrare) nel merito di cosa sia una zona valutaria ottimale, occorre e basta scorrere la lista dei firmatari, e contare le menzogne, le pure, semplici, sfacciate, incontrovertibili menzogne (nel senso di sovvertimenti e presentazioni distorte della realtà fattuale consegnataci dalle statistiche) sulle quali i firmatari basano i loro argomenti.

Il più noto dei firmatari, il professor Prodi, ha spinto molto perché l’Italia entrasse nell’euro, sostenendo che questa misura avrebbe avuto grandi vantaggi per noi. Ora che l’euro si rivela insostenibile, ci viene a dire però che comunque non ne usciremo perché esso fa comodo… non più a noi (come diceva prima), bensì alla Germania! Una dichiarazione surreale, di cui ci sorprende non tanto il contenuto, che a noi è assolutamente ovvio (abbiamo spiegato più volte come e perché le asimmetrie dell’euro avvantaggiano alcuni paesi a danno di altri, ponendo le basi per la disgregazione economica, sociale, culturale e civile di questo continente), quanto la disarmante sfacciataggine. Evidentemente il professor Prodi pensa che alle tante famiglie che negli ultimi tempi hanno subito lutti di varia natura (dalla Thyssen Krupp di Torino, fino ai suicidi degli ultimi giorni), alle famiglie che quindi si stanno ponendo le domande drammatiche che tutti noi, prima o poi, ci dovremo porre, su quale sia il senso dell’esistenza, sia di conforto il sapere che nei drammi che hanno subito un senso in effetti c’era: tutto questo è successo ad majorem Alamanniae gloriam.

Un altro firmatario di spicco, il professor Attali, ha anche lui partecipato, in quota Mitterand, alla costruzione di questa catastrofe annunciata, di questo assoluto nonsense economico che è stato l’euro. Nonsense economico dotato però di un ben preciso senso politico: la rivincita del capitale sul lavoro, con la compressione dei salari e l’espansione della disuguaglianza, come ci indicano i dati e tanti studi scientifici. Lui, Attali, invece, cosa ci dice? Con una bonomia molto Louis XIII, nel rivendicare il privilegio di aver tenu la plume (tenuto la penna) che ha scritto il Trattato di Maastricht, ci dice che in effetti il metodo seguito non è stato molto democratico (très démocratique), ma che questo furto di democrazia era essenziale per costringere gli elettori ad andare oltre (nous forcer d’avancer), verso il famoso “più Europa”.

E una riflessione anche qui si impone, semplice, ma essenziale: come si può pensare che l’adozione di un metodo dichiaratamente non democratico possa condurre ad esiti democratici (o comunque “migliori” per una società democratica)? Attenzione: qui non c’è complottismo: qui abbiamo la confessione da parte di uno dei protagonisti del fatto che si è deliberatamente scelto di adottare un metodo non democratico.

E questa scelta è tanto più grave, proprio in quanto la letteratura economica aveva esplicitamente messo in guardia contro i pericoli di un Trattato che (in modo dittatoriale) non fornisse vie di uscita: ho citato più volte gli avvertimenti di Martin Feldstein di Harvard (che non sarà l’Ena, ma si difende…). Un tema, del resto, che è stato ripreso oggi (“The Eurozone needs exit rules“) e sul quale, come sapete, sto organizzando un convegno scientifico col sostegno del mio dipartimento e di una rete internazionale di economisti. Ma questo paternalismo, il paternalismo che avevo trovato agghiacciante nella conversazione che forse ricorderete con Aristide, è quello connaturato alle nostre élites “europee”: profondamente, convintamente, e sfacciatamente antidemocratiche. E quello che veramente mi stupisce e mi urta, ancora una volta, è la sfacciataggine. E quello che mi terrorizza è che essa non promuova alcuna reazione.

Sempre qui trovate i firmatari.

Qualcuno potrebbe anche dirsi che a questo punto leggere il resto è inutile, no? Basta aver letto l’Eneide: timeo Danaos et dona ferentes. Qualcuno potrebbe in effetti concludere che qualsiasi cosa propongano delle persone simili, è chiaro che è una fregatura!

