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Il gioco al massacro di Petro Porošenko

Mentre a Minsk sono iniziati gli ennesimi colloqui del cosiddetto Gruppo di contatto; mentre l'ONU qualifica di “violazione diretta degli accordi di Minsk” i recenti violenti scontri riaccesisi negli ultimi quattro giorni nel Donbass e invita “tutte le parti a cessare immediatamente le azioni offensive e osservare in pieno il cessate il fuoco”; mentre due persone sono rimaste uccise stamani per il bombardamento sull'ospedale N.2 di Makeevka e altre tre ferite, a bordo di un'autoambulanza colpita dalle granate ucraine; mentre sono stati feriti anche due minatori della miniera Ščeglovskaja-Glubokaja di Makeevka, una anziana donna è rimasta uccisa poco fa da un colpo di mortaio mentre stava raccogliendo carbone e colpi di artiglieria sono caduti anche nell'area di Jasinovataja in cui stava operando stamani la missione Osce; mentre tutto questo accade, la situazione non accenna a “normalizzarsi” nel Donbass, nonostante il cessate il fuoco proclamato, ancora una volta unilateralmente, dalle milizie della DNR.

Kiev sta "consapevolmente prendendo di mira impianti industriali, col rischio di provocare disastri ecologici", denunciano da DNR e LNR. Sotto i tiri delle artiglierie ucraine rimangono tuttora i quartieri settentrionali di Donetsk, Avdeevka, Jasinovataja e, a dispetto della sceneggiata di Petro Porošenko, che lunedì scorso aveva dichiarato platealmente di dover interrompere la propria visita in Germania (in realtà il programma era già terminato) a causa “dell'attacco dei ribelli filorussi”, oggi il Ministero delle difesa ucraino ammette di condurre un'operazione offensiva nel Donbass. L'ammissione, seppur indiretta, è del vice Ministro della difesa, Igor Pavlovskij – “a oggi, in qualche maniera, ma metro dopo metro, passo dopo passo, i nostri ragazzi sono avanzati eroicamente” – che però, riferisce la Tass, ha evitato di dire qualcosa sulla questione del ritiro delle artiglierie pesanti dalla linea di contatto, come previsto dagli accordi di Minsk.

Ieri, addirittura il Dipartimento di stato USA aveva invitato all'immediato cessate il fuoco e ad assicurare l'accesso agli osservatori dell'Osce, mentre oggi il Consiglio di Federazione russo (Senato) ha rivolto un appello ai deputati della Rada per la cessazione dell'aggressione al Donbass. “I militari ucraini stanno conducendo un fuoco mirato con armi pesanti, in risultato di che vengono uccisi dei civili" ha dichiarato il presidente della Commissione esteri del Senato russo, Konstantin Kosačëv, aggiungendo che "questa provocazione somiglia molto a uno spettacolo ben orchestrato" per minare gli accordi di Minsk.

Ma Jurij Selivanov, in disaccordo con l'appello lanciato alla Rada dal Senato russo e in virtù del fatto che un tribunale di Mosca ha recentemente giudicato la Rada partner di fatto del golpe del 2014 e definito illegittimo l'insieme dell'attuale regime ucraino, ritiene non adeguato tale appello, rivolto a “un ammasso di traditori di stato” e, di contro, afferma che, nell'interesse della sicurezza russa, “l'unico modo efficace di neutralizzare l'insensata politica di Kiev potrebbe essere il riconoscimento de jure delle Repubbliche del Donbass”. Non è degno di “un organo costituzionale russo” afferma Selivanov, “rivolgersi su un piano di parità a evidenti criminali” e anche se “si può umanamente comprendere la preoccupazione dei senatori per le sorti della popolazione civile”, l'appello lascerà il tempo che trova, di fronte a un attacco portato in larga parte dai battaglioni neonazisti, su cui la Rada non ha praticamente controllo. Ma cosa farà Mosca, si chiede Selivanov, di fronte a un'altra guerra su larga scala, con centinaia di migliaia di profughi la cui unica via di scampo, come nel 2014, sarà a est? Non sceglierà certo la strada dell'intervento militare; piuttosto, dimostrata “la totale incapacità del regime di Kiev a rimuovere in modo esaustivo la minaccia di un esodo di massa dal Donbass, Mosca ha il diritto (letteralmente: dal punto di vista del diritto internazionale) di appoggiare le forze in grado di venire a capo della questione: DNR e LNR”. E ciò può esser fatto solo con “un significativo allargamento delle aree liberate e ricacciando le bande terroristiche del regime di Kiev a una distanza di sicurezza per la popolazione civile”. Tanto più che oggi le condizioni sarebbero favorevoli: Kiev non é più vista “sempre dalla parte della ragione” come prima e Mosca è riconosciuta quale potenza che ha diritto, per la propria sicurezza, di appoggiare quelle forze che assicurino la stabilità nel Donbass.

