Ritengo che l’articolo di Loris Caruso sulla vicenda greca pubblicato dal Manifesto sia uno dei più interessanti che mi sia capitato di leggere sull’argomento. Non perché ne condivida interamente l’analisi (spiegherò fra poco quali sono i passaggi che mi lasciano perplesso) ma perché ha il merito di mettere in luce alcune questioni di fondo. Riassumo i passaggi che trovo più importanti.
1) Caruso si chiede: è possibile nell’Europa attuale un governo di sinistra? Dopo aver chiarito la specificità dell’eccezione greca (le piccole dimensioni e la marginalità economica el Paese), sottolinea come l’Europa rifiuti sistematicamente gli interventi pubblici in economia, qualsiasi programma redistributivo e persino i sostegni alla povertà, per cui il programma (ancorché moderatamente riformista) di Syriza era destinato a essere respinto apriori, quindi ne deduce che, nell’attuale contesto europeo, la realizzazione di un programma di sinistra è quasi impossibile. Giusto, ma io toglierei il quasi: è impossibile e basta.
2) Caruso apprezza la capacità che il govermo Tsipras ha dimostrato – come confermato dalla vittoria nel NO al referendum – di costruire una forte egemonia interna (caso quasi unico a parte alcuni governi latinoamericani). Dopodiché dice che quanto ottenuto da Syriza era il massimo ottenibile nella situazione oggettiva dei rapporti di forza dati. Ma se le cose stanno così indire il referendum per poi calare le brache, come sta facendo Tsipras, è stato un terribile errore (io parlerei addirittura di colpa): nel momento in cui ci si è battuti per il NO occorreva difendere A OGNI COSTO il risultato, smentirne il significato con il compromesso che ora si delinea significa smontare ogni capacità di resistenza del popolo greco per anni a venire.
3) Caruso sostiene poi che eventuali future sinistre europee di governo, per non subire il ricatto della Ue e del capitale finanziario globale, dovrebbero costruire una nuova economia pubblica, una nuova capacità di intervento diretto dello Stato nella produzione, senza escludere di assumere la proprietà diretta delle imprese, ridurre drasticamente l’orario di lavoro per combattere la disoccupazione tecnologica e introdurre il reddito di cittadinanza. Già ma questo significa automaticamente rompere con la Unione Europea – chiarendo una volta per tutte che questa Europa non è riformabile dall’interno e va distrutta – per fare i primi passi verso la transizione al socialismo. Irrealistico? Senza dubbio, se si accettano i vincoli imposti dall’ideologia ordoliberista. Ma se viceversa si guarda alla imminente crisi sistemica del capitalismo prevista da Wallerstein (cfr. la citazione nella parte finale dell’articolo) cambia il significato stesso della parola realismo che diventa, come scrive Caruso alla fine del pezzo. “adeguato alla radicalità dei mutamenti in corso”.
Carlo Formenti
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L’Europa e l’anomalia di un governo di sinistra
Loris Caruso – Il Manifesto dell’11 luglio 2015
La prima questione che la vicenda greca richiama riguarda una domanda che emerge proprio dalla stessa crisi: è possibile, nell’Europa attuale, un governo di sinistra? Quello di Syriza è il primo governo di sinistra nell’Unione Europea. È sicuramente un caso particolare, di uno stato troppo debole e indebitato per esercitare, al momento, un governo compiutamente autonomo. Ma la natura dell’Ue lascia pensare che se anche un governo di sinistra si affermasse in paesi più forti e meno sottoposti al controllo della Troika, le differenze con il caso greco sarebbero di grado, non di sostanza.
Il governo Tsipars è riuscito in poco tempo a costruire una forte egemonia interna, come hanno sancito la vittoria del No e il fatto che le principali opposizioni abbiano dovuto decidere di sostenerlo nelle trattative con l’Europa. Questo è già molto, ed è raro. Solo alcuni governi latino-americani sono riusciti negli ultimi anni a utilizzare il governo per costruire egemonia, sventando grazie a questa egemonia tentativi di golpe, proprio com’è accaduto a Syriza nelle ultime settimane (il referendum ha momentaneamente fermato il tentativo europeo di rovesciare il governo). Mai, invece, questa operazione egemonica è riuscita a un governo europeo di centro-sinistra, che di solito crolla nei consensi nel giro di settimane.
