Uscito per Dea edizioni, “Annamaria e Luca Mantini: fratelli e sorelle rivoluzionari” è, come recita il retro copertina, «un tributo d’amore ai caduti. Un omaggio alla Storia. Schegge di verità sociale e politica che vadano a lastricare i sentieri della memoria delle classi subalterne e sfruttate».
Un libro a più voci: interviste a persone che, a vario titolo e in periodi diversi, hanno conosciuto personalmente sia il fratello che la sorella. I vari autori ci hanno raccontato storie, aneddoti, vicende vissute in un periodo storico ancora poco conosciuto.
Tra essi, spiccano i nomi di Pasquale Abatangelo, Nicola Abatangelo, Antonio De Laurentis, Giovanni Gentile Schiavone. Compagni di Annamaria e Luca all’interno di quell’organizzazione nata nel 1974, e la cui sigla ebbe non poca risonanza nel movimento rivoluzionario, non solo italiano.
Quello che, durante gli anni ’70 e i primi ’80, portò un’intera generazione, in ogni angolo della terra, a tentare – pur percorrendo strade diverse – il rovesciamento del modello economico, sociale e culturale d’impronta capitalistica e l’abbattimento dello Stato liberal-borghese.
Sognando di costruire un sistema fondato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione, sulla solidarietà e l’uguaglianza, anziché sulla proprietà privata, sul profitto e lo sfruttamento.
Quell’organizzazione prese il nome di Nap (Nuclei Armati Proletari) e raccolse tra le sue fila gli strati più marginali del nuovo proletariato e sottoproletariato metropolitano, specie meridionale,
Si impose sia all’interno delle carceri, dove allora il lumpen spesso si politicizzava, portando a maturazione la formazione della propria coscienza di classe; sia socialmente, nell’ambito della Lotta Armata per il Comunismo che, per oltre un decennio, ingaggiò una vera e propria guerra civile a bassa intensità contro uno Stato classista e stragista.
Dunque, il libro raccoglie testimonianze di lotte, di anni travagliati, di cambiamenti epocali, dove le ideologie erano stimolo continuo per nuove idee di rivolta.
Tra le testimonianze, ci sono anche quelle di un compagno (Vincenzo Morvillo) e una compagna (Chiara Pannullo) più giovani che, pur non avendo potuto conoscere personalmente Luca e Annamaria per ovvie ragioni anagrafiche, hanno seguito con interesse di classe il conflitto degli anni ’70 e la loro storia politica.
Di seguito, pubblichiamo il contributo del compagno Morvillo, assiduo collaboratore del nostro giornale. Buona lettura…
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Annamaria e Luca Mantini: muore giovane colui ch’al cielo è caro
Quando l’amico e compagno Pasquale Abatangelo, uno dei fondatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari e tra i militanti più coriacei e inflessibili dell’organizzazione nata nel 1974, mi ha chiesto di tracciare un “ricordo” di Annamaria e Luca Mantini, confesso di essere stato travolto da un’ eccitazione quasi adolescenziale.
Un’eccitazione dovuta alla prospettiva di poter scrivere di quei due giovani guerriglieri, morti per il nostro comune ideale comunista.
Due ragazzi poco più che ventenni, alla cui breve vita ho sempre guardato, sin dai primi vagiti della mia personale ribellione al sistema borghese, con ammirazione e invidia di una scelta irrevocabile. Due ragazzi la cui morte, specie di Annamaria – come, d’altronde, quella dei tanti compagni assassinati dalla mano di uno Stato cui opponevano i loro corpi e la radiosa visione di un mondo migliore – mi lascia, ancor oggi che ho superato la cinquantina, un mai sopito senso di frustrazione e di odio.
Coltivato nel disprezzo verso coloro i quali, ritenendosi i padroni delle nostre vite, vi appongono assegni postdatati , la cui data di riscossione viene rinviata di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno. Fino alla fine stessa dei giorni. La fine di un’esistenza concepita nel segno del dogma binario produci-consuma.
Ma a quella eccitazione suddetta, fece seguito, immediatamente dopo, un’inquietudine profonda.
Non volevo rinunciare all’onore, seppur gravoso, che mi veniva offerto. Ma, allo stesso tempo, mi chiedevo cosa avrei mai scritto sui due fratelli scomparsi, tanto tragicamente e tanto prematuramente, uccisi dal braccio armato dell’avversario di classe e che non avevo conosciuto.
D’altra parte, quando Luca e Annamaria Mantini hanno preso le armi contro la criminale iniquità del Capitale e per il Comunismo, e per esso sono morti, io avevo appena sei o sette anni.
