Questo venerdì il premier indiano Nerendra Modi ha annunciato di volere ritirare le tre leggi sull’agricoltura nella prossima sessione parlamentare che si svolgerà a fine mese.
È una vittoria storica per tutto il movimento contadino indiano che da più di un anno lotta contro questo pacchetto legislativo, teso alla privatizzazione delle politiche agricole ed alla cancellazione di fatto della regia pubblica del settore, favorendo i grandi gruppi dell’agro-business.
La protesta è stata diretta da una coalizione unitaria che raggruppa 32 organizzazioni riunite nella All India Coordination Commitee ed ha fatto convergere in maniera diversa tutti gli strati della società rurale, anche se vi è stato un coinvolgimento minore dei salariati agricoli propriamente detti.
L’annuncio del Primo Ministro è dovuto senz’altro alla paura di perdere le imminenti elezioni amministrative nel Nord dell’India, in particolare nel cruciale Uttar Pradesh – uno dei centri della protesta -, il che aprirebbe la strada ad una possibile sconfitta alle elezioni politiche del 2024.
Era quindi urgente non consumare ulteriormente il suo consenso e trovare una soluzione “temporanea”, considerato che tali provvedimenti non erano che un tassello di un puzzle più ampie di politiche neo-liberiste su cui vuole tirare avanti.
In ogni caso come scrive Arun Kumar sulla testata giornalista indipendente “The Wire”: «il ritiro delle leggi da parte del parlamento non porterà alla soddisfazione delle richieste degli agricoltori – sarebbero riportate al periodo precedente alla promulgazione delle leggi».
Queste richieste di miglioramento erano state ignorate dall’esecutivo nonostante le massicce mobilitazioni precedenti a quella di quest’anno.
Modi non ha chiesto scusa per le immani sofferenze provocate, né ha detto che cadranno le accuse giudiziarie montate pretestuosamente contro i kisans.
Le dinamiche politiche innestate in questa lotta hanno radicalmente cambiato il volto del Paese, nonostante la feroce repressione statale e la violenza para-fascista dei nazionalisti indù al governo.
Come ha scritto a febbraio P. Sainath, il decano dei giornalisti d’inchiesta indiani e profondo conoscitore della realtà contadina: «ogni tentativo di intimidazione verso la protesta ha avuto come effetto l’accrescimento del numero dei manifestanti. Ogni azione mirata a screditarne la protesta l’attenzione dei mass media asserviti – ottenendo però l’effetto opposto. La cosa più spaventosa è che tutto questo non impedirà al governo di intensificare gli sforzi, che diventeranno più autoritari, fisici e brutali». Cosa che il governo ha fatto.
Giova ricordare che l’attuale esecutivo ha come partito perno della sua maggioranza una formazione nazionalista indù che è il braccio politico di un movimento organizzato para-militare fortemente influenzato sin dalla sua nascita dal nazi-fascismo (RSS), responsabile anche negli ultimi anni di pogrom nei confronti delle minoranze cristiane e mussulmane e di una feroce repressione squadrista nei confronti dei contadini e di chi li sosteneva.
Le parole di un contadino di 70 anni del Punjab, Sardar Santokh Singh, ferito dal lancio ad altezza uomo dei lacrimogeni mentre dimostrava pacificamente il 27 novembre dell’anno ed intervistato da Rural India a febbraio danno la cifra della loro determinazione: “le pallottole non ci fanno paura”.
E infatti la repressione non è bastata, nemmeno l’appoggio internazionale all’esecutivo, sostenuto nella repressione dalle piattaforme private statunitensi della comunicazione digitale.
Il governo alla fine ha dovuto capitolare.
Per quanto l’attuale sistema indiano sia deficitario, e sia stato gradualmente trasformato dalle politiche neo-liberiste degli ultimi trent’anni, ha assicurato il raggiungimento dell’autonomia alimentare all’India dopo l’indipendenza ed è basato sulla produzione ad un prezzo concordato con l’autorità pubblica di alcune derrate alimentari e la loro vendita allo Stato, con un sistema di piccoli intermediari.
È assicurata una parziale redistribuzione alimentare che garantisce alla popolazione di non morire di fame in un contesto di generale impoverimento e di malnutrizione.
Un quadro quindi notevolmente migliorabile, come chiedono i contadini da anni, ma non “smantellabile”.