Nello stesso tempo, ciò che Syriza sta riuscendo a ottenere da una posizione di governo – che, nel contesto dato, è il massimo che potesse ottenere – è piuttosto lontano dai suoi obiettivi originari. L’Unione europea rende sostanzialmente impossibile la realizzazione di programmi redistributivi, la ripresa di un significativo intervento pubblico in economia, una politica industriale, e perfino politiche di sostegno alla povertà (che cinicamente la mano dell’Ue cancella con la penna rossa dalle proposte di Atene). Si tratta di realismo, non di ideologia: il programma di Syriza era un programma riformista, ma anche questo sembra irrealizzabile.
Come renderlo realizzabile?
I partiti della sinistra radicale in Europa hanno acquisito un’ottica di governo: vogliono governare, da soli o se necessario in coalizione. Come la situazione greca mette in luce, nell’attuale contesto europeo la realizzazione di un programma di sinistra è quasi impossibile. Si può scommettere sul fatto che la vittoria di Syriza abbia aperto un ciclo politico che porti le sinistre a vincere in Spagna, in Irlanda, in Portogallo e poi magari in Italia, e che in questa situazione i rapporti di forza si modifichino al punto da poter cambiare la costituzione materiale dell’Ue.
Ma ciò può anche non succedere. È impensabile, allora, che una sinistra che aspira al governo si ponga il problema di una «exit strategy»? Se l’Europa rende impossibile qualsiasi politica keynesiana e redistributiva, l’appartenenza all’Eurozona dev’essere confermata a ogni costo? Anche se la risposta è affermativa, la domanda non può essere, realisticamente, elusa. Una forza negoziale si costruisce anche sulla base di alternative percorribili. Che non possono però riguardare un solo paese, ma implicano la costruzione di un vasto sistema di alleanze internazionali alternative, o complementari, a quelle attuali.
In secondo luogo. Non c’è solo l’Unione europea a paralizzare l’azione dei governi. Lo fanno anche il capitale finanziario e quello produttivo. Gli Stati sono totalmente dipendenti dai mercati finanziari. Una politica non gradita a questi ultimi verrebbe colpita da attacchi speculativi e dal mancato finanziamento del debito pubblico. Le imprese, nazionali o straniere, hanno poi il potere di reagire a politiche redistributive o favorevoli al lavoro con la minaccia dello spostamento della produzione, come hanno fatto da ultimo gli armatori greci.
Come si può realisticamente affrontare questa doppia minaccia?
La «sinistra di governo» deve costruire un’alternativa agli attuali strumenti di finanziamento del debito, e deve pensare a come costruire una nuova economia pubblica, una nuova capacità di intervento diretto dello Stato nell’economia produttiva, che contempli anche la proprietà diretta delle imprese (in forme sicuramente innovative). È l’unico modo per dotarsi di una capacità di reazione alla minaccia di «esodo» del settore privato. Storicamente si è assistito a ciclici conflitti tra Stato e capitale. Bisogna immaginare le forme contemporanee di tale conflitto.
Infine, è possibile che della crisi economica in corso abbiamo visto solo la prima parte. Lo spostamento a Est del centro dell’economia mondiale rende stabile la crisi di crescita delle economie occidentali. Vista l’attuale redistribuzione della produzione e dei servizi a livello internazionale, bisogna prendere atto del fatto che le società occidentali stanno sperimentando una «decrescita» forzata della produzione e dei livelli di vita.
Analisi rigorose sulla disoccupazione tecnologica evidenziano poi come l’automazione e la robotizzazione stiano fortemente riducendo, dopo l’occupazione manuale, quella intellettuale. È possibile che nei prossimi due decenni tassi di disoccupazione del 30% (secondo studiosi seri come Randall Collins, anche del 40 o 50%) diventino normali, perché l’innovazione tecnologica non si ferma. Come affrontare questi problemi? È possibile progettare sistemi sociali ad alto sviluppo tecnologico in cui il lavoro sia ampiamente redistribuito e sia comunque garantito a tutti il reddito necessario per una vita dignitosa? Come farlo? La riduzione dell’orario di lavoro e il reddito di cittadinanza potrebbero richiedere applicazioni molto più estese e radicali di quelle a cui si pensa attualmente.
