Mai nessuno nella storia degli Stati uniti era entrato nei palazzi del potere per dimostrare la propria insofferenza verso l’amministrazione della Repubblica federale. Lo stesso Black Panther Party nel 1967 si limitò a quello dell’assemblea legislativa di Sacramento, in California.
Se aggiungiamo che ad «assalire» il Congresso, secondo l’espressione del prossimo Presidente Joe Biden, sono stati gli stessi cittadini amerikani, la portata storica di quanto accaduto il 6 gennaio a Capitol Hill è presto detta.
Un fulmine forse non a ciel sereno, ma di certo imprevisto, come testimonia la scarsa (quanto accondiscendente) sorveglianza presente all’entrata del Congresso, peraltro nelle ore dello svolgimento di quella «transizione di potere pacifica» che «è il marchio della nostra democrazia», come la definì Barack Obama alla Casa Bianca alla luce della vittoria di Donald Trump nel novembre del 2016.
Il gigante ha mostrato i piedi d’argilla proprio nel cuore del suo organismo, poi però la reazione dell’“ordine” c’è stata, lontana dalle telecamere e dai luoghi simbolo: quattro morti, tra cui una veterana dell’aeronautica di San Diego (QAnonista) uccisa da un colpo d’arma da fuoco sparato da un agente, le altre ufficialmente per “emergenze mediche”.
E fin qui i fatti, quel che appare della realtà storica in corso d’opera, la fotografia del film che scorre, lento, ma inesorabile. Ma qual è il significato “profondo” – che non significa nascosto, ma più difficile da individuare nell’apparente caos della quotidianità – che possiamo trarre dagli eventi di Washington Dc?
La storia è la storia della lotta di classe, e senza l’analisi di “chi insorge contro chi” non si capisce cosa c’è realmente in ballo nei casi presi singolarmente.
Da un punto di vista sociologico, il sostenitore di Trump che ha fatto irruzione nelle stanze del Congresso è il perfetto figlio del modello borghese statunitense, bianco, di solito maschio, non giovane, individualista e strenuo difensore della proprietà privata, credente ma soprattutto credulone, frutto del sistema educativo a stelle&strisce che cura le eccellenze ma vomita nozioni di nulla sul resto della popolazione, che vive lontano dai grandi centri urbani, o al peggio nei suburbs (le periferie).
Da un punto di vista di classe invece si incarna nell’operaio o nell’ex operaio di fabbrica – figlio diretto dell’anticomunismo da Guerra fredda – tradito da 40 anni di mondializzazione del Capitale che ha portato la “produzione vera e propria” nell’ex terzo mondo; nel sottoproletariato bianko che sull’impulso razzista trova un orizzonte politico entro cui esprimere il disagio sociale.
Ma soprattutto nella piccola borghesia proprietaria già duramente colpita dalla crisi dei subprime nel 2007-08, ora al collasso per i colpi inferti dalla mala gestione della pandemia, una classe che soffre lo scarto impresso dalla deregulation neoliberista reaganiana degli anni Ottanta, che ha portato i profitti dall’economia reale alla rendita speculativa della finanza.
Un “mondo di mezzo” che sullo sfruttamento della “classe di sotto” ha basato l’arrivo degli sgocciolamenti dell’élite finanziaria, ma che ora nulla può più bere dinanzi alla morte di questo modello, tenuto in piedi soltanto dall’operato delle banche centrali e che ora chiede a gran voce l’aiuto del tanto vituperato Stato per la sua sopravvivenza.
A Capitol Hill dunque c’era la cosiddetta Amerika profonda, quella che ha “dovuto subire” otto anni di presidenza del “nero” Obama, che ha reagito con violenza alle ribellioni del “Black liberation movement” messe in moto a partire dal 2014, ma soprattutto quella fetta di società che sente come un tradimento la fine delle possibilità di arricchimento individuale e di scalata sociale imposte dalla fase politico-economica del paese.
Se nel 2016 Wall Street aveva scelto Trump per evitare le restrizioni paventate da Hilary Clinton in campagna elettorale, il protezionismo dell’amministrazione di “The Donald” ha fatto cambiare sponda al mondo della finanza, nonostante anni di rally sotto la sua presidenza, nella speranza che i Dem possano invertire la “ritirata statunitense” e aprire un dialogo finanziariamente prospero con gli altri blocchi geoeconomici (in primis la Cina).
