Michele Giorgio
INVIATO A GAZA CITY
«E’ dura questa offensiva israeliana, arrivano continuamente morti e feriti. E tra questi, il numero delle donne e dei bambini supera quello degli uomini», spiega Ibrahim Jirjawi, infermiere del pronto soccorso dell’ospedale Shifa di Gaza. Parla ad alta voce Jirjawi, intorno ci sono decine di persone in continuo movimento. Parenti dei feriti, volontari, curiosi, che sono tenuti a bada, con grande sforzo, dagli uomini della sicurezza. Ai ritmi frenetici di questi ultimi giorni si aggiunge la costante presenza allo Shifa di schiere di giornalisti, anche stranieri giunti a Gaza in vista dell’offensiva di terra israeliana – che qui tutti danno per certa, se dalle trattative del Cairo non uscirà l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e la leadership di Hamas. Ad aggravare il caos ieri c’erano anche le guardie del corpo del presidente del Parlamento egiziano, Said Katatni (Fratelli musulmani), giunto a Gaza per esprimere solidarietà ai civili e al governo di Hamas. Oggi (martedì) arriva la delegazione della Lega araba, assieme al ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu.
«L’aumento della percentuale delle donne e dei bambini è la conseguenza degli attacchi che da domenica gli israeliani lanciano contro le abitazioni civili», spiega Jirjawi riferendosi alla strage della famiglia Dalu: 10 morti, sei donne e quattro bambini piccoli. Un portavoce militare israeliano ha provato a spiegare perché alle 14.30 di domenica è stata sganciata la bomba ad alto potenziale che ha colpito l’edificio di tre piani tra Sheikh Radwan e Nasser. L’obiettivo, ha detto, era una casa vicina, dove si trovava uno dei «responsabili dei lanci di razzi verso Israele». Per «errore» la bomba sarebbe caduta sul palazzo della famiglia Dalu, uccidendo una giovane madre, Samah, e i suoi quattro bambini: Jamal 2 anni, Yousef 4; Sarah 7; Ibrahim 12 mesi, e altre cinque persone. I soccorritori ieri non avevano ancora trovato i corpi di due giovani cugini, Yara e Mohammed Dalu. L’esplosione della bomba ha ucciso anche un’ anziana e un giovane in un’abitazione vicina: Ameena Mauzannar, 83 anni, e Abdullah Muzannar, di 19. Senza dimenticare i nove feriti, tra i quali tre bambini e due donne. Israele inoltre ha rilanciato ieri gli attacchi ai centri stampa, attaccando di nuovo il Media Center dello Shouruq Building, dove ha ucciso un capo militare locale del Jihad islami.
«Questa offensiva israeliana è diversa da “Piombo fuso”», l’operazione compiuta tra dicembre 2008 e gennaio 2009, 1.300 palestinesi uccisi), sostiene Khalil Shahin, vice direttore del Centro palestinese per i diritti umani di Gaza: «Quattro anni fa Israele colpì subito con estrema brutalità. Il primi attacchi provocarono 251 morti. Adesso ci troviamo di fronte a una operazione pianificata da tempo e composta di più fasi». Secondo Shahin «all’inizio il governo Netanyahu ha scelto di non provocare un numero troppo elevato di vittime palestinesi per evitare le critiche internazionali, ora con una escalation controllata, unita a un intenso lavoro mediatico volto ad addossare ai palestinesi tutte le responsabilità, sta aumentano l’aggressività e la pericolosità degli attacchi aerei prendendo di mira anche obiettivi in aree densamente popolate». Per questo, conclude l’attivista dei diritti umani, «il numero delle vittime civili è destinato ad aumentare: tra gli oltre 100 morti palestinesi ci sono già 18 bambini e 12 donne, il 30% circa delle vittime, e questa percentuale arriva fino al 50% tra i feriti».
