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Vertice Apec: la Cina ridisegna il mondo, Usa al palo

«Russia e Cina devono resistere alle pressioni di Washington e rimanere unite, nell’interesse del mondo intero». Più chiaro di così il leader cinese Xi Jinping non poteva essere quando si è rivolto al presidente russo Vladimir Putin. E da parte sua l’inquilino del Cremlino, intervenendo al Ceo Summit dell’Apec che si è svolto a Pechino nei giorni scorsi, ha dichiarato che «l’alleanza del futuro» sta nel settlement yuan-rublo. Cioè nell’abbandono del dollaro da parte di due delle maggiori economie del globo intanto nel settore dell’energia (che ha visto Mosca e Pechino stringere un’alleanza di gigantesche proporzioni), ma anche nel settore del mercato degli armamenti. 

Mentre la maggior parte dei media nostrani si sono attardati a descrivere le polemiche suscitate dalla eccessiva espansività di Putin nei confronti della consorte del leader cinese o la querelle tra Washington e Pechino a proposito di ‘diritti umani’, la verità è che il vertice dell’Apec del 10 e 11 novembre ha sancito un cambiamento degli equilibri internazionali di portata epocale.

Perché se è vero che nel forum dell’Apec – formato da 21 paesi che si affacciano sulle due sponde dell’Oceano Pacifico, creato in contemporanea con la caduta del blocco sovietico, e il cui interscambio è pari al 48% del commercio mondiale – ognuna delle grandi e piccole potenze ha cercato di curare i propri interessi con contratti e accordi a tutto campo e a geometrie variabili, è vero anche che l’edizione 2014 ha sancito l’emersione definitiva della potenza economica e politica cinese, il rafforzamento dell’asse tra Cina e Russia, la battuta d’arresto per gli Stati Uniti.

Innanzitutto perché di fatto l’Apec ha scelto di seguire la Cina sull’avvio, anche se per ora timido e sperimentale, di un trattato di commercio incentrato sull’Asia e alternativo e concorrenziale rispetto al Tpp, proposto da Washington ad alcuni paesi dell’area che invece escludeva proprio Pechino e Mosca.
Segno che l’egemonia statunitense in Asia sta subendo una importante frenata, e che il tentativo da parte di Washington di recuperare sul piano militare, espandendo la sua presenza diretta dall’Australia alle Filippine alla Corea del Sud, non è affatto sufficiente a contrarrestare un processo di allontanamento dei paesi dell’area dagli interessi a stelle e strisce. Anzi, probabilmente, la maggiore aggressività militare ed economica di Washington funziona al contrario da accelerante nei confronti di paesi che, se anche soffrono l’invadenza economica cinese, cominciano a preferire decisamente Pechino rispetto al caro vecchio Zio Sam. Qualcuno in patria addebita la sconfitta agli errori di Obama e del suo team di esperti poco accorti, ma appare chiaro che siamo di fronte ad una svolta di tipo storico con l’emergere di nuove potenze capaci di tenere testa a quella che ormai è giusto definire una ‘superpotenza in declino’. Certo, il fatto che l’attuale ambasciatore statunitense a Pechino affermi di non essere un vero esperto di Cina la dice lunga sulla confusione che regna da quelle parti.
E invece la Cina, che certamente giocava in casa, ha mirato a sviluppare le sue relazioni e la sua egemonia a tutto campo. Non solo ottenendo un mega accordo con la Russia sul gas ma avviando il disgelo con il Giappone. Bisognerà vedere quanto durerà viste le aspirazioni da grande potenza dei nazionalisti al potere a Tokio ma comunque un passo avanti rispetto al muro contro muro degli ultimi anni, sia per il contenzioso sulle isole Senkaku/Diaoyu, sia per il sensibile riarmo del Giappone in chiave anticinese e in simbiosi con la strategia bellicista degli Stati Uniti nella regione.