Il post potrebbe quindi chiudersi qui, sulla constatazione del fatto che chi oggi propone “più Europa” lo fa confessando di avere in passato obbedito a una logica profondamente antidemocratica, quella che consisteva nel nascondere agli elettori i costi dei quali era certo il manifestarsi, affinché questi costi, dimostratisi insostenibili, spingessero gli elettori a fare una ipotetica e improbabile cosa giusta chiamata “più Europa”. Cioè: invece di dire agli elettori: “volete più Europa? Guardate, avrà dei costi, ma poi ne trarremo vantaggi”, agli elettori è stato detto “dai, facciamo l’euro, ne avremo solo vantaggi, sarà bellissimo!”, salvo poi, una volta scoperto da tutti che le cose non stanno così, dire “be’, sì, lo sapevamo che c’erano dei costi, ma vedete, ormai si può solo andare avanti…”. Ma siamo sicuri che delle persone che ragionano così sappiano verso dove stanno andando? E che sapendolo ce lo dicano? Perché mai chi ha mentito una volta (e se ne vanta) dovrebbe ora dire la verità?

Se ne potrebbe concludere, e forse non si sarebbe troppo sbrigativi, che chi dice “più Europa” va isolato e combattuto politicamente (nella misura in cui uno tenga alla democrazia: se invece non ci tiene, può unirsi al coretto: “più Europa”). Anche perché, attenzione attenzione, “più Europa” poi cosa significa per questi buontemponi? Permettere che delle istituzioni già sufficientemente lontane da noi, non si sa bene se e come e da chi elette, maneggino una quota sempre più grande dei nostri soldi… naturalmente a fin di bene, per il nostro bene, per quel nostro bene che noi non sappiamo quale sia, tant’è che per farcelo fare ci hanno dovuto nascondere qualche trascurabile dettaglio (come quello che una moneta unica in una zona che non è un’area valutaria ottimale può solo cagionare disastri, come sta facendo)!

Ma

Facciamoci del male…

Leggiamo, leggiamo l’analisi. Cominciamo dalla prima frase:

La crisi della zona Euro non è iniziata con la crisi greca ma è esplosa molto prima, quando è stata creata un’unione monetaria senza unione economica e fiscale nel contesto di un settore finanziario drogato da debiti e speculazione.”

E qui la domanda sorge spontanea: certo, il problema è aver creato un’unione monetaria dove non ne sussistevano i presupposti, ma chi è responsabile di questa decisione? Chi ha deciso di procedere verso la moneta unica contro l’avviso pressoché unanime di tutti gli economisti, fatti salvi due o tre gnomi di palazzo? Voi! Solo che, vedete l’abilità retorica: mettono due parolette, “debito”, “speculazione”, due parolette che nell’immaginario collettivo identificano il male… E in questo modo la domanda che a noi sorge spontanea (ma perché avete creato un’unione monetaria senza unione economica?) il lettore mediano non se la pone. Dice fra sé: “com’è vero, la colpa è della speculazione…”, e continua a leggere. Continuiamo a leggere anche noi, che la risposta la sappiamo: l’unione monetaria senza unione economica è stata creata da questi signori perché essa era funzionale agli interessi di un certo capitalismo poco lungimirante. Ma vediamo, vediamo cosa ci dicono…

Certo, i debiti pubblici sono esplosi in questi ultimi trent’anni ma sono gli squilibri fra i paesi della zona Euro che hanno determinato la situazione attuale.”

Altra frase parzialmente condivisibile: certo, sono gli squilibri della zona euro ad aver determinato il problema. Frase condivisibile ma, aggiungo, tautologica. Di fatto i nostri economisti ci stanno dicendo che la zona euro è squilibrata perché è squilibrata, una conclusione alla quale, senza di loro, non saremmo mai arrivati! Ed esattamente come sopra, la metà condivisibile del periodo è del tutto generica e serve solo a distrarre il lettore mediano, per rifilargli nell’altra metà un messaggio molto preciso e molto falso: quello che la crisi nasca dal debito del settore pubblico. Ora, noi sappiamo, e lo abbiamo visto fin dal primo post, che ciò non è vero. I dati statistici, la scansione temporale degli eventi, e anche la teoria economica, ci indicano chiaramente che i problemi che stiamo vivendo sono nati nella finanza privata: quando la crisi è esplosa, i debiti pubblici stavano diminuendo ovunque, perfino in Italia, ma nei paesi periferici stavano aumentando i debiti privati contratti con creditori esteri (guarda caso, del “Nord”).