Aleksandr Sevidov, su news-front.info, parla di “intenzionale Avdeevka”, la città di trentacinquemila abitanti su cui maggiormente si è concentrato l'attacco ucraino degli ultimi giorni, che non sta risparmiando però nemmeno Zajtsevo, Stanitsa Luganskaja, Kominternovo, Makeevka e la stessa Donetsk. La guerra nel Donbass, secondo Sevidov, sarebbe oggi l'unico e ultimo motivo a tenere insieme la junta ucraina, di fronte alla bancarotta economica, all'affamamento sociale (un sondaggio condotto a metà dello scorso dicembre dall'Istituto sociologico internazionale di Kiev dava al 13% l'indice di fiducia degli ucraini per Porošenko), all'isolamento rispetto ai vari padrini esterni del golpe. L'offensiva degli ultimi giorni è la prima di rilievo, dopo le furiose battaglie dell'inverno-primavera 2015 (Debaltsevo, Širokino, aeroporto di Donetsk) conclusesi tutte con pesanti sconfitte delle armi ucraine e, con ogni evidenza, scrive Sevidov, l'obiettivo di Kiev di esaltare la stanca opinione pubblica nazionale con una “vittoria” che riporti “Crimea e Donbass all'Ucraina” e conduca i soldati di Kiev a “una parata sulla Piazza Rossa”, pare destinato ancora una volta a infrangersi. Obiettivo di Porošenko è quello di dimostrare che i destini del mondo non si decidono in Siria o nelle campagne anti-Trump e che i crediti del FMI (che pure stentano ora a rinnovarsi) sono ben spesi, se si concedono a chi combatte “la minaccia russa”. Finché alla Casa Bianca sedevano i vecchi inquilini, era sufficiente colpire un autobus a Volnovakha e poi portarne un frammento a Parigi alla parata di “Je suis Charlie”, oppure dichiarare di aver fatto prigioniero un intero reparto di generali russi e mostrarne i passaporti per “dimostrare l'aggressione russa”. Ma oggi il vento non sembra più soffiare a favore di Kiev: come reagirà l'occidente all'attacco ucraino?

In questo senso, ancora su news-front.info, Gevorg Mirzajan parla apertamente di “harakiri politico di Petro Porošenko” che, con l'attacco di questi giorni, avrebbe tentato di riconquistare gli sponsor occidentali, con Washington che però pare aver passato a Berlino la mano ucraina. Una mossa rischiosa, quella di Petro, perché, scrive Mirzajan, Washington e Berlino, proprio ora che necessitano di calma per ridefinire i rapporti con Mosca, potrebbero non dimenticare il suo ricatto e darlo in pasto ai nemici interni. Sarà un caso che, proprio la settimana scorsa, a Washington fosse andata Julija Timošenko e non il presidente.

"Secondo noi” ha dichiarato il consigliere presidenziale Jurij Ušakov, “attraverso quest'ultima volgarissima provocazione, Kiev intende sondare il livello di disponibilità della nuova amministrazione americana ad appoggiare ogni sortita militare ucraina”, mentre, “paradossalmente, le sanzioni UE e USA per la mancanza di progressi negli accordi di pace di Minsk continuano essere rivolte contro la Russia”. Accordi di Minsk che, d'altronde, Dmitrij Rodionov giudica carta straccia; accordi che Porošenko era stato costretto a sottoscrivere quando le forze ucraine erano accerchiate a Debaltsevo, nel febbraio del 2015. Kiev aveva sottoscritto il patto, contando sull'osservanza di esso da parte delle milizie, mentre le truppe ucraine, per due anni, hanno bellamente ignorato ogni suo punto, a partire dallo status del Donbass e il ritiro delle armi pesanti dalla linea del fronte. Ma le condizioni sono cambiate: né Washington, ne l'Europa sembrano oggi così ansiose di appoggiare Kiev e anzi, insinua Rodionov, chissà che la sua pelle non sia già stata venduta nella conversazione telefonica Trump-Putin, anche se oggi il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov ha dichiarato che, nel corso della telefonata, “l'accento è stato posto solo sulla necessità di una rapida soluzione della questione ucraina”.

In ogni caso, che l'attacco delle forze regolari ucraine di questi giorni sia avvenuto veramente, come proclamato da Kiev domenica scorsa, per tener dietro alle azioni “autonome” dei battaglioni neonazisti o sia iniziato invece su ordine diretto della junta golpista, la prognosi di Rodionov è che Porošenko e la sua corte abbiano i giorni contati. Vedremo.

 

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