Va messo in conto, poi, un sovrapprezzo di timore reverenziale, nel parlare dei Nap, per un comunista napoletano, qual è il sottoscritto. I Nuclei Armati Proletari ebbero, infatti, una profonda penetrazione nel tessuto sociale collocato ai margini della legalità partenopea, costituendo un pezzo fondamentale di quel movimento rivoluzionario comunista, confluito, a Napoli, nella lotta armata.
La loro incidenza sul tessuto popolare, cittadino e meridionale, fu tale da risultare, se è possibile, anche più rilevante di quanto non ne abbiano avuta le stesse Brigate Rosse. E la cosa si spiega agevolmente, considerando la particolarissima composizione di classe della nostra città. Su cui, l’altrettanto particolare origine e configurazione dei Nap, si incastonava perfettamente.
Nascevano i Nap, infatti, come formazione armata comunista, capace di raggrumare gran parte del proletariato extralegale e carcerario del meridione.
In quegli anni, a Napoli, dove una vera classe operaia era di fatto assente – se si eccettuano l’Italsider di Bagnoli e l’Alfasud di Pomigliano d’Arco – il proletariato e il sottoproletariato metropolitano erano spesso composti da ceti popolari che trovavano, nell’extralegalità, la loro immediata strada per la sopravvivenza e la soddisfazione dei bisogni imprescindibili.
I Nap, dunque, nacquero e si affermarono –soprattutto a Napoli e nel Mezzogiorno- in quel contesto storico, sociale, politico e culturale.
Come ben ci racconta Valerio Lucarelli, autore del documentatissimo saggio “Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, Rivolta e Lotta Armata” – edito nel 2010 da L’ancora del Mediterraneo – i Nap si formarono da una costola di Lotta Continua, costituita dal Collettivo delle Carceri, cui si saldava, a Firenze, l’esperienza del Collettivo George Jackson di Santa Croce, fondato proprio da Luca Mantini.
Lumpen politicizzatosi in carcere e nella prassi extralegale, contro l’angheria di un sistema che escludeva ed esclude i ceti subalterni; e che alle letture di Marx, Engels, Lenin, univa quelle di Franz Fanon (I dannati della terra), di Jack London (Il tallone di ferro) e dello stesso George Jackson, militante del Black Panther Party e autore del pamphlet Col sangue agli occhi.
Intuirono, i Nap, che, nel perimetro delle nuove metropoli che si vennero a configurare, in Italia, a partire dalla fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ‘70 della ristrutturazione capitalistica, andava imponendosi e delineandosi quel capillare sistema securitario, quell’universo foucaultiano e quella Microfisica del potere sorvegliante – repressivo all’origine, ancor prima che immediatamente punitivo – che finì via via per ampliarsi e comporsi di vere e proprie città penitenziarie, dove la criminalizzazione preventiva di ampi settori dei ceti popolari ritenuti pericolosi, in quanto produttori extralegali e consumatori di carcere, poneva lo Stato borghese quale nuovo garante dei flussi repressivi, in misura direttamente proporzionale al nuovo assetto politico ed economico che il Capitale Internazionale Monopolistico intendeva darsi attraverso la finanziarizzazione della stessa economia.
Un’intuizione che i Nuclei Armati Proletari non seppero sviluppare attraverso un’articolata e approfondita riflessione teorica e un vasto corpus di documenti politici. Cosa che, invece, seppero fare benissimo quelle Brigate Rosse all’interno delle quali, non a caso, e proprio attraverso la detenzione penitenziaria, confluirono, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, molti ex nappisti.
Un’intuizione, quella dei Nap, che però ebbe il grandissimo merito, come scrive lo stesso Lucarelli: «di portare alla luce un mondo a parte, quello dei manicomi e dei penitenziari, fatto di continue vessazioni e della scomparsa definitiva di ogni minimo diritto esistenziale».
D’altra parte, il degrado vergognoso e immutato delle carceri e il dilagare, sempre più diffuso nel nostro presente, di istituzioni penitenziarie in cui l’umanità smarrisce il suo senso, sono la prova che quello dei Nap fu il presagio di una società occidentale giunta, ormai, ai confini della distopia paranoide.
Società in cui, alla biopolitica e al controllo sui corpi da parte del Potere si è venuta progressivamente sostituendo, negli ultimi trent’anni, addirittura una psicopolitica –secondo la definizione del filosofo sudcoreano Chul Han- quale nuovo e sempre più pervasivo dispositivo di sorveglianza, concepito dal neoliberismo tecnocratico e dalle sue raffinate forme di dominio.
Si è passati, insomma, da quanto affermava Foucault, circa i meccanismi di controllo perfezionatisi a partire dal XVIII secolo fino al ‘900, ossia: «Quando penso alla meccanica del potere, penso alla sua forma di esistenza capillare, al punto in cui il potere tocca il granello stesso degli individui, raggiunge il loro corpo, viene ad inserirsi nei loro gesti, i loro atteggiamenti, i loro discorsi, il loro apprendimento, la loro vita quotidiana».