E così abbiamo acquisito un altro punto essenziale: fateci caso: chi propone la terapia “più Europa” parte sempre da una diagnosi sbagliata, la diagnosi ideologica dei Boldrin, dei Giavazzi, per i quali il nemico è comunque, contro ogni sensata evidenza, il debito pubblico, cioè lo Stato. Una diagnosi che però, guarda caso, non tiene conto del fatto che in tutti i paesi andati in crisi il debito pubblico stava diminuendo, tranne in uno, il Portogallo, dove comunque era su livelli che a noi sembrerebbero paradisiaci. La diagnosi giusta è allora quella dei De Grauwe, dei Krugman, degli Stiglitz, i quali invece ci dicono il problema è nato nel Mercato, nella finanza privata. Ma di questa finanza privata molti estensori dell’articolo sono stati docili accoliti o solerti agiografi. E questo, se da un lato ci fa capire perché desiderino sminuirne le responsabilità, dall’altro non è esattamente una garanzia di equanimità e di efficacia delle loro proposte.

E allora andiamo avanti:

Da una parte, un insieme costituito dai paesi del Nord Europa con la Germania in testa ha costruito la sua economia sulla competitività e le esportazioni. D’altra parte, i paesi della periferia hanno utilizzato deboli tassi di interesse per alimentare la loro domanda interna e costruito la loro economia su settori di beni non esportabili o meno sottoposti alla concorrenza esterna come il settore immobiliare.”

E qui anche ce n’è, da ridere. Certo, i paesi del Nord Europa hanno adottato una prospettiva mercantilistica, quella secondo la quale si tenta di crescere sfruttando la domanda estera, via esportazioni, anziché la domanda interna. La domanda interna, anzi, è stata sapientemente repressa, mediante una riforma del mercato del lavoro il cui finanziamento (loro non sono, come noi, quelli del “costo zero”) ha portato la Germania a violare le regole “europee” sul deficit, (quelle stesse che ora ci vuole nuovamente imporre), e che la ha avviata su un sentiero di crescita totalmente squilibrato, cosa della quale adesso paga le conseguenze (perché, che se ne renda conto o meno, sarà trascinata dalla caduta delle economie periferiche, sulle cui spalle ha finora campato).

Ma… hanno fatto bene, i paesi del Nord, a comportarsi così? È stato giusto praticare questa politica beggar-thy-neighbour? Questo gli amici del “più Europa” non lo dicono, ma qualcosa però lasciano intendere.

Perché, vedete, anche qui nel modo in cui la frase è formulata è implicito un giudizio morale: si capisce che tutto sommato per gli estensori del documento la responsabilità ricade sulle scelte sbagliate dei paesi del Sud. E sottopongo alla vostra sagacia una deliziosa chicca lessicale: vedete? Si parla di “deboli” tassi di interesse. Una scelta letterariamente raffinata: “bassi tassi” è uno sgradevole omoteleuto. Ma la scelta è raffinata soprattutto dal punto di vista retorico, perché, vedete, al termine “debole”, c’è poco da fare, si associa sempre una connotazione negativa. Oh, quanto sono bravi questi pessimi economisti nello stillare nelle orecchie del lettore mediano il giusquiamo del loro stucchevole moralismo!

Quindi, par di capire, la colpa è dei tassi “deboli” che hanno avviato la periferia su un sentiero di crescita tirato dalla domanda interna e da investimenti improduttivi. Certo, suona plausibile. Alla fine la colpa è loro, potevano fare qualcosa di diverso, questi meridionali: potevano essere produttivi, produrre beni esportabili, ad esempio, si dice soddisfatto e rassicurato il lettore mediano (ma lui cosa esporta? E quanto è produttivo? Questo non se lo chiede, il lettore mediano, come non si chiede da dove viene la carne che mangia…).