Sono dati confermati anche dal Comitato Italiano per l’Unicef, che ieri ha denunciato che oltre ai 18 bambini palestinesi che hanno perso la vita, altri 252 sono rimasti feriti dall’inizio della campagna israeliana (ci sono bambini tra i 50 civili israeliani feriti). Ma l’agenzia delle Nazioni Unite sottolinea che a Gaza ora desta allarme anche la situazione sanitaria: «Gli ospedali sono sovraffollati a causa dell’afflusso continuo di feriti e le scorte di alcuni farmaci si sono rapidamente esaurite». Secondo l’Unicef, inoltre, se Israele dovesse decidere di tenere chiuso a lungo il valico di Kerem Shalom «provocherà a breve una penuria di carburante, con gravi conseguenze sul funzionamento dei servizi essenziali già a fine novembre, quando saranno esaurite le scorte di combustibile».
I bombardamenti stanno avendo un pesante effetto anche sulle infrastrutture civili, peraltro mai pienamente ricostruite dopo «Piombo fuso». Sono 30 le scuole lesionate e danneggiate dalle esplosioni delle bombe, fra cui cinque gestite dall’Unrwa (Onu), e ci sono stati danni anche ad alcune reti idriche, a pozzi e cisterne. Gli ospedali reggono, sia pure con crescente fatica allo sforzo eccezionale che stanno operando per soccorrere i feriti, ma ora cominciano a registrare un calo marcato delle riserve di medicinali e dei kit di pronto intervento. Secondo Medhat Abbas, direttore dello Shifa, il suo ospedale ha già usato il 40% delle sue riserve per le situazioni di emergenza. «La necessità di risparmiare abbassa la qualità del nostro lavoro, nonostante medici e infermieri stiano facendo un lavoro eccezionale nelle circostanze in cui sono costretti ad operare». Una mano ai palestinesi la stanno dando gli egiziani che hanno già accolto all’ospedale di El Arish non pochi dei feriti più gravi. Un gruppo di 38 Ong ieri si appellato alla comunità internazionale per evitare una crisi umanitaria.
Ma la crisi di Gaza, tolta l’emergenza imposta dall’attacco lanciato da Israele, era e resta politica, con un milione e 700mila palestinesi che chiedono libertà e di non essere più chiusi in quella che è considerata la prigione più grande del mondo. Libertà che il governo israeliano non sembra intenzionato a concedere. Anzi, con il passare dei giorni, le operazioni militari si fanno ancora più dure contro Gaza. E non pochi israeliani invocano un polso persino più duro. Tra questi si è distinto Gilad Sharon, figlio dell’ex premier e falco della destra Ariel Sharon. «Dobbiamo radere al suolo interi quartieri di Gaza. Radere al suolo Gaza tutta intera. Gli americani non si sono fermati di fronte a Hiroshima. I giapponesi non si arrendevano abbastanza in fretta: colpirono anche Nagasaki…”, ha scritto sul Jerusalem Post (http://www.jpost.com/Opinion/Op EdContributors/Article.aspx?id=292466). Parole che non hanno bisogno di commento.
Il negoziato comincia a rilento. Israele vuole imporre una zona cuscinetto; Hamas rifiuta e rivendica la fine dell’assedio di Gaza
Mi.Gio. – GAZA
E’ una trattativa difficile quella in corso in Egitto per arrivare al cessate il fuoco tra Israele e la resistenza armata palestinese. Più di tutto è una trattativa che potrebbe durare ancora molti giorni, senza alcuna garanzia di successo, durante i quali continueranno i bombardamenti aerei su Gaza, i lanci di razzi e con ogni probabilità avrà inizio anche l’offensiva di terra dell’esercito israeliano. La mediazione egiziana non ha fatto passi in avanti nonostante le dichiarazioni improntate all’ottimismo del premier Hisham Qandil. Soltanto ieri, lunedì 19, il Cairo ha ricevuto le condizioni delle due parti: quindi il negoziato vero è appena partito. Da ciò che trapela Israele e Hamas puntano a raggiungere risultati a lungo termine, ma con obiettivi opposti. Colmare la distanza sarà un’impresa.
«Se Israele vuole la tregua, deve prima fermare i suoi raid perché sono stati gli israeliani a iniziare la guerra». E’ quanto ha detto ieri al Cairo il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, precisando che «Gaza resisterà con fermezza alla macchina omicida di Israele». «Noi non abbiamo aggredito nessuno. Chiunque attacchi la Palestina sarà ucciso e sepolto», ha aggiunto Meshaal. «Questo è un momento difficile, ma è anche un momento glorioso nella storia del popolo palestinese», ha concluso il leader di Hamas. Parole dure, che non sembrano lasciare spazio al compromesso e che sono una risposta alle pesanti condizioni poste da Israele.
Benyamin Netanyahu d’altra parte non si accontenta della fine dei lanci di razzi da Gaza. Vuole molto di più e ha alzato la posta. Chiede che Hamas cessi di procurarsi armi e, più di tutto, che accetti «ufficialmente» la creazione di una buffer zone, «zona cuscinetto» lungo il confine, dentro il territorio di Gaza, larga ben 1 chilometro, vietata a tutti i palestinesi.
Hamas rifiuta. Accettare questa condizione vorrebbe dire condannare alla fame migliaia di agricoltori palestinesi proprietari di campi coltivati in quella fascia di territorio orientale (la più fertile di Gaza) e che già oggi devono fare i conti con la «no go zone» creata di fatto da Israele dopo l’offensiva «Piombo Fuso», larga 300-400 metri. In quella fascia di territorio palestinese in questi ultimi quattro anni hanno trovato la morte già diversi contadini che avevano osato sfidare le torrette di sorveglianza israeliane. C’è poi un motivo politico. Accogliere quella condizione per Hamas vorrebbe dire piegarsi totalmente di fronte alle imposizioni israeliane. «Non le accetteremo. Non accetteremo le loro condizioni, non accetteremo una zona di sicurezza», ha detto ieri al manifesto il vice ministro degli esteri Ghazi Hamad: «Dobbiamo invece imporre le nostre condizioni. Dobbiamo riprenderci la buffer zone, già esistente. Dobbiamo fermare la politica degli omicidi mirati. Devono smettere di uccidere i civili. Questo è molto importante. L’assedio a Gaza deve essere tolto. Queste sono le nostre richieste». Hamad ha aggiunto che «fino a quando Israele continua a lanciare attacchi contro le case e contro la popolazione civile, sarà molto difficile andare avanti con i negoziati». Netanyahu, forte del sostegno di Barack Obama, per trattare vuole la fine dei lanci di razzi, senza assicurare allo stesso tempo lo stop all’attacco su Gaza.
Anche il movimento islamico punta a un accordo ampio. Il governo di Hamas chiede la fine dell’assedio di Gaza che dura dal 2007, da quando è al potere nella Striscia. Vuole inoltre che Israele smetta di uccidere esponenti militari e politici palestinesi (i cosiddetti «omicidi mirati»), come avvenuto mercoledì scorso con Ahmed Jaabari, il comandante militare del movimento islamico. Netanyahu, stando a quanto riportavano lunedì i media israeliani, respinge questa richiesta e intende riservare al suo paese il diritto di «attacco preventivo ai terroristi».
Dopo giorni di silenzio, lunedì sera il presidente degli Stati uniti Barack Obama è intervenuto nella drammatica crisi di Gaza con due telefonate, al presidente egiziano Mohamed Morsi e al premier israeliano Benyamin Netanyahu, per discutere «come mettere fine ai combattimenti transfrontalieri a Gaza»: così annuncia un comunicato della Casa Bianca. Parlando con Morsi, Obama ha «sottolineato la necessità che Hamas metta fine al lancio di missili su Israele». A entrambi ha espresso il suo rammarico per la perdina di vite umane, palestinesi e israeliane. Fin qui il comunicato della Casa Bianca, e non è davvero molto.
da “il manifesto”
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