Quel protezionismo su cui la piccola proprietà e l’aristocrazia operaia aveva individuato le basi di una possibile rinascita, del produrre e del comprare americano per il bene americano, di cui la punta dell’iceberg sono state le sanzioni contro il dumping salariale operato dalla filiera industriale messicana subfornitrice dell’automotive statunitense, nel tentativo di rendere meno competitiva quella forza lavoro e sostenere così l’occupazione interna.
Ma questo non è il primo fallimento dell’American dream. Era già successo negli anni Trenta, dove la vittoria nel conflitto bellico diede slancio a nuovo ciclo di accumulazione nel Secondo dopoguerra. Era successo anche a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, dove la risposta fu invece la finanziarizzazione dell’economia e un ciclo di accumulazione «flessibile», secondo la definizione di David Harvey, resa possibile dalla di lì a poco (storicamente parlando) caduta del blocco sovietico.
In termini strutturali, quello che gli Stati uniti e il “capitalismo occidentale” si prepara ad affrontare sembra essere un passaggio simile a quest’ultimo, in cui la borghesia transnazionale deve trovare una soluzione alla crisi di redditività.
Non potendo distruggere (guerra), e non essendo più sostenibile l’opzione speculativa (finanza, se non al prezzo di pericolosissime “bolle” per tutti), la risposta sembra essere quella della riconversione, ossia della sostituzione di merci secondo un modello eco-, ma di certo non socio-, sostenibile.
In termini di classe, la presa del Congresso assomiglia – con una suggestione che tale vuole rimanere – a quella della Bastiglia, in piccolo e di segno opposto, praticamente vandeano.
Nel 1789, la borghesia sconfisse l’aristocrazia per imporre il commercio, e non il sangue o dinastia, come principio guida dell’organizzazione sociale, operazione conclusa una volta per tutte con l’inizio del XX secolo.
Questa volta, l’élitè combattuta dagli assalitori è quella finanziaria, “sorella traditrice” del pezzo di classe borghese a rischio proletarizzazione dalla lunga crisi sistemica che il modello sta affrontando.
Chi manca all’appello in questo quadro sono i Sanculotti, o almeno la gran parte. Nel 1789 lottarono al fianco della borghesia, da cui furono traditi. Oggi, buona parte di questi hanno marciato nelle strade contro la violenza bianka di un sistema fondato sulla proprietà e sul razzismo, e nel medio periodo non potranno trovare nei democrats targati-Biden i difensori dei propri interessi di classe.
Se saranno in grado di trovare una via indipendente per entrare nella storia, questa tornerà a correre anche sul suolo nordamericano. Allora, le esperienze a sud del Rio Bravo e oltre la Florida potrebbero diventare non più uno spettro da combattere, ma un esempio da imitare.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
marco
più che la presa della bastiglia, se fossi uno storico come gibbon, paragonerei la presa di capitol hill al sacco di roma dei goti di alarico.
A differenza di quello dei vandali di genserico, fu molto ordinato, meno violento, le porte della città furono aperte e non espugnate, gli edifici pubblici rispettati e il prezzo del sacco addirittura concordato.
Quei goti infatti erano romanizzati e più che un saccheggio, volevano la compensazione di stipendi arretrati.
Ma il valore simboilico che gibbon da a quel passaggio è di portata epocale.
La violazione dell’urbe dopo secoli, mise in moto una concatenazioni di eventi, già maturati da tempo e pronti ad innescare l’effetto domino disgregativo della società romana che portò dritti dritti all’epilogo del 476
Gennaro Varriale
il profilo sociale di alcuni di quelli che hanno invaso il campidoglio smentisce le analisi che rendono il proletario bianco – vittima del mondialismo – il protagonista della furia anti-establishment dell’elettore di Trump. Molti sono infatti piccoli/medi borghesi
Giorgio Asti
Analisi ineccepibile, è una vita che lo sto dicendo inascoltato… traslando la situazione americana su quella italiana, non c’è dubbio che la Sinistra abbia perso sia gran parte della classe operaia che della piccola borghesia, la prima sempre più povera e precarizzata, la seconda col timore di perdere il benessere raggiunto e quindi di “proletarizzarsi”. Mentre la Destra sta raccogliendo tutto questo disagio sociale, la Sinistra è diventata autoreferenziale, o antistoricamente si è “democristianizzata”. Penso sia l’eterno problema della scelta tra la padella o la brace: la Sinistra è ormai compromessa col grande capitale e i poteri forti, la Destra fa la pifferaia magica fingendosi anti-sistema…