E qui le domande fioccano.

Intanto, scusate, gentili colleghi, ma non siete stati voi a ripeterci in più occasioni, prima e durante la crisi, che proprio la convergenza dei tassi di interesse verso il basso, cioè quello che oggi chiamate il loro “indebolimento”, avrebbe fatto mirabilia? Avrebbe permesso ai paesi indebitati di mantenere l’equilibrio finanziario (Prodi sul Messaggero del 31 dicembre 2011), avrebbe promosso la crescita stimolando gli investimenti (l’argomento di Modigliani, da me criticato nel 1997)… Questo era il primo buon risultato che l’età dell’euro avrebbe portato con sé. E come mai dopo che i tassi sono scesi la colpa è diventata loro? Ma come? Da salvatori a carnefici? C’è qualcosa che non va, no? Volete banalizzare il punto dicendo che sì, però la colpa è dei cittadini del Sud, che hanno fatto gli investimenti sbagliati? Certo, avessero fatto quelli giusti… Quindi è colpa loro!

No. Questo non ve lo permetto, gentili colleghi, e non ve lo permetto sulla base non solo della mia profonda identità europea, che mi vieta di adottare argomenti sostanzialmente razzisti, ma anche sulla base di ben precisi fatti economici, che voi non potete ignorare.

Tanto per cominciare, rovesciamo il vostro argomento: cosa avrebbero dovuto fare i paesi del Sud per essere bravi? Evidentemente, a sentire voi, avrebbero dovuto costruire la loro economia su competitività e esportazioni (cioè comportarsi come quelli del Nord)… Ma… Lo capite cosa state dicendo? State dicendo una assurdità a livello globale e a livello locale. A livello globale, è assolutamente evidente che occorre pensare modelli di sviluppo diversi da quello mercantilistico, per il semplice motivo che se tutti i paesi del mondo fossero esportatori netti, occorrerebbe inviare le nostre merci su un altro pianeta. E la stessa cosa, e voi lo sapete, vale anche a livello locale. Per paesi come la Spagna o l’Italia l’eurozona rappresenta oltre il 60% del proprio commercio. Il che, banalmente, significa che se nell’eurozona volessimo essere tutti esportatori netti, dovremmo costruire un’altra eurozona verso la quale esportare (non so, fate voi, magari due chilometri sottoterra), o rassegnarci al sorgere di un conflitto, perché sarebbe materialmente impossibile per i due paesi più grandi del Sud esportare di più senza che la Germania (loro principale partner) esporti di meno (in termini netti). Tanto è vero che l’eurozona, dal punto di vista commerciale, è e rimane un sistema chiuso, semplicemente perché il suo nucleo (la Germania) ha conti esteri in pareggio con il resto del mondo, e ha un surplus verso l’eurozona che algebricamente si compensa con il deficit dell’eurozona verso la Germania stessa.

E poi… Ma cosa deve, cosa può esportare il Portogallo, o la Grecia? Bisogna anche capire che le economie non hanno tutte le stesse dimensioni, e quindi non hanno tutte gli stessi vantaggi comparati, e quindi non possono seguire tutte lo stesso percorso. Vi sembra un motivo per eliminarle dalla geografia politica e economica di quel continente che volete “unire”? Vi sembra sensato proporre a economie che fino agli anni ’80 venivano classificate come “in via di sviluppo” dalla Banca Mondiale lo stesso modello di crescita che le economie mature del Nord hanno voluto e potuto seguire, in modo del tutto scoordinato da qualsiasi ottica di cooperazione “europea”? Questa è l’economia che conoscete voi? Questa è l’Europa che auspicate voi? L’Europa dei vasi di coccio, sperando di essere quello di ferro?