Non solo. Perché Pechino ha portato a casa anche un importantissimo trattato di libero scambio con la Corea del Sud. Per non parlare del fatto che molti degli accordi siglati tra Xi Jinping e Obama – nei settori commerciale, militare, anti-terrorismo, energetico, sul cambiamento climatico, la salute, le infrastrutture – porteranno benefici più alla Cina e alla sua crescente proiezione internazionale che agli Stati Uniti.
E’ innegabile che il summit di Pechino si sia decisamente concluso a favore della Cina che ha esplicitamente proposto ai suoi partner, incassando un sostanziale accordo, una agenda per i prossimi anni incentrata su un ordine regionale basato sulla prevalenza di Pechino e su una almeno teorica convivenza con gli interessi statunitensi.
Di fronte a parecchie centinaia di imprenditori, il leader cinese ha esaltato il ruolo della Cina nell’economia mondiale, facendo notare che gli investimenti cinesi in uscita nei prossimi 10 anni toccheranno quota 1250 miliardi di dollari. Xi Jinping ha poi spiegato la sua teoria della “nuova normalità” a proposito di crescita, basata su un incremento annuo del Pil meno accentuato rispetto a quello degli ultimi trent’anni (che è stato intorno al 10%), sul miglioramento progressivo della struttura economica interna e sulla preminenza dell’innovazione rispetto agli investimenti.
Inoltre il leader cinese ha poi annunciato che Pechino investirà ben 40 miliardi di dollari nel fondo per lo sviluppo infrastrutturale dedicato alla Silk Road Economic Belt, una riedizione della ‘Via della Seta’ basata su un progetto infrastrutturale multimodale che collegherà il gigante asiatico all’Europa attraverso una rotta terrestre (che ricalca la Via della Seta storica) e una marittima. Una strategia mirante a ridurre la dipendenza dell’area dall’egemonia statunitense sulle vie di comunicazione marittime e che potrebbe spingere Pechino a mantenere un ruolo più attivo in politica estera, in particolare ricercando una maggiore stabilità sia in Asia Centrale che in Medio Oriente ovviamente entrando in collisione con i piani di destabilizzazione statunitensi e con le sortite dell’Unione Europea.

Sui risultati e sui contenuti del recente vertice Apec vi proponiamo due articoli che ci sembrano chiarire bene l’essenza di un vero e proprio ridisegno degli equilibri e dei rapporti di forza internazionali, a tutto vantaggio della Cina e al di là delle narrazioni occidentali costruite a partire da questioni che, nelle relazioni tra le grandi potenze, appaiono sinceramente assai secondarie.

Apec: un vertice da ricordare

ONEURO – REDAZIONE (http://www.eunews.it/)

Il 10 e 11 novembre si è svolto a Pechino il summit dell’Asia-Pacific Economic Council (Apec), un organismo nato nel 1989 e oggi comprendente 21 paesi, nato per favorire la cooperazione economica, il libero scambio e gli investimenti nell’area asiatico-pacifica (nota anche come Pacific Rim). L’incontro è passato in sordina sulla stampa internazionale, ma un domani forse guarderemo indietro a queste due giornate come a uno spartiacque nella storia della regione (e non solo). Come ha scritto Paolo Mastrolilli sulla Stampa:

In teoria, era un incontro tra ventuno paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, finalizzato a definire nuovi accordi per favorire gli scambi commerciali. Nella pratica, però, il vertice Apec che si è appena tenuto a Pechino è stato un delicato esercizio di rapporti di forza, che potrebbe avere implicazioni molto più vaste degli equilibri nella regione. In sostanza un braccio di ferro a tre, fra l’ultima superpotenza rimasta al mondo ma colpita dalla sindrome della decadenza, la nuova potenza emergente, e l’ex superpotenza che si agita per restare rilevante.