I provvedimenti legislativi erano stati introdotti lo scorso settembre, senza una vera discussione parlamentare, per poi essere “sospesi” per 18 mesi a gennaio di quest’anno dalla Corte Suprema, a seguito della lotta, con una commissione incaricata di trovare un impossibile compromesso tra gli attori in campo.
Il governo prendeva tempo, volendo giungere ad una riformulazione del pacchetto ma non al suo ritiro; i contadini ne chiedevano la cancellazione.
Hanno vinto i contadini che hanno pagato un prezzo altissimo in termini repressivi: circa 700 di loro sono morti, 200 per ipotermia, nei primi mesi della lotta, passati negli accampamenti attorno alla capitale.
Tali leggi avrebbero stravolto l’agricoltura indiana, principale fonte di sostentamento per circa il 60% della popolazione, praticata per più dell’80% da piccoli proprietari terrieri che posseggono solo qualche ettaro di terra.
Una porzione dell’economia che determina circa il 15% del Pil indiano e su cui volevano mettere mani in particolare due grandi gruppi che sono tra i principali sponsor del partito di maggioranza, il BJP, ed il capitale multinazionale.
I bastioni della protesta sono stati principalmente il Punjab e l’Haryana – il 3% del territorio totale dell’India, in cui vengono prodotti circa metà del riso e del mais dell’intera nazione – ma anche l’Uttar Pradesh.
«Le proteste sono diventate visibili a livello nazionale solo alla fine di novembre», ha scritto la ricercatrice Ravinder Kaur nei primi mesi dell’anno, «quando i sindacati contadini hanno dato l’ordine di marciare sulla capitale. “Chalo Delhi” (“andiamo a Delhi”)»
Questo è stato il giorno del più grande sciopero generale della storia dell’umanità, in cui il movimento operaio organizzato indiano ha protestato contro le riforme del lavoro neo-liberiste del governo.
I contadini indiani si sono infatti accampati a fine novembre scorso ai confini della capitale e martedì 26 gennaio di quest’anno sono entrati a Nuova Dehli per la prevista giornata di protesta Farmers Public Day Parade.
I dispositivi securitari non avevano potuto impedire alla marea umana dei 200 mila contadini accampati alla periferia della città di entrare nella capitale con trattori, pick-up e vetture attraverso le tre arterie principali.
Il 6 febbraio l’asse della protesta si era spostato dalla capitale, di fatto militarizzata come se si trattasse di una zona di guerra, a quasi tutte le regioni, non solo quelle più coinvolte, con le maggiori arterie auto-stradali nazionali e statali bloccate da contadini e solidali durante il Chakka jam.
E la settimana successiva, il 18 febbraio, la protesta si era spostata sui binari con il blocco dei treni, rail roko – promosso unitariamente – mentre la settimana seguente si era svolto un rally nel Punjab che aveva visto la partecipazione di più di 100 mila persone.
Impossibile dare conto in poche righe delle forme di sviluppo di questa storica lotta, ma forse uno dei momenti più significativi – ignorato bellamente dal femminismo mainstream – è stata la mobilitazione dell’8 marzo.
Come ha scritto Pritam Singh riferendosi alla lotta dei farmers indiani: «nessun movimento nella storia indiana – incluso il movimento per l’indipendenza dal dominio britannico – ha avuto questo grado di partecipazione femminile».
Un fatto epocale, quindi.
Per tornare alle reazioni dei dirigenti contadini, alla notizia del cedimento di Modi, questi hanno salutato positivamente il fatto, ma hanno anche comunicato che non smobiliteranno fino a che le leggi non verranno completamente cancellate.
La vittoria dei contadini, salutata con soddisfazione dalle varie formazioni marxiste presenti nel paese, è una tappa fondamentale della parabola discendente del governo indiano, uno dei principali alleati statunitensi nella regione nella politica di “contenimento” anti-cinese.
Come ha scritto Brinda Karat, membro del Politburo del Partito Comunista Indiano (Marxista) – CPI(M) – «Le classi lavoratrici indiane, i kisans ed i lavoratori hanno mostrato con il loro coraggio che la dittatura non funziona, che la dittatura può essere sconfitta.
La vittoria dei movimento contadino ha implicazioni più ampie e porterà fiducia a tutti coloro che si muovono nella parte della giustizia e dei valori della democrazia e del secolarismo scolpiti nella nostra costituzione».
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa