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La transizione politica negli USA e la fine dell’egemonia statunitense

Questo martedì le borse nord-americane hanno salutato positivamente l’inizio della transizione di poteri tra l’amministrazione uscente repubblicana e quella democratica. +1,5 del Dow Jones ed +1,6 dello S&P500 fotografano il sentiment dei mercati per il superamento di questo scoglio.

Donald Trump, nonostante non riconosca tutt’ora l’esito del voto, aveva detto lunedì che la sua amministrazione avrebbe iniziato a cooperare con il team di “transizione” di Joe Biden, a venti giorni dalle contestate elezioni del 3 novembre ed a meno di due mesi dall’insediamento effettivo del nuovo Presidente.

Tale decisione è senz’altro il prodotto delle pressioni del big business e del moltplicarsi delle voci non concordi, all’interno del suo partito, con la battaglia di Trump contro le presunte frodi elettorali. “Illeciti” che sembrano non avere alcuna evidenza empirica, tanto da costringere alla resa anche i politici repubblicani che avevano sostenuto all’inizio l’azione di The Orange Man.

Lo stesso lunedì, con una lettera firmata da Larry Fink di BlackRock, David Solomon di Goldman Sachs e da altri 160 amministratori delegati di società di spicco dell’economia statunitense, si è mmanifestata la  preoccupazione per ulteriori rimandi in grado di minacciare i tentativi nord-americani di riprendere il controllo della salute pubblica e delle crisi aziendali causate dal Covid-19.

La lettera era stata scritta dall’organizzazione no-profit Partnership for New York City.

Anche la potente lobby economica Business Roundtable, composta dai maggiori gruppi statunitensi, si è felicitata dell’annuncio della GSA, la General Services Administration – l’agenzia che fornisce le risorse per la transizione – affermando che tale decisione darà alla squadra di Biden “accesso alle risorse critiche che sono necessarie per affrontare la pandemia, ricostruire l’economia statunitense e confrontarsi con altre questioni impellenti dal primo giorno”.

Tali prese di posizione sono il frutto di un coro “crescendo di preoccupazione” bipartisan – cui si era associato un altro gruppo di amministratori delegati venerdì scorso, The Leadership Now Project – che ha attraversato l’élite economica affinché il presidente subentrante potesse iniziare ad operare fin dal giorno del suo insediamento, il 20 gennaio.

Anche negli USA i veri grandi elettori sono “i mercati” e l’agenda politica viene di fatto dettata dall’establishment economico.

“Ogni giorno che il processo di transizione ordinaria viene rimandato” – hanno scritto Larry Fink e soci – “la nostra democrazia diventa più debole agli occhi dei nostri cittadini e la statura della nazione nell’arena internazionale ne risente”.

Quindi Trump esce di scena – per ora – piuttosto in sordina e Biden si trova ad affrontare una situazione in cui la crisi sanitaria, quella sociale e quella della leadership internazionale degli USA sono i tre principali nodi che dovranno essere affrontati in un Paese profondamente spaccato.

Lo staff Biden che sta componendo  dà alla futura amministrazione un profilo di assoluta continuità rispetto alle precedenti amministrazioni democratiche, Clinton e Obama, come testimoniano i curricula degli uomini e delle donne chiave già nominati od in procinto di ricevere un incarico.

Tutti tecnocrati spesso con ruoli già rilevanti durante l’amministrazione Clinton, responsabili del nefasto interventismo militare statunitense in politica estera e delle politiche neo-liberiste all’interno, che nel consueto sistema di “porte girevoli” passano da un incarico amministrativo apicale al ruolo di insegnante in una prestigiosa università per le élite, all’essere membri di spicco di un think tank o membro di qualche consiglio di amministrazione.

Come afferma il Qiao Collective, in una ricerca sulle basi materiali della politica anti-cinese per ciò che concerne l’apparato militar-industriale: «Per non essere da meno, i veterani della politica estera dell’amministrazione Obama si sono arricchiti formando “società di consulenza strategica” che sfruttano la loro condizione di insider per favorire le società di armi nelle gare per i contratti federali.

Michèle Flournoy, tra i papabili per il ruolo di segretario alla difesa, è stata sottosegretario nello stesso inistero dal 2009 al 2012, fondatrice del gruppo di consulenti di geopolitica aziendale WestExec Advisors e co-fondatrice del Center for a New American Security, un think tank che diffonde report sulla cosiddetta “minaccia della Corea del Nord”, finanziata dai enti statali e dall’industria militare.

La presenza di un personaggio come Flournoy in una posizione istituzionale così importante lascia intendere chiaramente che un’amministrazione Biden non porterebbe nulla di nuovo nel panorama politico internazionale, con un ulteriore incremento di contratti sospetti con i vecchi amici nel settore della sicurezza.»

Se, come sembra, il 5 gennaio le elezioni suppletive in Georgia, per scegliere i due senatori dello Stato, daranno la vittoria ai repubblicani, il Senato rimarrà in mano ai conservatori, che possono contare anche su una netta maggioranza alla Corte Suprema di 6 membri contro 3. I repubblicani quindi hanno già  una maggioranza schiacciante in uno dei perni del sistema politico nord-americano di check and balance, che a differenza di Congresso e Senato, non è elettivo e le cui cariche durano a vita.

Nel suo primo discorso dopo l’inizio della transizione dei poteri, Joe Biden ha posto l’accento sulla necessità di affrontare la crisi pandemica, “depoliticizzando” quelle misure minime di profilassi sanitaria che hanno incontrato tanta resistenza nella scorsa amministrazione e nel corpo sociale statunitense, ribadendo l’importanza di avere un approccio scientifico.

Il neo-presidente sceglie una metafora bellica per sottolineare l’importanza della sfida: “siamo in guerra con il virus”.

Il consiglio di limitare gli spostamenti durante i 5 giorni di festa del Ringraziamento (Thanksgiving Day), – ribadito da Biden dopo le indicazioni della CDC –  non sembra avere avuto un esito positivo, con decine di milioni di statunitensi in viaggio per raggiungere parenti ed amici.

Anche se in proporzione minore degli scorsi anni – un -10% sembra essersi spostato in auto ed un -58% in aereo – le cifre degli spostamenti sembrano comunque consistenti; l’esatto contrario di quello che ci sarebbe voluto per limitare la catena del contagio.

I dati di mercoledì confermano infatti la tendenza emersa da circa un mese: i contagiati sono più di 180.000 mila, mentre salgono ulteriormente i decessi (quasi 2.300) – numeri che non si vedevano da maggio – con i ricoverati che sfiorano i 90 mila e i letti in terapia intensiva che si stanno esaurendo.

Con uno Stato Federale di fatto inefficace, e l’azione dei singoli Stati abbondantemente frammentata ed insufficiente, gli spostamenti di questi giorni potrebbero essere un gigantesco vettore della diffusione del virus, tenuto conto del fatto che bar e ristoranti – tra i maggiori cluster di contagio per lavoratori e clienti – nella stragrande dei casi rimangono aperti.

In sintesi, con queste premesse, la situazione medica potrebbe ulteriormente precipitare.

Sul piano sociale, la situazione non è certo più rosea.

Per la seconda settimana consecutiva il numero dei nuovi disoccupati che chiedono il sussidio è aumentato: sono 827.000, 78.000 in più rispetto alla precedente.

Altre 312.000 persone hanno fatto richiesta per i benefit previsti dal programma federale Pandemic Unemployement Assistance, che copre free-lance, “auto-impiego” e altri che non rientrano nei criteri statali per ottenere la disoccupazione.

Redditi e consumi sono già in calo da ottobre, comunque.

A fine dicembre spireranno due dei programmi approvati all’inizio di questa primavera, di cui  beneficiano 14 milioni di statunitensi. Circa 9 milioni con il Pandemic Unemployement Assistance program, altri 4 milioni e mezzo invece attraverso il Pandemic Emergency Unemployement Compensation, che aggiunge 13 settimane di fruizione del sussidio alle 26 previste nella maggior parte degli Stati.

Anche i regolamenti federali che bloccavano gli sfratti e permettevano di rimandare i pagamenti delle rate del mutuo casa, così come i debiti contratti dagli studenti universitari, “si estingueranno”.

L’attuale amministrazione uscente può decidere di prorogarli o meno, come ha fatto – non reiterandoli, però – con alcuni provvedimenti di sostegno all’economia, in particolare nei confronti delle piccole e medie aziende, contrariamente a quando suggerito dalla Federal Reserve.

Questo accresce il margine già ampio di contrattazione dei repubblicani nei confronti della prossima amministrazione, che a maggior ragione dovrà venire a patti con Trump e scaricare la sua “ala sinistra”.

Un banco di prova concreto saranno i provvedimenti che prenderà Biden durante i primi 100 giorni del suo mandato, come ha ribadito Bernie Sanders in un preciso intervento sul The Guardian, determinando se si schiererà dalla parte delle famiglie della working class nord-americana o contro di esse, di fatto spianando la strada successo per una futuro successo di Donald Trump o di suoi simili.

Sul piano della politica internazionale, era chiaro da tempo quale sarebbe stato l’indirizzo politico di una amministrazione democratica che sbandiera un “multilateralismo” di facciata, ma che reitererà l’eccezionalismo nord-americano, compreso il profilo militare dei suoi interventi in politica estera, sotto l’ombrello della NATO, cercando di coordinare un pressing contro la Cina che coinvolga altri soggetti, Unione Europea in primis, e contro le esperienze progressiste latino-americane.

La situazione è in rapida evoluzione e non sembra arridere agli Stati Uniti: si pensi alla firma del trattato di libero scambio (RCEP) da parte di 15 Paesi asiatici, che dà la cifra del flop della politica del Pivot to Asia inaugurata da Obama, o del fatto che l’Unione Europea non vuol desistere dal ricercare una propria autonomia strategica (si ritrova da un lato Cina e Russia come competitor nella sua “naturale” zona di espansione, dall’Africa all’Asia Centrale, e con la Turchia che intraprende una politica sempre più aggressiva).

I desiderata di Washington, per un ritorno ad una ipotetica situazione di status quo ante, sono quindi wishfull thinking, e nulla più; capaci forse di rassicurare l’opinione pubblica sul ruolo ormai esaurito degli Stati uniti nel mondo, ma non di determinare la situazione nel concreto. Non senza strappi forti, almeno.

“Guideremo il mondo con il potere del nostro esempio, non solo con l’esempio del nostro potere”, ha affermato mercoledì Biden.

La promessa vera sta in quel “non solo”. Il resto è vuota retorica per un Paese spaccato e permanentemente instabile.

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