A quanto scrive, oggi, Chul Han, ovvero: «Il soggetto che sfrutta sé stesso porta un campo di lavoro con sé nel quale egli è vittima e carnefice. Come soggetto che si autoespone e che si autosorveglia, egli porta con sé un panottico nel quale è detenuto e guardiano». Un raffinamento terrificante dei dispositivi di sicurezza, avvenuto in questi ultimi tre decenni, che decisamente terrorizza.
Un innalzamento della cultura legalitaria e repressiva, al cui cospetto appare evidente che la pratica dell’illegalità e dell’extra legalità, come modalità di lotta contro il sistema capitalistico e il suo gendarme statale e poliziesco, affermatasi durante tutto il decennio dei ’70 e parte degli ’80, appariva salutare e salvifica, dal punto di vista della riappropriazione degli spazi vitali e di una dimensione umana.
La fondazione dei Nap si innestava esattamente nel punto più alto di quella lotta, che divenne, quasi inesorabilmente, armata.
Il sogno di Luca e Annamaria Mantini, come dei loro compagni, era quello di sovvertire, in nome del Comunismo, della Libertà e della Giustizia Sociale, un sistema che marginalizzava e marginalizza, escludeva ed esclude, da sempre, i “dannati della terra”. Quelli che, a seguito della divisione della società in classi, vengono additati dai padroni, e solo successivamente dalla comunità cittadina, come delinquenti.
Proletari e sottoproletari che per sfuggire alla loro condizione di disoccupazione e sottoccupazione, costretti a cercare un lavoro nelle grandi città, sottoposti alle spinte del “benessere”, ne vengono ricacciati indietro, esclusi, e non hanno altra strada che infrangere le leggi.
Scrivevano, nel 1972, i proletari detenuti – nel volume Liberare tutti i dannati della terra, edizioni Lotta Continua: «Più un paese capitalistico è sviluppato (e per paese capitalistico intendiamo anche paesi come l’Unione Sovietica o la Polonia, perché lì c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo come da noi), più la “criminalità” aumenta e le galere si riempiono. Infatti, negli Stati Uniti, la “criminalità” almeno a giudicare da quanto sono piene le prigioni, è la più alta del mondo. Perché la “criminalità”, quella per cui si finisce in galera, è il frutto della miseria, dello sfruttamento, dell’oppressione e cioè del capitalismo. I padroni si servono della delinquenza, additando al disprezzo delle masse -servendosi dei loro giornali- i poveracci, i manovali del furto, quegli sbandati che con la loro propria dottrina hanno instradato al crimine. Si rifanno così una verginità, e abituano la gente a pensare che le uniche rapine, estorsioni, furti, omicidi, sono quelli fatti da questi disperati “pistola in pugno”, e non quelli che ogni giorno (essi stessi, ndr) commettono con lo sfruttamento. Preparano l’opinione pubblica alla polizia che spara e uccide, condannando a morte, senza processo, dietro il comodo paravento della «difesa della tranquillità dei cittadini. Il capitalismo nella sua essenza non è solo un sistema economico fatto di affari, di compere, vendite, mercati, costi e profitti; non è solo un sistema sociale e politico che sfrutta l’uomo e distrugge la natura. E’ anche una lotta spietata tra banditi: quella che si chiama “concorrenza”».
Su questo filone di pensiero rivoluzionario, frutto dell’elaborazione del Collettivo Carceri di Lotta Continua, si inseriva l’esperienza dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Questi furono i princìpi sovversivi che guidarono e armarono la mano di Luca e di Annamaria Mantini e di tutti i loro compagni di Lotta.
Per Luca e Annamaria, però, quel sogno di un mondo diverso doveva infrangersi quasi subito, andando a sbriciolarsi contro i proiettili esplosi dai difensori della Legge e dello Stato borghese!
Luca cadde la mattina del 29 Ottobre 1974. Nel corso di una rapina ad una banca, che era cominciata male e finì, purtroppo, anche peggio. Lascio il racconto di quegli attimi, drammatici e fatali, alla penna appassionata di Pasquale Abatangelo, che nel suo libro “Correvo pensando ad Anna”, li riversa dalla memoria, come un film visto troppe volte nel cuore della notte.
Nel viverli, leggendo, io sentivo in bocca il sapore penetrante del ferro incandescente delle armi. Annusavo l’aria di quella mattina, bagnata del sangue giovane di Luca e di Sergio Romeo, che lo seguirà nel vento pochi istanti dopo. Avvertivo la paura trasformarsi in rabbia gelida nel cervello, e l’orgasmo della battaglia stemperarsi nello sgomento. Fino all’incredula disperazione di fronte alla tragedia compiuta.