E poi… si fa presto a dire “investimenti improduttivi”! Guardiamo i dati, prendiamo ad esempio la Spagna. Il ritornello “bolla immmobiliare”! Quante volte lo abbiamo sentito… Ma… Sapete, qui dobbiamo fare almeno due riflessioni: primo, ma siamo proprio sicuri che gli spagnoli abbiano fatto solo investimenti “improduttivi”? Secondo: le famose bolle, con cosa vengono gonfiate? E chi ci soffia dentro?

Cominciamo dalla prima domanda. No: gli investimenti spagnoli non sono stati solo “improduttivi”. Nell’ultimo decennio (più esattamente, dal 2000 al 2010) la Spagna ha avuto un rapporto investimenti/Pil di circa 28 punti, contro i 18 della Germania, e i 10 punti di investimento in più si dividono più o meno equamente fra investimenti non residenziali e investimenti residenziali. È normale che un paese che parte da una posizione di relativo svantaggio faccia più investimenti, e questo la Spagna ha fatto, ed è per questo che l’integrazione finanziaria europea, in teoria, era stata fatta: per facilitare il finanziamento sui mercati dei paesi che erano rimasti indietro. Voi direte: “ma hanno costruito tante seconde case in riva al mare!”. Certo, lo so. Una cosa che difficilmente accadrebbe a Travemünde, per motivi che non sto a spiegarvi, e che probabilmente attengono al fatto che non tutti voi siete, come me, affascinati dalla prosa di Theodor Storm (e dai reumatismi). Scherzi a parte: certo, c’è stato anche un problema, è chiaro: oltre ai molti, necessari investimenti produttivi, ci sono stati anche investimenti azzardati, certo, e soprattutto in ambito immobiliare.

La famosa “bolla”. Ma cosa è una bolla?

Una bolla è un fenomeno che si verifica in un mercato quando il prezzo di un’attività (azione, casa, materia prima,…) comincia a crescere perché tutti si aspettano che cresca. E siccome se lo aspettano, comprano quell’attività, per rivenderla quando il prezzo sarà ancora cresciuto. E siccome comprano, il prezzo cresce, e altri sono invogliati a comprare aspettando ulteriori aumenti. E via così. Si chiamano self-fulfilling expectations (aspettative che si autorealizzano), e sono un fenomeno piuttosto consueto. Ma… questa bolla di cosa è riempita? Ma è chiaro: di soldi. E, ditemi, come la vedete voi? Se i prezzi delle case sono saliti, innescando il processo che poi ha determinato la diversione di investimenti verso il settore immobiliare, vuol dire che qualcuno, almeno all’inizio, le case le stava comprando. Se non lo avesse fatto, i prezzi non sarebbero saliti, e comunque nessuno avrebbe trovato conveniente costruire delle case che nessuno stava comprando, no? E allora ditemi, come la vedete voi? Secondo voi come è iniziato questo gioco? Da qualche parte i soldi per “innescare” il meccanismo saranno pure arrivati, no?

Forse è andata così: un giorno gli spagnoli sono scesi in giardino per annaffiare le piante, e strappando le erbacce si sono accorti che da sotto ai gerani spuntava lo spigolo di un vecchio forziere arrugginito. Apertolo con le debite precauzioni, lo hanno trovato pieno di pezzi da otto. E allora, siccome sono pigri e colpevoli, invece di investire questi pezzi da otto nell’acquisto di un’alesatrice, ci hanno comprato la casa al mare, investimento improduttivo, quindi meritano la fine che stanno facendo, con la disoccupazione oltre il 20%.

O forse è andata come dicono Lance Taylor e Roberto Frenkel: è una storia vecchia come il mondo: il “centro” impone alla “periferia” l’adozione di un tasso di cambio fisso. Lo fa sempre per ottimi motivi dichiarati: per “aiutare” i paesi periferici a combattere l’inflazione, per “promuovere” il commercio. E lo fa soprattutto per motivi non dichiarati: l’adozione di un cambio fisso elimina il rischio di cambio sugli investimenti finanziari nei paesi periferici (se ti presto dei soldi, ora non puoi più restituirmi pesetas svalutate), generalmente porta a tassi di interesse più elevati nei paesi periferici (e diventa così più conveniente farvi affluire fondi: lo abbiamo visto nel caso della Grecia), e naturalmente rende meno competitive le merci della periferia, che di fatto prende soldi in prestito anche per acquistare le merci del centro. Questo è il gioco che gli Usa hanno giocato con l’Argentina, e che la Germania ha giocato con la periferia dell’eurozona. Ed ecco da dove arrivavano i soldi che hanno gonfiato la bolla: non certo da ipotetici forzieri casualmente scoperti in giardino, ma dalle banche del centro (Germania, Francia, Belgio,…).

Ah, sì: qui l’elettore mediano dice: “ma no, non ci hanno imposto nulla: lo abbiamo scelto noi, democraticamente!”. Bene, caro elettore mediano (tipo l’amico del tornese): torna in cima a questo post e rileggi: sono loro che ti dicono che te lo hanno imposto non democraticamente. Se non credi a me, devi credere a loro. Tertium non datur (mi dispiace per Hegel, lo teniamo in caldo per la fine del post, qui usiamo Aristotele).

Ora, per gli “economisti” alla Benetazzo, Boldrin, ecc. (mi fermo alla “B”) sembra che la crisi debitoria sia tutta colpa della famiglia spagnola (o greca, o portoghese) che ha chiesto il mutuo. Cioè, nella testa di questi economisti, il mercato finanziario funziona così: se una famiglia chiede il mutuo, la banca glielo accorda subito, senza far storie. E quindi se si fanno troppi debiti, la colpa è necessariamente del debitore che ha chiesto i soldi, e non del creditore che li ha dati, poverino. Lui sì, bisogna tutelarlo. Spagnoli cattivi…

Ma… somiglia al mondo che conoscete voi? La vostra banca è così? Be’, se vi interessa, sicuramente non somiglia al mondo che conosco io. Come si fa, come può venire in mente a una persona minimamente sensata, di equiparare il ruolo, le competenze, gli insiemi informativi, di una famiglia, a quelli di una istituzione finanziaria? Come si può credere nel mercato, se al tempo stesso non si crede che il mercato abbia il dovere di esercitare tutta la due diligence nell’allocare le risorse in modo efficiente?

Vi spiego una cosa. Vi spiego cosa sapevano le famiglie (che secondo Boldrin e Benetazzo sono le colpevoli) e cosa sapeva il mercato. Le famiglie sapevano che stavano vivendo in un’economia che cresceva al 4% medio in termini reali (Spagna 1999-2006), cioè che offriva lavoro e ottime prospettive di guadagnarsi onestamente da vivere. Perché mai non avrebbero dovuto eventualmente sobbarcarsi un mutuo, in un’economia così fiorente? Fatemi capire, il signor Benetazzo quando compra un appartamento va dal notaio con una carriola di monete? O dobbiamo pensare che tutti gli spagnoli, animati da un intento fraudolento, abbiano dolosamente contratto dei mutui che sapevano di non poter pagare? Non credo proprio.

Vi spiego anche cosa sapevano le banche. Le banche del Nord sapevano benissimo che il paese verso il quale stavano convogliando la loro liquidità aveva già da tempo superato la soglia di guardia. Lo studio, più volte citato, di Manasse e Roubini (non due sconosciuti), chiarisce che la variabile più importante per prevedere una crisi di debito pubblico è il rapporto debito estero complessivo/Pil (complessivo, cioè pubblico e privato). Nel loro campione, che comprende 54 episodi di crisi verificatesi in 47 paesi, si riscontra che nell’anno precedente una crisi questo indicatore (il rapporto debito estero/Pil) in media vale 55 punti. In Spagna li ha superati nel 2004. Ma le banche hanno continuato a prestare, e a prestare sempre di più: l’indebitamento (cioè l’aumento del debito) estero è passato a 7 punti di Pil nel 2005, 9 nel 2006, 10 nel 2007. Cioè: io so che se il tuo debito è più di 50 sto correndo un rischio… e cosa faccio? Invece di prestarti di meno, ti presto di più, sempre di più! Così, nel 2007 il debito estero della Spagna era all’84% del Pil.

Certo che in Spagna sono stati fatti investimenti improduttivi. Ma li si sono fatti perché le banche del Nord, con quello che i giuristi chiamano “dolo eventuale”, hanno scelto deliberatamente il rischio di collocare la loro liquidità in eccesso in un paese che in tutta evidenza, almeno dal 2004, si capiva che non sarebbe stato in grado di restituire tutti i soldi che prendeva. Colpa degli spagnoli? Cioè, secondo voi una famiglia, che è solo une delle migliaia di clienti di una banca, deve avere quelle nozioni di macroeconomia che in tutta evidenza, come questo post dimostra, nemmeno i “padri” della nostra “patria” “europea” posseggono? E invece le banche, che sono poche, che hanno potere di mercato, che hanno il dovere istituzionale di monitorare i progetti di investimento, e che dispongono di uffici studi, loro no, non sapevano che gioco stavano giocando?

Vedete, non è una storia nuova, è una storia vecchia, anzi, vecchissima. L’acqua del ruscello scorre sempre a valle. Ricordate?

“Cur – inquit – turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?”
Laniger contra timens:
“Qui possum – quaeso – facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor.”

Dal Nord verso il Sud scorreva la liquidità, dal lupo tedesco verso l’agnello spagnolo. E l’analisi che rigetta tutte le colpe sulle scelte dei cittadini spagnoli (o greci, o portoghesi, o italiani, o irlandesi), e che non si chiede perché il mercato finanziario abbia così platealmente fallito nel suo compito di indirizzare il risparmio verso impieghi produttivi, quando lui, il mercato, aveva tutti gli strumenti (analisti, dati, indicatori) per prendere decisioni se non corrette almeno prudenziali, ecco, questa analisi è schierata, è ideologica, è falsa.

Attenzione però: la mia non è una teoria del complotto. Non sto dicendo che “i cattivi” lo hanno fatto “apposta”. Sto dicendo però che i mercati hanno agito esattamente come Keynes dice che i mercati agiscono, cioè come nel gioco delle sedie musicali: ogni banca si è messa a danzare (cioè ha prestato) sperando di riuscire a sedersi (cioè di rientrare dei soldi prestati) quando la musica sarebbe finita (cioè quando la crisi si sarebbe manifestata). Si chiama fallimento del mercato. E dare la colpa alle famiglie, serve solo a sviare l’attenzione dal nocciolo del problema, che è quello, molto semplice, che ho esposto in Crisi finanziaria e governo dell’economia: il mercato non è in grado di allocare in modo efficiente il risparmio delle famiglie, il mercato è condannato a fallire: occorre allora che lo Stato riprenda in mano almeno in parte il circuito del risparmio. E da questo orecchio gli amici del “più Europa”, vedrai, non ci sentono…

Del resto, scusate, ma perché pensate altrimenti che i giornali ci fracassino i timpani con cose che non ci interessano, che non sono importanti, come le olgettine, il Trota, gli “scandali”… Ah, dite voi, perché la Lega era all’opposizione e quindi hanno voluto togliersela di torno? Interessante, ardita teoria. Con le canottiere del papà e la laurea del figlio la Lega si è costituita all’opposizione del buon gusto e dell’intelligenza, certo. Ma in parlamento, quando si è trattato di votare, ha sempre fatto il suo dovere, da che Monti è Monti. E allora, forse, tutto questo stucchevole can can orchestrato dal Barbapapà nazionale forse ha un altro scopo: non quello di far fuori un oppositore che non si oppone a nulla, ma quello di rafforzare nell’elettore mediano l’idea che tanto i politici sono tutti uguali, che lo Stato è corrotto, e che quindi bisogna liberalizzare, privatizzare, e darsi in mano se non proprio direttamente ai tedeschi, almeno a una oligarchia di tecnici supposti incorrotti… almeno fino a quando le esigenze del prossimo cambio di regime non sbatteranno in piazza gli scheletri che certo non mancheranno nei loro armadi!