Questi due aspetti – crisi di crescita e aumento della disoccupazione tecnologica – fanno anche dire a un altro importante scienziato sociale, Immanuel Wallerstein, che il capitalismo andrà incontro a una crisi sistemica nell’arco di 30 anni, anche per il fatto che nessuno Stato, dopo gli Usa, avrà la forza sufficiente per costruire uno stabile ordine mondiale. Abbiamo di fronte, potenzialmente, scenari di questa portata.
Fino a 30 anni fa, la sinistra era anticipazione, la destra conservazione e difesa. Da trent’anni la sinistra si difende. Riusciamo a costruire conflitti importanti solo per difendere diritti consolidati. Di solito li perdiamo. La sinistra di governo deve ricominciare ad anticipare i cambiamenti, prima che si manifestino come emergenza. Bisogna approfondire nel dettaglio tutte le variabili in gioco e dotarsi di programmi di governo realistici. Realistico significa adeguato alla radicalità dei mutamenti in corso.
La società è sottoposta a un movimento fortissimo, probabilmente destinato a crescere. Tutto è in gioco: gli assetti economici e sociali, le forme della politica, le strutture istituzionali, i rapporti tra le culture. Per poter essere parte di questo movimento e candidarsi addirittura a guidarlo, la sinistra deve tornare a incarnare un intero modello di società.
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Paolo De Marco
Mi sembra non fondato dire che l’euro non è compatibile con un governo – progressista – di sinistra. Lo fu con la gauche plurielle. Importa pero che sia un governo di sinistra e non un governo sinistro caratterizzato dall’usuale falsa rappresentanza. Schedale vuole giustamente proteggere il suo paese assieme alla UE che non possono essere subordinati al FMI, cioè alla FED e alle 4 grandi banche di New-York. Intanto, Schaüble ha fatto una proposta intelligente e molto generosa che dovrebbe piacere a quelli nostrali che vogliono uscire dall’euro (o sbaglio?): la sospensione per 5 anni della Grecia dall’euro per rimettere le cose in ordine. Questo potrebbe essere fatto con l’introduzione della doppia moneta. L’euro permetterebbe di gestire l’import-export e dunque anche Target II. In effetti, il debito greco di Target II è più evasione fiscale che commercio estero, e può dunque essere trattato differentemente – ad esempio legando il rimpatrio dei fondi con investimenti produttivi urgenti. La dracma andrebbe di pari passo con una banca centrale pubblica. Questa finanzierebbe il debito pubblico e para pubblico a tassi vicino a zero. Libererebbe così il margine budgetario necessario alla ripresa domestica. Sarebbe affiancata da una banca pubblica con leva fiscale di 40 per 1 inizialmente. Questa permetterebbe di comprare e cancellare il debito privato, dopo una ristrutturazione tipo Argentina, ritornando così alla legge greca e non anglo-sassone in materia. Sarebbe meglio se in Italia si cominciasse a pensare con più rigore e nel guardo dell’Articolo 47 della Costituzione, il quale stabilisce il credito come una competenza nazionale, permettendo cosi la creazione immediata ed offensiva della
banca pubblica da me richiesta da più anni. Dopo l’affare greca segue la convergenza hyperfederalista già prevista dal recente rapporto dei 5 presidenti. La sospensione con la doppia moneta sarebbe un’occasione in oro per rimettere l’Europa sul camino giusto, cioè quello dell’Europa sociale retta con l’opting out e non più con la disastrosa regola della maggioranza qualificata.
Noto che il fondo di garanzia del piano UE rende quasi impossibile il raggiungimento dell’avvanzo primario. Ma Tsipras non se ne neanche ancora accorto. Voleva distruggere la EU e la Germania per il conto dei suoi appoggio apolidi e non-europei. Ha fortunatamente fallito in modo clamoroso ma non ha più nessuno altro piano alternativo. Probabilmente non sopravviverà politicamente a lungo. Se mai capiscono che sono spinti ad uscire dall’euro – per una volta l’erratico Varoufakis ha ragione … – incateneranno il paese a Goldamn and Sachs – vedi i nomi degli economisti mediatici che appoggiano Tsipras ! – ed al FMI, cioè a soluzioni di ristrutturazione tipo africane: x nuovi « aiuti » per permettervi di pagare gli interessi alle banche private – income stream di fisheriana memoria – sacrificando tutto il resto a questa «necessità »; tanto il principale non è più ri-pagabile nel quadro degli parametri marginalisti.
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Paolo De Marco