Scrive Pasquale: «Luca decise tutto in un attimo. Ringhio che bisognava recuerare il compagno, spinse il pedale del freno, e innestò la retromarcia, cominciando a sgommare all’indietro. Poi, all’improvviso, l’automobile si spense, e io lanciai un urlaccio: “Oh Luca, che cazzo combini, fa subito ripartire ‘sta macchina”. Ma il mio amico era morto, la faccia riversa sul volante e le mani penzoloni sul corpo».
L’ideale della Giustizia Proletaria strappato a morsi dai cani da guardia del potere, posti a sentinella di denaro che non è neanche il loro, ma spremuto dal sudore di chi, in quelle banche, non potrà mai metterci piede. Se non, appunto, per rapinarle. «Cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca?», scriveva Bertolt Brecht. Un atto di equità sociale, un esproprio a fini redistributivi. Un esproprio finito, in quel caso, tragicamente.
La morte di Annamaria, invece, non ha nulla di fatale. Ma è l’atto, predeterminato e vile, compiuto da cinque sbirri, nascosti come i topi, nell’ombra.
Annamaria, in onore del fratello ucciso, fonda il Nucleo 29 Ottobre. La promessa di una lotta che non si arrende. Il gruppo si rende protagonista di diverse azioni contro uomini dello Stato. Dopo il rapimento del giudice Di Gennaro, a Roma vengono scoperti alcuni covi dei Nap. Uno, in Via Due Ponti, è quello in cui abita Annamaria.
La mattina del 7 Luglio 1975, i poliziotti entrano quando l’appartamento è vuoto. Finita la perquisizione, restano dentro in cinque. È l’una di notte, quando Annamaria saluta Antonio Lo Muscio e Nicola Pellecchia. Arriva sull’uscio di casa e infila la chiave nella serratura. Apre la porta.
Il vicebrigadiere Antonio Tuzzolino non le concede neanche il tempo di un ultimo respiro. Il tempo di capire che la morte l’attendeva dietro un uscio. Beffarda, come solo la maschera crudele di un dio senza nome sa essere. Un burattinaio che, dall’alto, ha tirato i fili alla marionetta Tuzzolino, in costume da sbirro e armato di pistola. Il silenzio dopo lo sparo è agghiacciante. Una sentenza di morte eseguita, senza l’ordine di alcun tribunale.
Una morte kafkiana, a prescindere da qualunque messa in stato d’accusa. Perché la colpa di Annamaria era di quelle non emendabili. L’aver voluto sovvertire l’ordine costituito, fondato sulla ineguaglianza di classe. L’aver voluto scalare le vette del cielo.
Ovviamente, Stato, Polizia e Stampa furono di ben altro avviso. Secondo la versione fornita dalla Questura, infatti,la ragazza, resasi conto della presenza degli agenti, avrebbe tentato immediatamente di richiudere la porta, bloccando così la mano del brigadiere che “per un tragico errore” aveva fatto partire un colpo.
Il solito, consueto, infame, “tragico errore” che, con cadenza regolare e quasi grottesca, le Forze dell’Ordine di questo incredibile paese ci propinano ad ogni assassinio compiuto ai danni di un proletario, di un lavoratore, di un manifestante, di uno studente, di un tossico o di un cittadino con problemi psichiatrici.
Le successive rilevazioni, naturalmente, sconfessarono rapidamente quella ricostruzione. Annamaria aveva aperto la porta di casa e immediatamente il vicebrigadiere aveva fatto partire un proiettile che colpì, da circa 50 centimetri di distanza, la ragazza in piena faccia, appena sotto lo zigomo sinistro. Un omicidio ignobile, che ancora grida vendetta!
Muore giovane colui ch’al cielo è caro, scriveva Menandro. Ebbene, quando Pasquale Abatangelo mi chiese di scrivere un mio “ricordo” di Luca e Annamaria Mantini, furono queste le prime parole che mi vennero in mente.
Parole apposte in epigrafe, da Giacomo Leopardi, al suo canto XXVII. Quello il cui titolo recita Amore e Morte: «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall’uno il bene, nasce il piacer maggiore che per lo mar dell’essere si trova; l’altra ogni gran dolore, ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, dolce a veder, non quale la si dipinge la codarda gente, gode il fanciullo Amore accompagnar sovente; e sorvolano insiem la via mortale…».
I due fratelli, Luca e Annamaria Mantini, incarnano la splendida, irrequieta, tragica bellezza che coniuga l’Amore con la Morte. Le parole di Leopardi sembrano scritte per loro. Per quel sogno di Amore e di Libertà che li travolse, fino a morirne.
Una morte struggente di vita, come il quadro di Chagal “Sulla città”. Una morte che si fa, ancora oggi, promessa di lotta. Per un futuro senza istituti di pena, senza manicomi, senza galere. Per un futuro senza classi. Per il Comunismo!
Vincenzo Morvillo
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