Certo, sì, lo Stato è corrotto, e poi, noi italiani, signora mia… Con l’elettore mediano questa strategia funziona. Sapete il mio amico piddino, quello che “l’Europa ha fatto molto per la mobilità dei lavoratori“? Ecco, sì, quel fesso (scusa sai, caso mai mi leggessi, tanto te l’ho anche detto in faccia). Alla fine poi l’argomento qual è? Che anche se Monti non va bene, però la colpa è sempre di Berlusconi perché noi siamo stati costretti a chiamare Monti perché Berlusconi era impresentabile (quanti abitanti ha l’Italia? Sembra ne abbia due, dei quali uno impresentabile), e che comunque con questi scandali, col Trota, come si fa…

Ve lo ricordate? È già successo, è un film già visto. La precedente “rivoluzione democratica”, quella che ci ha condotto all’euro nel modo (democratico?) che abbiamo descritto, era stata anche lei sapientemente preparata da una campagna di stampa a 360 gradi contro la classe politica. Non erano, certo no, tutti innocenti, lo sappiamo. Ma ricordiamo anche che i media davano (perché volevano darla) la sensazione che fossero tutti colpevoli. E sappiamo invece che i processi hanno reso un’immagine diversa, e sappiamo che la via “tecnocratica” imboccata anche per combattere la corruzione (“noi italiani non siamo in grado di governarci da soli, senza le regole europee sarebbe il baratro”) non ha risolto nessun problema, nemmeno quello della corruzione, anche perché ha creato enormi problemi di ordine economico.

Certo, caro elettore mediano, vai, vai avanti verso il baratro, con questi begli argomenti da comare. Ma ti ricordo che alla fine sono i numeri che parlano. E i numeri, come abbiamo ricordato in questo blog, dicono che per quanto corrotto possa essere lo Stato, il totale dei default pubblici dell’ultimo decennio vale meno di uno solo dei grandi default privati. Quindi, sì, il Trota si sarà anche laureato in Albania, ma da qui ad affidare ai mercati tutti i nostri risparmi direi che ce ne corre.

E allora concludiamo tornando al punto di partenza, e ponendoci una semplice domanda: fino a quando saremo disposti ad accettare da questi simpatici Danai, i frutti del cui operato sono sotto gli occhi di tutti, ulteriori proposte geniali basate su diagnosi false? Fino a quando permetteremo a chi ha di fatto dichiarato di averci tratto in inganno, proponendoci come soluzione quello che invece era un enorme problema (l’euro), di occupare la scena politica? Perché in fondo i termini della questione sono molto semplici: il rispetto che dobbiamo a noi stessi, alle nostre famiglie, al nostro paese, alla democrazia, ci impone il dovere morale di rifiutare la logica secondo la quale noi italiani, noi europei, possiamo fare la cosa giusta solo se menati per il naso. Se non rifiutiamo ora, con decisione, questo metodo, non sappiamo dove potremo arrivare: chi ci ha imposto la camicia di forza dell’euro per indurci a un grande abbraccio paneuropeo, domani potrebbe rifilarci chissà quale altra menzogna (e di fatto, forse, lo sta già facendo), naturalmente sempre e solo per il nostro bene. Basti pensare alle tante menzogne strumentali sul ruolo della Cina nell’economia mondiale (accuratamente elencate nel mio libro). Vedete: stanno trasformando la società europea in una società di tipo statunitense, una società che ha bisogno di un nemico per ritrovare coesione e identità. Noi, certo, quale sia il nostro bene non lo sappiamo. Meno male che c’è Attali, che ci indica perché e contro chi combattere.

Ecco: solo rifiutando questa logica, e qualsiasi proposta provenga da chi confessa di averla applicata, potremo sperare di difendere qualche residuo spazio di democrazia in Europa. In inferno nulla est redemptio. E così nell’euro non ci può essere alcuna Europa. Chi propone “più Europa” per salvare l’euro sta nuovamente mentendo, lo sappia o meno. Chi ama l’Europa sa bene che questo è il momento di fare un passo indietro: reculer pour mieux sauter. Togliere l’Europa posticcia dell’euro per costruire l’Europa degli europei. Solo in Italia è ancora impossibile parlarne. Arriveremo, come al solito, in ritardo.


Da “Sinistra In Rete

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