Ovviamente stiamo parlando degli Usa, della Cina e della Russia. Come spiega Mastrolilli, “l’Apec viene vista in maniera diametralmente opposta, a seconda della capitale che la osserva”:

Per gli Usa, superpotenza in difficoltà, serve ad affermare la loro leadership in Asia, contenere l’espansionismo della Cina, e bloccare le aspirazioni di rivincita della Russia. Per la Repubblica popolare, invece, è lo strumento con cui affermare la propria supremazia regionale, e oltre, mentre per la Russia è un forum utile a mettere i bastoni tra le ruote dell’America, facendo asse proprio con Pechino.

Obama ha dichiarato che le relazioni globali moderne non sono più un gioco a somma zero: non è più vero che la sicurezza e la prosperità di una grande potenza debbano necessariamente venire a scapito di un’altra. Nel mondo globalizzato, insomma, c’è abbastanza spazio per il successo degli Usa, della Cina e della stessa Russia. Ma a queste parole di rito non sembra credere nessuno, neanche Obama stesso. E lo dimostra “il braccio di ferro a tre” che si è svolto dietro le quinte e ai margini del summit. Giocato tutto sul terreno della promozione di una serie di accordi di libero scambio da cui risulta escluso il rispettivo rivale. A farla da padrone due “mega-accordi” in particolare: da un lato il Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’accordo di libero scambio che gli Usa stanno negoziando con 11 paesi dell’Asia Pacifico (ma che esclude la partecipazione di Cina e Russia), e che viene considerato da molti come uno strumento finalizzato ad arginare l’influenza della Cina nella regione, e un’estensione della politica di espansionismo militare che gli Stati Uniti portano vanti da anni in Asia (detta “pivot to Asia”); dall’altro il Free Trade Area of the Asia-Pacific (Ftaap), cioè l’area di libero scambio proposta dalla Cina in contrapposizione al Tpp.

Sul tema, Obama è stato molto chiaro fin da subito: nell’intervento tenuto lunedì dal presidente di fronte ai top manager delle principali compagnie delle 21 economie che compongono l’Apec, Obama ha riaffermato la necessità della leadership globale del suo paese e il suo status di “potenza del Pacifico”, con le ovvie implicazioni riguardo alle ambizioni cinesi. Sempre lo stesso giorno, in un gesto che ha il sapore di una provocazione verso le autorità cinesi, Obama ha presieduto a un vertice presso l’ambasciata americana con i leader degli altri 11 paesi che dovrebbero far parte del Tpp.

Ma stavolta fare la voce grossa è servito a poco. Alla fine l’ha spuntata la Cina, forte anche della sua vicinanza con la Russia, ottenendo l’approvazione dei membri dell’Apec ad avviare una “iniziativa di studio”, della durata di due anni, sull’Ftaap. Si tratta comunque di una soluzione di compromesso: pare che il presidente cinese Xi Jinping fosse intenzionato ad usare il summit per lanciare i negoziati sul trattato in maniera formale, ma sia stato costretto a rinunciare su pressione delle autorità statunitensi. Ma è un pur sempre una vittoria per la Cina, che dimostra la crescente insofferenza della Repubblica popolare nei confronti della politica egemonica degli americani in quello che i cinesi considerano il loro “cortile di casa”. E, forse, la volontà della Cina di cominciare a sfruttare il privilegio che le dà il fatto di avere un enorme credito nei confronti degli Usa (una posizione non dissimile da quella della Germania nei confronti della periferia dell’eurozona). E infatti il presidente statunitense è apparso piuttosto isolato al summit. Forse non vuol dire niente, ma ha fatto molto discutere la foto di gruppo che vede Obama relegato ai margini, in quello che le malelingue hanno definito “il club delle mogli”.

Nel frattempo il braccio di ferro Usa-Cina prosegue sul fronte degli accordi bilaterali. La Cina ha appena concluso un trattato di libero scambio con la Corea del Sud e un altro simile sembra essere in dirittura d’arrivo con l’Australia. Nei giorni scorsi, inoltre, Cina e Russia hanno siglato un secondo importante accordo di fornitura di gas naturale dopo quello sottoscritto a maggio. Ma c’è anche l’accordo tra Cina e Stati Uniti per l’abbattimento delle tariffe sui componenti tecnologici, un primo terreno di prova per l’Ftaap.

