Zitti zitti, piano piano, la “guerra delle monete” in corso da tempo sui mercati internazionali si trasforma in un confronto molto più “fisico”, anzi muscolare. Giappone e Cina si contendono l’egemonia asiatica, in linea teorica (il Giappone è indietro dopo venti anni di stagnazione), scontrandosi sulla “sovranità” di un piccolo gruppo di isole disabitate. Senkaku o Diaoyou, a seconda della lingua e delle sovranità rivendicata, ma soprattutto piantate in mezzo a giacimenti sottomarini di gas di dimensioni “interessanti”.
Le risorse di idrocarburi – lo si dimentica ogni volta che il prezzo del petrolio tende a restare stabile, “grazie” anche al rallentamento economico globale, che richiede ovviamente meno consumi energetici – sono ormai scarse, costose da raggiungere e sfruttare, e comunque in via di esaurimento. Ogni goccia di energia diventa perciò importante. E tanto basta a mettere una contro l’altra le due potenze asiatiche, già ai ferri corti dopo che il premier nazionalista nipponico Shinzo Abe ha cominciato a far stampare yen per abbatterne il valore di cambio e favorire così le esportazioni del Sol Levante.
Ora, però, si è fatta avanti anche la supotenza Usa, con una di quelle “esibizioni di forza” di cui è da sempre specialista. Due bombardieri B52 hanno “coperto” lo spazio aereo delle isole contese. Si tratta di un semplice “avvertimento”, un “qui comandiamo noi” che probabilmente non piacerà molto neppure a Tokyo, ma tant’è…
Il problema è che la Cina non ha alcun interesse ad alimentare un contenzioso con l’irritabile e fondamentale partner statunitense, ma non ha più neppure troppo timore delle sue “mattane aeree”. I trend delle rispettive economie non potrebbero essere più diversi: praticamente ferma quella statunitense che non crolla solo grazie alle spaventose “iniezioni di liquidità” operate dalla Federal Reserve e benedette dalla Casa Bianca, ancora su ritmi dirompenti (oltre il 7% annuo) quella del Celeste Impero (che in termini di “potere d’acquisto” ha già superato gli Usa).
Il gioco si fa quindi rischioso, perché la potenza in declino non può accettare “allargamenti” dell’influenza di una potenza “alternativa” sotto molti punti di vista; e quella “emergente” ha sempre meno remore nel farsi vedere “indipendente”. Basta vedere quanti miliardi di dollari in titoli di stato Usa ha nei suoi forzieri per soppesare meglio i rapporti di forza reciproci.
La crisi spinge a mosse azzardate soprattuto chi si trova a perdere terreno, è noto. Stavolta, paradossalmente, questo ruolo tocca agli Stati Uniti. Non ci sono abituati, ma dopo aver “mollato” su Siria e Iran hanno il disperato bisogno di rafforzare la propria immagine “guerriera”. E rischiano…
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