 

Dopo Apec gli equilibri non saranno più gli stessi

Paolo Mastrolilli – La Stampa

In teoria, era un incontro tra ventuno paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, finalizzato a definire nuovi accordi per favorire gli scambi commerciali. Nella pratica, però, il vertice Apec che si è appena tenuto a Pechino è stato un delicato esercizio di rapporti di forza, che potrebbe avere implicazioni molto più vaste degli equilibri nella regione. In sostanza un braccio di ferro a tre, fra l’ultima superpotenza rimasta al mondo ma colpita dalla sindrome della decadenza, la nuova potenza emergente, e l’ex superpotenza che si agita per restare rilevante.

Se la Nato serviva a “tenere gli Usa dentro l’Europa, l’Urss fuori, e la Germania bassa”, come si usava dire un tempo, l’Apec viene vista in maniera diametralmente opposta, a seconda della capitale che la osserva. Per gli Usa, superpotenza in difficoltà, serve ad affermare la loro leadership in Asia, contenere l’espansionismo della Cina, e bloccare le aspirazioni di rivincita della Russia. Per la Repubblica popolare, invece, è lo strumento con cui affermare la propria supremazia regionale, e oltre, mentre per la Russia è un forum utile a mettere i bastoni tra le ruote dell’America, facendo asse proprio con Pechino.

I risultati pratici sono già indicativi di queste rivalità. L’Apec, infatti, ha approvato l’idea di esplorare la creazione della Free Trade Area of the Asia-Pacific (FTAAP), cioè l’area di libero scambio proposta dalla Cina, che viene vista in contrapposizione con la Trans-Pacific Partnership (TPP), cioè l’intesa commerciale favorita invece dagli Stati Uniti, che appunto esclude i loro due rivali più pericolosi. Naturalmente nelle sue dichiarazioni ufficiali il presidente Obama ha detto che vuole una Repubblica popolare prospera, anche se più rispettosa dei diritti umani e magari avviata verso forme di partecipazione politica più democratica. Lo stesso ha affermato Pechino, che infatti ha appena siglato due accordi con Washington, per ridurre le barriere commerciali bilaterali e facilitare i visti per consentire l’ingresso dei rispettivi cittadini. Nel frattempo, però, la Cina si è impegnata ad acquistare il gas russo, che da una parte serve a garantirle le risorse energetiche di cui ha bisogno per crescere, e dall’altra sembra una sponda politica offerta a Putin, dopo le tensioni con Europa e America provocate dalla crisi ucraina.

Il capo della Casa Bianca ha detto che le relazioni globali moderne non sono più un “zero sum game”, un gioco a somma zero. Dunque non è più vero che la sicurezza e la prosperità di una grande potenza debbano necessariamente venire a scapito di un’altra. Nel mondo globalizzato, insomma, c’è abbastanza spazio per il successo degli Usa, della Cina, e della stessa Russia, se decidesse di tornare a comportarsi da paese responsabile. Pechino non sembra proprio convinta che le cose stiano così, mentre secondo il Financial Times Putin si prepara a ri-dichiarare Washington un suo avversario. Il capo del Cremlino infatti è convinto che la crisi ucraina abbia segnato un punto di svolta definitivo nelle relazioni tra i due ex rivali della Guerra Fredda, e il successore di Obama sarà inevitabilmente ancora più duro contro di lui. 

Tutta questa lotta di potere si è svolta dietro le quinte dell’Apec, e naturalmente continuerà ben oltre il vertice di Pechino, con l’Europa sostanzialmente alla finestra. Alleata degli Usa, soprattutto nel tentativo di contenere la Russia, ma obbligata a trovare i suoi spazi in Asia, perché senza i mercati di questo continente le sue aziende non possono competere con quelle americane. Un rompicapo di difficile soluzione, insomma, dove le manovre per determinare i futuri equilibri geopolitici globali sono appena cominciate.

 

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